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La divisione dell’opposizione e il “lodo Franceschini”

di Franco
Ferrari

Il Senato ha discusso alcuni giorni fa della prosecuzione dell’invio di armamenti all’Ucraina per tutto il 2025. Di quali armamenti si tratti non è dato sapere visto che il Governo italiano, a differenza di altri paesi, ha mantenuto segreto il contenuto degli invii rendendo più difficile comprendere il reale coinvolgimento del nostro Paese nel conflitto.
Il ministro Crosetto ha ripetuto le abituali argomentazioni sulla necessità di “continuare a fornire sostegno all’Ucraina al fine di creare finalmente le condizioni per un cessate il fuoco e aprire un confronto diplomatico necessario per raggiungere una pace giusta e duratura”. Quali passi concreti e iniziative politiche nelle varie sedi il Governo italiano intenda promuovere affinché si apra questo auspicato “confronto diplomatico”, Crosetto non l’ha specificato e non si fa fatica ad immaginare che il silenzio non nasconda chissà quale lavorio riservato ma piuttosto che non si stia facendo nulla. Attendendo che sia qualcun altro a cercare una soluzione.
Il solito mantra sul continuare ad armare l’Ucraina per creare le condizioni del cessate il fuoco si è accompagnato ad un quadro realisticamente desolante della situazione sul terreno. La Russia avanza, a Kiev pesa sempre di più la carenza di militari da impegnare sul terreno. L’offensiva militare in territorio russo nella regione di Kursk non incide sull’andamento del conflitto. Sostiene anche il ministro che “il tempo, i materiali, i mezzi e le vittime non sono fattori che influenzano le decisioni di Putin”. A fronte di queste considerazioni si propone di continuare il percorso intrapreso negli ultimi anni, senza alcuna correzione, senza spiegare come tutto questo possa facilitare il raggiungimento di una “pace giusta e duratura”, anziché l’aumento del numero delle vittime e delle distruzioni.
L’unico elemento apprezzabile del discorso di Crosetto è il rifiuto di aderire alla retorica bellicistica e russofoba della Commissione Von der Leyen, nella quale alcune posizioni chiave in relazione al conflitto sono state affidate ai rappresentanti dei settori più oltranzisti dell’establishment politico europeo, i quali invocano la guerra senza limiti con la Russia. Il ministro ha dichiarato che “nessuno di noi si sente in guerra con la Russia”.
A fronte della posizione del governo che, al di là di una blanda e abbastanza ipocrita retorica in favore della pace, continua ad alimentare la prosecuzione del conflitto, le forze di opposizione si sono nettamente divise. La posizione più oltranzista è quella di +Europa che oltre alla continuazione dell’invio di armamenti vorrebbe attivare strumenti di debito comune europeo per alimentare il conflitto e impossessarsi dei beni russi congelati nelle banche occidentali (per evitare i molti problemi derivanti da una simile decisione ci si è accontentati finora di sottrarre solo gli interessi derivanti da quei fondi).
Il Partito Democratico si è espresso con gli interventi di Graziano Del Rio, figura di primo piano del partito, e di Tatiana Rojc, scrittrice che aveva lasciato il PD per unirsi al “Centro Democratico” prima di pentirsene e rientrare nei ranghi. Particolarmente significativo l’intervento del primo che nelle settimane scorse si è fatto promotore di un incontro di una parte della componente cattolica del PD al fine di condizionare la segreteria Schlein.
Del Rio ha iniziato confermando “il pieno appoggio” alle posizioni del governo. Per non lasciare dubbi ha sottolineato che “siamo molto in sintonia sulla politica estera”, quindi non solo sull’Ucraina. Anzi il merito del governo Meloni è di essersi finalmente schierato con la politica promossa dai governi nei quali era presente il PD. Quindi “nessun dubbio” nel sostegno alla politica governativa.
Del Rio si è anche concesso una fantasiosa ricostruzione della storia del dopoguerra sostenendo che dopo il 1945 “non c’è stata una violazione dei confini (…) da parte di una potenza nucleare contro una Nazione sovrana”. Come se non ci fossero mai state le decine di violazioni messe in atto dagli Stati Uniti anche in guerre alle quali l’Italia ha collaborato.
Oltre a sposare la politica estera del governo e ricostruire la storia a suo uso e consumo, Del Rio ha proposto altre due elementi significativi. Putin avrebbe, secondo l’esponente del PD, un “disegno metastorico e non solo un disegno politico-militare, poiché pensa di svolgere la funzione nel mondo di contrasto alla civiltà occidentale”. È evidente che se il conflitto si trasforma niente meno che in uno “scontro di civiltà”, secondo la lettura tipica dei neoconservatori americani, diventa pressoché impossibile trovare una soluzione specifica legata alle ragioni del conflitto in Ucraina.
