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L’incombente crisi del debito nel Sud del mondo. Come fermarla?

di Alessandro
Scassellati

Nel 2022 molti Paesi poveri devono affrontare gravi disagi economici e possibili insolvenze sul loro debito sovrano. Occorre velocemente trovare delle soluzioni da parte dei Paesi ricchi e delle organizzazioni finanziarie multilaterali internazionali, altrimenti oltre ad una crisi economica finanziaria si innescherà una grave crisi politica globale

I Paesi poveri sull’orlo del precipizio finanziario

La guerra in Ucraina, come prima in Afghanistan, per il momento ha fatto sparire dalle prime pagine dei giornali altre crisi. D’altra parte, le questioni economiche appaiono meno interessanti rispetto alla guerra, ma sulla scia del conflitto in Ucraina si nasconde un’imminente crisi economica globale. Molti Paesi poveri stanno affrontando gravi crisi economiche e possibili insolvenze del loro debito sovrano. Questa è una situazione critica provocata in larga parte dalla pandemia e ora aggravata dagli impatti della guerra ucraina. Il CoVid-19 è iniziato come una crisi sanitaria globale, ma presto si è trasformato in una crisi economica globale e non passerà molto tempo prima che muti ancora una volta in una crisi politica globale.

È bene ricordare che prima della pandemia, milioni di persone scendevano in piazza dall’Ecuador all’Egitto, dalla Colombia al Sudan, dalla Tunisia al Libano per protestare contro i prezzi elevati di cibo, carburanti e altri beni e servizi di prima necessità e la crescente disuguaglianza. Il distanziamento sociale ha poi temporaneamente soppresso tali proteste. Ma, ora ci sono tutte le condizioni per un loro prepotente ritorno, poiché la fonte delle rimostranze – la disuguaglianza economica e sociale – è solo peggiorata a seguito della pandemia da CoVid-191, in particolare nei Paesi poveri che non hanno avuto la possibilità – come avvenuto nei Paesi ricchi e in Cina – di prendere in prestito denaro a bassi tassi di interesse (spesso dalle banche centrali che si sono sentite in dovere di adottare misure precedentemente impensabili) per finanziare importanti pacchetti di stimolo per attutire l’impatto economico. Nel 2020, le economie avanzate e la Cina hanno contribuito per oltre il 90% all’accumulo di debito pubblico e privato non finanziario, mentre i restanti Paesi rappresentavano solo il 7% circa.

I Paesi poveri si sono dovuti confrontare con limiti molto severi nella loro capacità di fare e sopportare debito aggiuntivo e ora sono fortemente colpiti dall’ondata inflazionistica che sta investendo il mondo. Il FMI rileva che 79 Paesi emergenti e poveri si confrontano con tassi di inflazione annui superiori al 5% nonostante che lo stimolo fiscale e monetario dei governi in risposta al CoVid-19 sia stato limitato (anche perché questi Stati hanno spesso una base fiscale molto bassa) e la ripresa economica nel 2021 sia rimasta molto indietro rispetto al “rimbalzo” dei Paesi ricchi e della Cina2. Nei Paesi emergenti e in quelli più poveri, l’inflazione ha raggiunto il tasso più alto dal 2011 e molti governi hanno ritirato gli interventi di sostegno per contenere le pressioni inflazionistiche, ben prima che la ripresa economica fosse completata. I Paesi in difficoltà di indebitamento includono la Tunisia e il Libano, che hanno visto sconvolgimenti politici, così come lo Zambia e il Ghana che ora spende circa il 37% del suo bilancio nazionale per il pagamento degli interessi sul debito. Già nel 2019 il costo del servizio del debito estero in 64 paesi aveva superato quello speso per l’assistenza sanitaria. Il Cameroun ha speso il 23,8% del suo budget per il pagamento del debito, rispetto al 3,9% delle entrate del Paese speso per la salute.

