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La beffa della sanatoria

di Stefano
Galieni

Sinayogo Boubakar, 30 anni, detto “Biggie”perché è un ragazzone grande, venuto dal Mali a cambiare la propria vita e finito insieme a tanti lavoratori, nel “ghetto” di Rignano, nel foggiano, è quello a cui è andata peggio. La scarica di pallini sparata da un fucile lo ha colpito in pieno volto ed è stato quasi un miracolo che i medici siano riusciti a salvarlo. Ad altri due compagni di lavoro è andata meglio, ma sono rimasti ugualmente feriti nella notte. Stavano tornando nelle loro baracche, quelle in cui dormono dopo 10 ore di lavoro, a due euro l’ora, quando sono stati avvicinati da una grande automobile bianca, probabilmente un Suv da cui sono partiti i colpi. Dalle prime indagini la “caccia ai neri” era premeditata. La notte prima, alcuni del luogo si erano presentati in maniera violenta per pretendere di portarsi via il gasolio con cui viene assicurata l’illuminazione nel campo di “accoglienza” di Torretta Antonacci e coloro che lo abitano non solo si erano rifiutati di sottostare al sopruso ma avevano osato difendersi, disarmare uno degli aggressori che vista la mala parata aveva offerto anche dei soldi pur di essere liberato e poi avevano chiamato la polizia per denunciare l’accaduto. Troppo per chi è abituato a comandare da cui la decisione di far partire un raid che poteva concludersi in tragedia.

Sarebbe facile derubricare l’accaduto come l’ennesimo piccolo fattaccio di cronaca ma sono tante le ragioni che dovrebbero far riflettere e che partono da molto lontano. Un tempo il lavoro nei campi lo facevano, soprattutto al sud, le donne di famiglie povere, spesso ragazze. Il caporale o chi le comandava sovente disponeva della loro vita, dall’alba al tramonto, per poche lire.

Poi sono arrivati i neri, i rumeni, gli slavi, a prendere il loro posto in una infame scala gerarchica. Poco cambiava, subire ai ricatti di chi gestiva la filiera del lavoro con in più il meccanismo stritolatore, la tenaglia micidiale che regola la vita di chi è straniero. Da una parte il lavoro nero che mette a repentaglio la quotidianità di chi ha bisogno di un contratto di lavoro per aver diritto al soggiorno regolare, dall’altra l’assenza di un alloggio, dei beni essenziali, dal cibo all’assistenza sanitaria che rende il ricatto padronale ancora più forte. E in mezzo la criminalità organizzata che si fonde perfettamente con un sistema padronale fondato su un concetto di superiorità prestabilita.

Gli episodi di violenza contro chi lavora nei campi solo raramente riescono a emergere e spesso solo quando sfociano in tragedia. Nell’estate del 1989, nelle campagne di Villa Literno, veniva trucidato per una rapina il rifugiato politico sudafricano – riconosciuto come tale dall’Onu ma non dalla legge italiana – Jerry Essan Masslo. Da quella morte nacque un movimento per gettare luce sul razzismo istituzionale che permetteva a tante persone di essere sfruttate nei campi, una immensa manifestazione antirazzista, la più grande mai vista in Italia, che il 7 ottobre dello stesso anno portò in piazza almeno 200 mila persone. Il parlamento recepì lo sdegno popolare, ne uscì una legge, la “Martelli” nel 1990 che almeno garantiva bassi livelli di protezione. L’Italia scoprì che la frutta che aveva sul tavolo sapeva di sudore e a volte sangue ma presto venne dimenticato. 14 anni dopo furono gli operatori di Msf a tornare a Sud e a parlare di violenza e sfruttamento. Ne uscì un rapporto “I frutti dell’ipocrisia” in cui si denunciavano condizioni di vita inumane che riguardavano decine di migliaia di “invisibili”.

Ricordo personale: quegli invisibili li incontrai in Calabria, a pochi chilometri da Rosarno, vivevano ammassati in una ex cartiera dalle pareti cariche di amianto. Per scaldarsi la notte davano fuoco a legname raccolto e il calore portava le polveri d’amianto nei loro polmoni.

Non solo allora guadagnavano in media 35 euro al giorno, ma ci raccontavano come i figli adolescenti dei piccoli boss di paese si divertivano col fucile a pallini a dare la caccia al nero, senza timore di essere puniti. Per questo si avventuravano con difficoltà in paese per fare la spesa.

E negli anni si è passati dal “tiro all’immigrato” alle stragi di camorra come quella di Castel Volturno, nel casertano, ai ragazzi che morivano su furgoni fatiscenti durante i viaggi che li portavano al lavoro, alle minacce continue. Ribellarsi era difficile: la legge non era dalla parte dei “clandestini” e servivano come servono oggi, ricattati e ricattabili.

Non poteva durare, si potevano accettare i salari da fame e la fatica, l’assenza di acqua e di cure ma non il tentativo di dominare le persone con la paura.

E ci furono sommosse: sempre a Rosarno, nel gennaio del 2010, dopo l’ennesimo ferimento, a Castel Volturno, con uno sciopero per chiedere l’adeguamento salariale, a Nardò, in Puglia e in tanti altri luoghi dimenticati, non solo nel meridione.

Chi raccoglie la frutta è fondamentale per la sussistenza dei proprietari terrieri ma è spesso considerato a metà strada fra uno schiavo e una bestia da soma. Chi lavorava si ribellava, insegnava ad un paese fra le prime potenze mondiali che esiste ancora la lotta di classe, perché quello stava diventando. I lavoratori avevano ed hanno, nonostante i prezzi osceni ai raccolti imposti dalla grande distribuzione, un potere contrattuale enorme.