Per Del Rio il conflitto dovrebbe offrire l’occasione per un rilancio federalista dell’Europa “che mette insieme il suo esercito e una politica estera”, in particolare superando il principio dell’unanimità dei governi in alcuni ambiti. “Cedere sovranità in alcune materie” è l’orizzonte che propone Del Rio. Evidentemente, non gli viene il dubbio che in un contesto di forte ascesa dell’estrema destra in tutta Europa, ulteriori cessioni di sovranità e la cancellazione dell’unanimità impongano margini ancora più ristretti ai residui governi di “centro-sinistra”.
Il momento simbolico di questa prospettiva, l’esponente democratico lo vede nella foto del treno che portava a Kiev Draghi, Scholz e Macron. Non sarà del tutto casuale che gli unici politici evocati da Del Rio siano Renzi e Draghi, tra i viventi, che evidentemente restano le stelle polari del progetto politico del senatore dem e Alcide De Gasperi tra i defunti, del quale si ricorda l’infelice proposta della Comunità Europea di Difesa. Ma l’idea di rilanciare l’Europa utilizzando l’intervento nella guerra e costruendosi un nemico epocale vorrebbe dire cambiare profondamente la natura dell’Europa stessa. Non gli aspetti migliori del modello sociale europeo sarebbero alla sua base quanto l’idea di un mondo dominato da conflitti politico-militari ai quali anche l’Europa dovrebbe concorrere.
Non molto meglio il discorso dell’altra senatrice del Partito, Tatiana Rojc, che ha introdotto una polemica con Trump contrapponendolo retoricamente alla storia degli Stati Uniti, “una democrazia viva da duecento anni, che si è evoluta fino a diventare riferimento di libertà e di opportunità”. Come se nessuno sapesse che gli Stati Uniti sono stati e sono anche molto altro e che Trump è espressione di una parte importante di quella storia che non è mai stata del tutto cancellata (razzismo, imperialismo, ecc.). Non stupisce che in questa lettura manichea del mondo, che nemmeno la vecchia Democrazia Cristiana avrebbe mai del tutto avallato, la Rojc si lamenti del fatto che “non ci sia stata ancora un’azione diplomatica autonoma dell’Europa volta a isolare Putin, che conta ancora purtroppo un vasto consenso internazionale”.
Non manca ai due esponenti democratici un certo spirito da caserma quando invocano, con Del Rio, un “Governo virile” (quello Meloni non lo sarebbe abbastanza) o, con la Rojc, la “schiena diritta”.
Nel dibattito, a restare sul terreno dell’opposizione al governo, terreno disertato dal PD, sono stati AVS e Movimento 5 Stelle. Entrambi, ma con mozioni diverse, chiedono la cessazione dell’invio di armi all’Ucraina avviando poi diverse iniziative politiche e diplomatiche tese a condurre verso il cessate il fuoco. Una posizione politica sostanzialmente giusta ma di cui si deve rilevare qualche limite. Il primo è di essere restati sul terreno puramente parlamentare senza tentare di portare il dibattito nell’opinione pubblica, provando a creare una spinta e una mobilitazione dal basso. Un’azione messa in campo dall’associazione Disarma che però non ha avuto il rilievo e il sostegno che meritava. Il secondo è di non aver cercato una convergenza su un’unica mozione, costruita attraverso un confronto con quei soggetti organizzati che si pongono, quanto meno, sul terreno della critica alla guerra. Questo avrebbe aperto maggiori contraddizioni dentro il PD, nel quale non tutti sono allineati sulle posizioni espresse al Senato, ma nel quale l’obbedienza atlantista è considerata, dal momento della fondazione, un dato ineliminabile della propria identità. Il terzo è che diventa ormai necessario provare a definire alcuni punti fermi per una soluzione politica del conflitto, per la quale esistono elementi concreti, a partire dall’accordo di Istanbul fatto fallire dai britannici e da altri cattivi consiglieri dell’Ucraina.
Le profonde differenze emerse nel dibattito sull’Ucraina in Senato, confermate poi nel voto finale alla Camera, rendono molto complicata la costruzione di una proposta politica alternativa al governo di destra in vista delle elezioni del 2027. Tanto più che si tratta di diversificazioni presenti su altri temi politici rilevanti e non solo di politica internazionale. Lo si vede, ad esempio, sulla questione dell’intervento legislativo che dovrebbe sanare la politica edilizia dell’amministrazione Sala a Milano. Un’esperienza da cui sta emergendo sempre più chiaramente la differenziazione di interessi tra costruttori e immobiliaristi da un lato e classi popolari dall’altro. Ai primi guadagni e profitti, alle seconde una crescente impossibilità di vivere a Milano, stanti l’aumento dei costi, soprattutto degli affitti, e la lunga stagnazione salariale. E non c’è dubbio che Sala si sia schierato dalla parte dei primi in nome della “modernizzazione” della città.