La lotta all’inflazione nei Paesi ricchi e gli effetti disastrosi sui Paesi poveri

Ora, con le banche centrali dei Paesi ricchi che stanno iniziando ad aumentare i tassi di interesse, liquidando anche i programmi di acquisto di titoli obbligazionari pubblici e privati, con l’obiettivo di combattere l’inflazione crescente, l’epoca del credito a buon mercato sta finendo e i flussi di capitale denominati in dollari verso i Paesi emergenti e poveri sono a rischio. Gli investimenti azionari e obbligazionari in tali economie sono generalmente considerati meno sicuri e l’inasprimento delle condizioni finanziarie globali causa deflussi di capitali, soprattutto per i Paesi con fondamentali più deboli. L’apprezzamento del dollaro (di circa il 3% sull’euro nell’ultimo mese), come conseguenza dell’aumento dei tassi di interesse da parte della FED (una soluzione che comunque non è in grado di far fronte alla pressione dei costi e che potrebbe causare una vera recessione economica, al punto che il presidente Jerome Powell ha ammesso che la FED sta navigando a vista, muovendosi in “un ambiente altamente incerto”), contribuirà ad intensificare la fuga di capitali dai Paesi emergenti e poveri e potrà provocare una nuova grave crisi del debito3.

Il FMI afferma che almeno 40 dei Paesi a reddito più basso del mondo sono in difficoltà nel servizio del proprio debito, vivono una condizione di “debt distressed” (“difficoltà nel debito”) e, quindi, un aumento degli interessi è rovinoso per loro. Per questo il FMI consiglia le banche centrali di mantenere i nervi saldi e di essere pazienti. La Banca Mondiale ritiene che gran parte dell’economia globale sia destinata ad avere seri problemi dal momento che molti Paesi stanno lottando per far fronte alla triplice minaccia di Covid-19 (nei Paesi più poveri del mondo i tassi di vaccinazione sono ancora inferiori al 10-20%), inflazione, soprattutto per quanto riguarda il cibo4 e tassi di interesse più elevati.

Nelle sue previsioni semestrali prima della guerra in Ucraina, la Banca Mondiale aveva affermato di aspettarsi un “pronunciato rallentamento” della crescita nei prossimi due anni, con le parti più povere del mondo particolarmente colpite. David Malpass, presidente della Banca Mondiale, aveva chiesto un’azione per ridurre i debiti dei Paesi poveri e si era detto “molto preoccupato” per le cicatrici permanenti allo sviluppo economico causate dalla pandemia, prevedendo un rallentamento della crescita globale dal 5,5% nel 2021 al 4,1% quest’anno e al 3,2% nel 2023. Con la guerra in Ucraina tali previsioni sono state riviste con una riduzione di circa 1%-1,5% (2,6%) per il 2022, con la previsione di una crescita del 2,8% per USA e UE, ma molti analisti non escludono una recessione e la stagflazione, un misto di stagnazione economica ed elevata inflazione, soprattutto per la UE, con l’Eurozona che si trasformerebbe in una “economia di guerra”. L’aumento del prezzo del petrolio è un colpo che i Paesi poveri che non ne producono non possono permettersi, poiché è probabile che generi problemi di bilancia dei pagamenti e pressioni inflazionistiche interne, oltre che internazionali (che l’OCSE stima in 2,5 punti percentuali) che sarà difficile contenere nell’attuale incerto contesto5.

Già prima della pandemia decine di Paesi poveri stavano pagando di più per il servizio del debito che per l’assistenza sanitaria e circa la metà erano già a rischio o ad alto rischio di una crisi del debito. Con poche o nessuna risorsa per attenuare il colpo devastante del CoVid-19, la disoccupazione è aumentata vertiginosamente in tutto il Sud del mondo, con milioni di posti di lavoro che sono andati persi, di cui 22 milioni nell’Africa subsahariana, in appena un anno. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ritiene che la ripresa del mercato del lavoro globale dallo shock pandemico sarà lenta, disomogenea ed incerta. Molti dei Paesi poveri sono ancora alle prese con le prime vaccinazioni della popolazione e per l’OIL il tasso di disoccupazione potrebbe essere superiore ai livelli pre-pandemici fino al 2023. Ci vorranno anni per riassorbire completamente l’impatto della crisi nel mondo del lavoro. A farne le spese sono e saranno soprattutto i Paesi poveri con evidenti rischi sociali e politici. D’altra parte, molti Paesi poveri, fortemente dipendenti dalle esportazioni, sono stati particolarmente colpiti dalle interruzioni, sfilacciature e strozzature delle catene logistiche di fornitura (supply chains) che hanno fatto schizzare verso l’alto tempi di consegna e costi di trasporto, e per coloro che non sono produttori di petrolio e gas, anche dall’aumento dei prezzi dell’energia.