Ma accade ormai da decenni, da Cassibile all’Agro Pontino passando per Calabria, Lucania e Puglia come, in maniera meno visibile e più silenziosa nel ricco nord o nella progressista Toscana. Ogni pomodoro raccolto, ogni acino d’uva, anguria, primizia di stagione, ha il sapore amaro e ipocrita del silenzio degli sfruttatori. Sovente tanto i sindacati quanto le associazioni di categoria hanno fatto poco o nulla per rompere le catene di chi passa le giornate sotto il sole e le notti in rifugi fatiscenti.

Nel 2016, ottobre, si riuscì ad avere almeno una legge che, condannando il caporalato, poteva divenire un argine a tali abusi, la legge 199.

Ha funzionato? In parte dal punto di vista repressivo, per niente da quello preventivo. Nel primo semestre 2019 sono state denunciate per caporalato e sfruttamento dei lavoratori 263, 147 nel settore agricolo. Ma per quel poco che si è potuto svolgere, pochi i funzionari dell’ispettorato del lavoro, si è passati, rispetto al semestre precedente, dal 69% al 72%, nel tasso di irregolarità, le posizioni lavorative irregolari sono salite di quasi l’8%. Addirittura il numero di lavoratori totalmente “al nero” è aumentato del 14%. Sono dati emersi dal rapporto dell’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) che ha dovuto anche alzare le braccia con un 9% in meno di ispezione effettuate.

Intanto continuavano gli omicidi sul lavoro, in forme diverse. Da sindacalisti come Soumalia Sacka, ucciso a fucilate perché recuperava lamiere abbandonate per proteggersi dal freddo, a uomini e donne che hanno perso la vita perché d’inverno i loro rifugi bruciavano, a causa di riscaldamento poco sicuro, a coloro che, nell’andare dalle baracche ai campi, perdevano la vita su furgoni ridotti male da schiantarsi in strada. Omicidi anche questi. Interventi come quello di organizzazioni umanitarie o frutto di un sindacalismo di base combattivo e determinante, venivano vanificati da ordinanze con cui si distruggevano i “ghetti”, senza offrire valida alternativa abitativa a gran parte dei lavoranti. Quello di Rignano, da cui siamo partiti è uno dei più grandi d’Europa e arriva ad ospitare oltre 3000 lavoratori durante la raccolta dei pomodori – oggi saranno solo un migliaio perché è periodo di raccolte che richiedono meno lavoratori – ma poi San Ferdinando nella Piana di Gioia Tauro, altri nel casertano, nel brindisino, i gruppi dispersi nella provincia di Potenza e nel Cilento, Cassibile in Sicilia per citare i più noti.

Per questi poco o nulla è stato fatto, aumentando in maniera esponenziale il potere di vecchi e nuovi sfruttatori che potevano anche aggirare le leggi e mantenere il controllo sui lavoranti. Lavoratrici costrette anche a subire abusi sessuali da caporali e padroni – è stato denunciato ad Alessandria come a Ragusa – o, lavoratori che si alzavano all’alba non sapendo se sarebbero stati messi in condizione di guadagnarsi la giornata. Intanto il salario medio giornaliero era sceso, rispetto al 2004, da 35 a 20/25 euro al giorno.

Le grandi catene di distribuzione pagano poco il prodotto all’ingrosso e questo ricade solo e soltanto sull’ultimo anello della catena.

A maggio scorso, un anno fa, è partita l’ultima beffa. L’allora ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, ex bracciante e sindacalista, annuncia una proposta di legge, recepita dal governo, per regolarizzare i lavoratori in agricoltura.

Con un misero dibattito parlamentare si amplia il fronte dei lavoratori regolarizzabili anche a chi è impegnato in quello di cura nelle case. Si promettono 200 mila regolarizzazioni.

Nonostante vincoli, limitazioni, violazioni anche di leggi internazionali, in molte e molti ci sperano e ci provano e vengono presentati quando a luglio scade il termine, 207 mila domande. Se accolte potrebbero assicurare almeno sei mesi di presenza legale sul territorio e rendere meno ricattabili.

Ma di queste meno del 15% ha riguardato il settore agricolo. Per provare a mettersi in regola servono 500 euro per lavoratrice/lavoratore. Teoricamente dovrebbe tirarli fuori il datore di lavoro, nei fatti spesso li ha messi chi lavora. Il combinato disposto fra gli effetti della pandemia – poco lavoro e conseguentemente pochi soldi in tasca per chi lavora – indisponibilità dei proprietari terrieri, piccoli o grandi che siano, a sottostare ad un contratto nazionale di categoria che impone pochi ma importanti vincoli, vincoli burocratici assurdi, pensati per contentare destre e imprenditori, non hanno permesso che poche regolarizzazioni. Ma oltre al danno la beffa. Al 16 febbraio, 7 mesi dopo la chiusura del periodo per poter presentare domanda di emersione, solo il 5% di queste era stato esaminato e molte sono state respinte per vizi di forma. Si contano in poche centinaia le persone impegnate in agricoltura che ne hanno beneficiato.

Ma che importa e a chi? Restano e resteranno in balia di un sistema di ricatto: fino a quando mi servi ti sfrutto, quando sei inutile o di troppo, o peggio ancora, alzi la testa e ti ribelli, faccio in modo di avviarti verso quei “rimpatri volontari” gestiti da Frontex su cui l’Europa si sta avviando per liberarsi di chi è indesiderata/o. Verso quale paese? Cosa importa. Tanto altre braccia pronte e altre persone a cui poter impunemente dare la caccia con un fucile a pallini, il Paese ne ha molte.

diritti umani, diritto del lavoro, lavoro, migranti
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