È in questo contesto che deve essere collocata la proposta di Dario Franceschini, leader democratico di provenienza democristiana ma differenziatosi da altri di analoga genealogia sul sostegno a Elly Schlein, in vista delle prossime elezioni politiche. In un’intervista a Repubblica che ha suscitato ampia risonanza e numerose e difformi reazioni, ha suggerito di puntare su una semplice coalizione elettorale, in grado di competere per i seggi maggioritari, lasciando però libera competizione tra i vari partiti nella dimensione proporzionale. In pratica, secondo un’idea già avanzata da tempo da Antonio Floridia, di utilizzare l’attuale legge elettorale come se fosse sostanzialmente proporzionale. Ognuno con le proprie proposte quindi ma con un accordo di desistenza per condividere quel terzo di candidati comuni che competono nella quota maggioritaria.
È possibile che l’intervento di Franceschini avesse un obbiettivo tattico e di breve periodo nel momento in cui si sono avviate iniziative pubbliche che tendono a mettere in discussione o quantomeno a condizionare fortemente la leadership di Schlein. Dal fronte cattolico, e qui ritroviamo in prima fila Del Rio con la sua linea genealogica De Gasperi-Renzi-Draghi, si è avanzata l’ipotesi di trovare un nuovo leader “federatore” del “campo largo” decisamente ancorato ad una linea centrista. Mentre da settori laici di tradizione anticomunista (Gentiloni) o di estremismo migliorista (Morando) si è riproposto il tema di un partito riformista e governativo. Dove qui il riformismo significa proseguire con una politica tutta interna al paradigma neoliberista.
Ma in prospettiva evidenzia un problema reale, la difficoltà di costruire una proposta alternativa e credibile alla destra. Certamente resa ancora più difficile se tornano in campo opzioni neocentriste che nel contesto globale in cui ci sta muovendo appaiono sempre meno credibili ed elettoralmente appetibili. Certamente Elly Schlein cerca di muoversi in un’altra direzione, correggendo, dove può, il profilo sociale del PD e recuperando un rapporto di consenso con settori di elettorato che hanno abbandonato il partito durante la deriva del percorso Monti-Renzi-Draghi. La leader del PD si è dimostrata più coriacea di quanto molti potessero prevedere ma resta per molti versi un corpo estraneo ad un ceto politico incapace di convergere almeno attorno ad un profilo socialdemocratico e relativamente popolare (ma questo è un problema non solo italiano) che faccia tesoro dei precedenti fallimenti.
Il non detto della proposta di Franceschini consiste nel fatto che il problema vero del, mai nato, “campo largo” (ovvero il vecchio centro-sinistra più i 5 Stelle) è che non c’è solo una divaricazione di posizioni tra il PD e i suoi potenziali alleati, quanto una sostanziale frammentazione interna allo stesso Partito Democratico. Una divisione che verrà confermata anche dal referendum della CGIL sul Jobs Act renziano.

Costruire uno schieramento alternativo al governo delle destre italiane è certamente necessario ma le contraddizioni interne e molte delle concrete scelte politiche del PD sono oggi un ostacolo alla sua realizzazione.

Franco Ferrari

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2 Commenti. Nuovo commento

  • Pier Giuseppe Arcangeli
    29/01/2025 17:42

    E’ il tema che si pone al XV Congresso di Rifondazione Comunista: un tema politico, non ideologico, che si può riportare all’essenziale in questi termini:
    quanto in merito propone il 2° documento è molto difficile da praticare/realizzare; quanto propone in merito il 1° documento è semplicemente, drammaticamente impossibile.

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  • Franco Ferrari
    31/01/2025 10:47

    La mia opinione è diversa. Il 1° documento lascia aperte varie possibilità sul piano elettorale, aprendo una fase di iniziativa politica che eviti il rischio di trasformare il partito in setta. Certamente provare a cambiare i rapporti di forza nel sistema politico è difficile ma utile.
    L’obbiettivo del 2° documento di costruire un “terzo polo” politico-elettorale è relativamente facile, basta accettare l’impostazione di Potere al Popolo. Il problema è che si tratta di una prospettiva del tutto ininfluente e di interesse solo per una ristretta nicchia di militanti.

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