Tali problemi sono ora ulteriormente aggravati dalla guerra di Putin all’Ucraina, poiché il conflitto tra il primo e il quinto principale esportatore di grano del mondo – Russia e Ucraina, rispettivamente -, ma anche di altri cereali, oli e semi oleosi, e fertilizzanti (Russia e Bielorussia), è destinato a determinare l’impennata dei prezzi e la carenza di cibo globale (ne abbiamo parlato qui la scorsa settimana).

Inoltre, l’invasione russa dell’Ucraina sta esercitando un’enorme pressione su una dotazione di aiuti internazionali già in diminuzione. Le agenzie umanitarie – come il World Food Programme (WFP), vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2020 – che lavorano nei Paesi con le emergenze più urgenti, tra cui Yemen, Afghanistan, Sud Sudan, Etiopia, Paesi del Sahel, Somalia6 e il resto del Paesi del Corno d’Africa (ma anche in Ucraina, dove il WFP sfama oltre tre milioni di ucraini), stanno affrontando decisioni difficili su come spendere i loro soldi, anche perché non riescono a raccogliere sufficienti risorse finanziarie dai donatori (il WFP ha un deficit di 8 miliardi di dollari). Commentando la situazione drammatica in Yemen, l’amministratore del WFP, David Beasley, ha dichiarato: “Non abbiamo altra scelta che prendere cibo dagli affamati per sfamare quelli che stanno morendo di fame7.

Ma, è il costo del debito che ora minaccia di sopraffare Paesi poveri già duramente colpiti. Ancora prima della pandemia, molti Paesi emergenti e poveri avevano preso in prestito miliardi di dollari ai bassi tassi di interesse che hanno prevalso dopo la crisi finanziaria globale del 2008-2009 (grazie alle politiche di quantitative easing delle banche centrali americana, europea e di altri Paesi ricchi) e hanno utilizzato i futuri proventi delle esportazioni come garanzia. Un aumento dell’indebitamento generato anche da flussi speculativi di operatori finanziari dei Paesi ricchi che, potendo contare sul mantenimento di bassi tassi di interesse combinato con la massiccia immissione di liquidità da parte delle banche centrali, sono andati alla ricerca di una più alta remunerazione nel Sud del mondo. Inoltre, durante la pandemia, i governi disperati dei Paesi poveri hanno contratto costosi prestiti di emergenza a breve termine dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Cina e da banche private (con il settore privato che è diventato il principale finanziatore dei Paesi a basso reddito).

Nel 2020, circa 90 Paesi poveri e a reddito medio, molti dei quali oberati da alti livelli di debito estero (complessivamente circa 11 trilioni di dollari, con circa 3,9 trilioni in scadenza nel 2020), hanno cercato aiuto finanziario dal FMI nel giro di poche settimane mentre lottavano per far fronte alle ricadute economiche e sanitarie dell’epidemia di CoVid-19. Il FMI ha fornito un aiuto di 170 miliardi di dollari (150 miliardi di euro) dall’inizio della crisi sanitaria nel marzo 2020. Ha creato una Shortterm Liquidity Line, una nuova struttura per l’erogazione di liquidità di assistenza, migliorando al contempo l’accesso alle strutture esistenti, comprese alcune che consentono di concedere finanziamenti d’emergenza, senza condizioni tradizionali, ma con garanzie fiduciarie. Ma, il 25 novembre 2020 lo Zambia è diventato il primo Paese africano a fare default sul debito durante la pandemia e ora deve destinare il 44% delle sue entrate annuali del governo ai creditori.

Il G20 e il Club di Parigi (l’organizzazione informale che riunisce le istituzioni finanziarie dei Paesi creditori, ma di cui non fa parte la Cina) hanno raccolto l’invito arrivato dal G7 per concordare una moratoria a livello mondiale. I pagamenti per complessivi 20 miliardi di dollari a servizio del debito per i Paesi più poveri (77 Paesi, di cui 40 dell’Africa Sub–Sahariana, classificati “a basso reddito” dalla Banca Mondiale) sono stati temporaneamente sospesi (fino al dicembre 2021). La Cina ha deciso di cancellare parte del debito dei Paesi africani. Altri 12 miliardi di dollari di pagamenti sono stati sospesi dalle istituzioni multilaterali, cioè Banca Mondiale e FMI. Il FMI ha anche approvato il taglio dei debiti per 25 degli Stati più poveri, un’operazione da circa mezzo miliardo di dollari.

