di Franco Russo
Questa vuole essere una nota breve sulla sentenza della Corte federale costituzionale tedesca del 5 maggio, una sorta di avviso sugli effetti deflagranti che essa avrà sulle politiche della BCE e dell’Unione Europea nella gestione della drammatica crisi sociale ed economica provocata dal coronavirus. Non può che essere breve perché esporre analiticamente i 236 punti della sentenza richiederebbe innanzitutto più tempo per studiarla a fondo al fine di coglierne il significato nel lungo periodo sia delle sue argomentazioni sia delle sue decisioni. Tanto per dare l’idea dell’importanza di questa sentenza, basta dire che rispetto ad altre famose sentenze, per esempio la Solange I e II o il Maastricht-Urteil, che pure hanno inciso sui rapporti tra la Germania federale e l’UE, e tra la Corte di Karlsruhe e la Corte di Giustizia europea, questa relativa alle politiche della BCE avrà effetti molto più dirompenti. Infatti mette in discussione l’armamentario messo su da Mario Draghi dal famoso ‘whatever it takes’ del luglio 2012 , per gestire la crisi esplosa quattro anni prima. Certo la sentenza riguarda solo il Public Sector Purchase Programme, il PSPP, e non l’insieme degli strumenti attivati in questi anni, o solo predisposti e mai usati come l’OMT; tuttavia ciò che viene sollevato dalla sentenza riguarda il fondamentale rapporto tra la politica economica e fiscale e la politica monetaria. Sono ben note le prescrizioni del Trattato sul Funzionamento dell’UE contenute nell’articolo 123, che al primo paragrafo afferma: ‘Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate «banche centrali nazionali»), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali’. Con ciò si vieta la cd monetizzazione del debito, una delle più tradizionali prerogative delle banche centrali, che nella loro funzione di prestatore di ultima istanza possono acquistare direttamente sia titoli del debito pubblico sia titoli di emittenti privati. In Italia la Banca d’Italia smise di acquistare titoli pubblici invenduti all’asta in seguito ad un semplice scambio di lettere nel 1981 tra Andreatta, ministro del Tesoro, e Ciampi, governatore della Banca d’Italia.
La necessità di salvare banche e Stati membri dell’UE ha spinto la BCE, attraverso vari strumenti indicati genericamente come quantitave easing, a intervenire sui mercati secondari per acquistare titoli pubblici (e non solo). Una sentenza della Corte di Giustizia Europea dell’11 dicembre 2018 – sollecitata da una richiesta di interpretazione giurisprudenziale da parte della Corte costituzionale tedesca – aveva sancito la legalità delle decisioni della BCE in relazione al PSPP. Ebbene è contro questa sentenza della Corte di Giustizia Europea che si scaglia, con virulenza, la Corte tedesca. Ripeto, non è questa la sede per affrontare i molteplici temi sollevati negli anni da pronunce della Corte di Karlsruhe, che si è eretta a difensore della sovranità del Bundestag e dello Stato tedesco rispetto alle sempre più invasive decisioni dell’UE, che hanno via via sottratto ai Parlamenti nazionali competenze fino all’espropriazione delle politiche di bilancio con i regolamenti del Semestre europeo e con il Fiscal Compact, e al contempo a paladina dell’ortodossia liberista nel campo della politica economica. Nella recente sentenza si sollevano di nuovo con estrema forza i temi della Kompetenz-Kompetenz, per ribadire il principio di attribuzione delle competenze di cui gli Stati membri si spogliano, o della supremazia della Corte di Lussemburgo nell’interpretazione e applicazione del diritto dell’UE, o della riaffermazione dell’UE come ‘unione di Stati’, che rimangono i ‘signori dei Trattati’, e dunque i garanti ultimi della loro applicazione.
Ciò che occorre mettere a fuoco è l’attacco che la Corte tedesca fa allo sconfinamento compiuto dalla BCE nei campi della politica economica e fiscale. In nome del principio di proporzionalità, prescritto nell’articolo 5 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, la Corte tedesca afferma che la BCE non può assumere di nuovo i compiti di una tradizionale banca centrale e dunque sostenere con i suoi interventi le politiche di deficit spending, monetizzando il debito pubblico attraverso l’acquisto di titoli sui mercati secondari. Sostenere questa tesi in un periodo in cui molti degli Stati membri si vanno indebitando contando sugli acquisti della BCE, come è il caso dell’Italia, significa aprire un’ulteriore crisi finanziaria, oltre a quella politica, economica e sociale prodotta dal coronavirus. La Corte tedesca si fa paladina dell’ortodossia liberista chiedendo che la BCE si occupi solo della stabilità dei prezzi e del valore dell’euro, insomma essa deve pensare all’inflazione e non a promuovere le politiche pubbliche di sostegno dell’economia. Non devo sottolineare la portata devastatrice in questa fase della posizione della Corte tedesca, ma non solo in questa fase perché è in gioco la gerarchia di potere all’interno dell’UE. Non è in discussione l’egemonia tedesca nell’UE, ciò che la Corte costituzionale tedesca vuole è una Germania egemone e custode dell’ortodossia liberista, che affonda le sue radici culturali nell’Ordoliberismo. La risposta data dalla BCE è, a mio avviso, fortemente difensiva. Infatti, nel suo comunicato ufficiale del 5 maggio, sostiene che il suo obiettivo rimane l’inflazione e che la sua politica monetaria è volta a preservare la stabilità dei prezzi, assicurandosi che essa si trasmetta a tutte le parti e alle giurisdizioni della’area dell’euro. È sicuro che la BCE proverà a resistere e a continuare le sue politiche di monetizzazione, di fatto, del debito, legandole naturalmente a programmi di ‘riforma strutturali’ cioè a condizionalità, e al contenimento del debito pubblico. Per questo insiste molto sull’utilizzo del MES, che richiede appunto condizionalità perché si attivino gli aiuti finanziari, che aprirebbero poi la via al ricorso alle OMT (mai finora utilizzate dalla BCE). Tuttavia sono proprio queste prospettive ad essere messe in discussione dalla Corte tedesca la quale, ai punti dal 229 al 235 della sentenza, afferma che: 1) il governo federale e il Bundestag devono – questo il termine usato nella sentenza – intervenire per ricondurre l’azione della BCE nell’ambito delle sue competenze che sono solo monetarie; 2) la Bundesbank non deve più eseguire entro tre mesi gli acquisti di titoli sovrani a meno che la BCE non assuma una nuova decisione, che riporti il PSPP nell’ambito di finalità strettamente monetarie. Ho evidenziato il termine decisione perché i commentatori anche più avveduti hanno scritto che in fondo la Corte tedesca chiede solo dei chiarimenti alla BCE, e dunque la Bundesbank non sarebbe obbligata a dar seguito alle indicazioni contenute nella sentenza. Basta leggere la sentenza nell’originale tedesco (si parla di Beschluss), e nella versione autorizzata in inglese (si parla di a new decision), per capire che la Corte tedesca non chiede ‘chiarimenti’ alla BCE, ciò che ha già fatto per predisporre la sentenza del 5 maggio, pretendendo invece che la BCE proceda a una nuova decisione che comporti una correzione di rotta. Lo scontro, come si evince facilmente, è di una estrema durezza e purtroppo esso non prelude a niente di buono per i popoli dell’UE, perché se vincerà la linea della Corte tedesca avremo una nuova riedizione dell’austerità, se prevarrà la BCE avremo una gestione tecnocratica della politica economica, sottoposta alle condizionalità di una nuova Troika. A meno che …. il cigno nero non apra la via al sovvertimento dell’ordine capitalistico dell’Unione Europea.