Ma i dati della Jubilee Debt Campaign (JDC) hanno mostrato che il debito dei Paesi poveri è più che raddoppiato negli ultimi 10 anni e ha lasciato più di 50 paesi ad affrontare una crisi di rimborso. Il JDC ha affermato che i pagamenti del debito estero come quota delle entrate dei governi erano più che raddoppiati – dal 6,7% al 14,3% – dal 2010 e hanno raggiunto il loro massimo livello dal 2001.

Ora, è arrivato il momento di cominciare a rimborsare i prestiti contratti e molti di questi Paesi si trovano in una posizione molto peggiore di prima dell’inizio della pandemia. Con il rimborso del debito estero in aumento del 45% solo negli ultimi due anni, oltre la metà di tutti i Paesi poveri è ora ufficialmente in difficoltà o ad alto rischio di default. Con i bilanci nazionali in grave difficoltà, i governi sono inevitabilmente costretti a tagliare le spese per tutto, dagli sforzi per contrastare il cambiamento climatico all’istruzione, ad altre priorità sanitarie8.

Come fermare la crisi del debito dei Paesi poveri?

Ora c’è la prospettiva molto reale che una crisi economica di questa portata si trasformi presto nell’insicurezza politica. È una questione urgente per i leader mondiali, i Paesi ricchi, la Cina e le organizzazioni finanziarie internazionali devono trovare il modo di aiutare i Paesi poveri a ristrutturare i loro debiti come parte di un più ampio rifinanziamento del loro futuro economico, evitando il collasso del sistema finanziario globale.

Ci sono azioni che il G20 può intraprendere ora nell’ambito dei regolari miglioramenti nella gestione internazionale delle finanze pubbliche, e poi ci sono i passi più coraggiosi che arriveranno solo quando ci sarà una reale volontà politica ai massimi livelli, in particolare quando la Cina e gli Stati Uniti saranno pronti a sedersi insieme ad un tavolo e riconoscere il loro comune interesse in una prosperità verde globale per tutti.

Nel frattempo, i leader del G-20 hanno la possibilità di migliorare in modo significativo la situazione. Il G20 ha cercato di affrontare le carenze dell’attuale gestione del debito pubblico introducendo il Quadro Comune, un insieme di principi intorno ai quali speravano che debitori e creditori potessero trovare un terreno comune per ristrutturare i debiti e indirizzare i Paesi su un percorso migliore verso la stabilità finanziaria. Ma finora, si è rivelato un totale fallimento: impiegando troppo tempo e offrendo troppo poco sollievo e poca trasparenza. Solo tre Paesi hanno affrontato il processo e nessuno ha avuto buoni risultati.

In definitiva, è necessario un nuovo meccanismo permanente per la ristrutturazione del debito sovrano, basato su principi già concordati da 136 Stati membri delle Nazioni Unite (l’Italia si è astenuta). Ma, in questo momento, il G20 può iniziare a muoversi in tal senso, apportando alcune urgenti correzioni al Quadro Comune al fine di ridurre lo stock del debito dei Paesi poveri.

In primo luogo, i Paesi che entrano nel processo di ristrutturazione del debito dovrebbero essere premiati, ricevendo uno sgravio immediato attraverso un congelamento del debito che fermi la crescita dell’interesse sui loro prestiti. Avranno anche bisogno di essere rassicurati sul fatto che, facendo la cosa giusta e cercando un percorso sostenibile per uscire dal debito, non vedranno diminuire il loro rating creditizio e non saranno penalizzati quando cercheranno di accedere a nuovo capitale.

Poi, la ristrutturazione dovrebbe essere guidata non dalla mera discrezionalità politica e dall’avidità dei creditori, ma da un’analisi economica ampia e trasparente della completa riduzione del debito richiesta ai Paesi non solo per porre fine alla pandemia, ma anche per raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite e affrontare la crisi climatica.

Tuttavia, il miglioramento più urgente è che il Quadro Comune deve includere tutti i creditori, compresi la Cina e il settore privato (a cominciare gli operatori finanziari che fanno parte del Club di Parigi). Tutti dovrebbero aspettarsi di dover assorbire alcune perdite, dato che tutti hanno preso rischi che erano chiaramente fuori squadra rispetto alla realtà. I creditori privati resisteranno, ma la loro partecipazione dovrebbe essere richiesta dalla regolamentazione, in particolare negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove esistono considerevoli precedenti.

Al di là dell’immediata crisi del debito, bisogna anche garantire che le istituzioni finanziarie internazionali siano trasformate e finanziate per adattarsi alla portata delle sfide globali che il mondo deve affrontare. La vera riforma potrebbe dover attendere l’allentamento delle tensioni politiche globali, ma l’agenda è già chiara.

In primo luogo, le banche multilaterali (FMI, Banca Mondiale, etc.), con il supporto degli azionisti, devono aumentare drasticamente quanto possono prestare. In questo momento, semplicemente non hanno la potenza di fuoco per soddisfare le esigenze di stabilità e sostenibilità dell’economia globale. La capacità attuale ammonta solo a circa un quarto di trilione di dollari, ma gli esperti stimano che debbano essere in grado di prestare almeno 1,3 trilioni di dollari all’anno.

In secondo luogo, con maggiori risorse deve derivare una maggiore responsabilità. Le istituzioni finanziarie internazionali non sono riuscite a evolvere a sufficienza da quando sono state fondate da pochi Paesi ricchi occidentali, che continuano a prendere tutte le decisioni come azionisti di maggioranza. Tale controllo non democratico mina la credibilità e la capacità di queste banche di servire i Paesi che ne hanno più bisogno. I Paesi ricchi dovrebbero concordare un sistema di voto duale per fondere la struttura azionaria di oggi con il sistema “un Paese, un voto” di istituzioni governate in modo più democratico.

In terzo luogo, il FMI potrebbe avere un enorme impatto estendendo più regolarmente la sua linea di credito, nota come diritti speciali di prelievo. L’anno scorso, in risposta alla pandemia, il FMI ha emesso diritti speciali di prelievo per un valore di 650 miliardi di dollari. Ma, la maggior parte di questa concessione di credito è andata ai suoi azionisti di maggioranza, Paesi ricchi che per la maggior parte non ne avevano bisogno (o comunque potevano contare su fonti finanziarie alternative). Il FMI deve estendere di molto questo tipo di credito ogni anno, ma anche i Paesi ricchi debbono trasferire i loro diritti per lasciare questi fondi ai Paesi poveri che hanno un disperato bisogno di prestiti economici che non possono essere trovati ricorrendo a creditori privati.

In quarto luogo, le istituzioni finanziarie internazionali devono assumere un ruolo molto più importante facendo leva sulla finanza privata. La conferenza COP26 delle Nazioni Unite sul clima ha rivelato un’opportunità fondamentale per fare un passo avanti radicale nel guidare il capitale privato verso la mitigazione e l’adattamento al clima. Si dovrebbe trovare il modo di portare più capitale privato, fornendo capitale pubblico per rendere i nuovi investimenti meno rischiosi. Progettati correttamente, assumendo il rischio iniziale, importi relativamente piccoli di capitale pubblico della Banca Mondiale e di altre istituzioni possono sfruttare importi molto maggiori di investimenti privati.

Queste riforme radicali potrebbero sembrare un compito arduo data l’assoluta incapacità della comunità internazionale di agire collettivamente fino ad oggi. Ma, c’è qualche motivo di ottimismo, poiché i principali Paesi multilateralisti hanno ora preso in mano il timone, con la Germania a presiedere il G-7, la Francia a presiedere il Consiglio dell’Unione Europea e, forse più significativamente, l’Indonesia a presiedere il G-20, un Paese e un’organizzazione (rispettivamente) che potrebbero avere il peso politico ed economico per portare avanti le riforme radicali di cui il Sud globale ha bisogno.

In definitiva, le conseguenze politiche dell’inazione – crisi della sicurezza alimentare, potenziali proteste, rivolte nelle strade, guerre civili, migrazioni di massa (nel 2008, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari causò rivolte in 48 Paesi, quasi tutti poveri) – possono ora spronare leader meno globalisti verso una vera riforma a breve termine per rispondere sia al CoVid-19 sia alle sue conseguenze economiche. E che, a lungo termine, potrebbe forzare un reset globale che forse potrebbe riportare in auge anche un rinnovato multilateralismo globale che possa affrontare il problema strutturale e sistemico che sta alla base della questione del debito dei Paesi poveri: l’organizzazione del sistema economico globale – di origine coloniale, imperialista ed estrattivista – che ha assegnato a questi Paesi il ruolo di produzione ed esportazione di materie prime (con il flusso controllato da una manciata di global corporations che sistematicamente eludono ed evadono le tasse utilizzando il ricatto, la corruzione e i paradisi fiscali), costringendole a importare beni da Paesi ricchi ed emergenti, pagando alti interessi sul debito e frenando lo sviluppo integrato di economie locali in grado di generare ricchezza e sicurezza alimentare per le popolazioni di questi territori.

Alessandro Scassellati

  1. Un recente rapporto Oxfam (Inequality Kills) sostiene che i 10 uomini più ricchi del mondo hanno visto la loro ricchezza globale raddoppiare a 1,5 trilioni di dollari dall’inizio della pandemia globale a seguito di un aumento dei prezzi delle azioni e degli immobili che ha ampliato il divario tra ricchi e poveri. Insieme possiedono più ricchezza dei 3,1 miliardi di persone più povere, considerando che i dati della Banca Mondiale mostrano che 163 milioni di persone in più sono state spinte al di sotto della soglia di povertà mentre i super ricchi hanno beneficiato dello stimolo fornito dai governi in tutto il mondo per mitigare l’impatto del virus. Oxfam prevede che entro il 2030 3,3 miliardi di persone vivranno con meno di 5,50 dollari al giorno. Oxfam sostiene che una tassa una tantum del 99% sui guadagni di ricchezza CoVid-19 dei 10 uomini più ricchi consentirebbe da sola di raccogliere 812 miliardi di dollari che potrebbero pagare abbastanza dosi per vaccinare il mondo intero e fornire risorse anche per affrontare il cambiamento climatico, fornire assistenza sanitaria universale e protezione sociale e affrontare la questione della violenza di genere in 80 Paesi. Anche dopo un prelievo del 99%, i primi 10 miliardari starebbero meglio di 8 miliardi di dollari rispetto a prima della pandemia. Anche il FMI ha sostenuto che per ridurre la disuguaglianza all’interno dei Paesi e tra Paesi serve una tassa sui ricchi. Noi abbiamo affrontato la questione della tassazione dei ricchi e delle corporations qui e qui. Per oltre un decennio bassi o nulli tassi di interesse e “politiche non convenzionali” hanno promosso l’effervescenza dei mercati azionari che avrebbe dovuto avere un effetto espansivo per le economie reali, facendo aumentare la domanda aggregata attraverso maggiori spese da parte di coloro che si sentivano più ricchi a causa delle “bolle” finanziarie. Ma, i ricchi risparmiano una percentuale più alta dei loro redditi rispetto ai poveri (anche se il 10% più ricco degli americani è responsabile della metà dei consumi nazionali, secondo la Moody’s Analytics), per cui stagnazione salariale e disuguaglianze crescenti hanno creato una contraddizione strutturale. Più disuguale è la società, tanto maggiore è l’investimento necessario per tenere in movimento la macchina economica, mentre tanto minori sono i redditi disponibili per acquistare la maggiore produzione derivante dall’investimento di capitale. Quindi, se non si interviene per ridurre le disuguaglianze e la stagnazione salariale, il consumo dipende sempre più solo dal debito pubblico e privato, mentre il risparmio dei ricchi viene sempre più impiegato nella speculazione finanziaria per generare rendita piuttosto che espansione della produzione di servizi e beni di consumo e durevoli. D’altra parte, a differenza degli anni ’70, quando i Paesi ricchi erano investiti dalla stagflazione, i sindacati dei lavoratori oggi non hanno la forza sufficiente per ottenere un aumento dei salari e compensare l’inflazione, innestando la cosiddetta “spirale prezzi-salari”.[]
  2. Circa il 41% dei Paesi ricchi ha raggiunto alla fine del 2021 la soglia del livello di reddito pro capite del 2019, rispetto al 28% dei Paesi emergenti e solo al 23% dei Paesi poveri. Paesi emergenti e poveri sono stati maggiormente colpiti dall’inflazione dei prezzi alimentari molto legata, oltre all’aumento del costo dei trasporti e al disordine delle supply chains, all’importante ruolo dei fertilizzanti derivati dal gas naturale. Nel 2021, gli aumenti dei prezzi alimentari hanno superato il 5% nel 79% (86 su 109) dei Paesi emergenti e poveri. Sebbene i Paesi ricchi non siano stati immuni dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, solo il 27% di loro ha registrato aumenti dei prezzi superiori al 5%.[]
  3. La normalizzazione dei tassi di interesse da parte della FED e di altre banche centrali potrebbe causare shock finanziari in importanti Paesi emergenti come Turchia, Libano, Sri Lanka e Brasile, per non parlare dei numerosi Paesi poveri con indici di indebitamento già insostenibili che potrebbero provocare un nuovo “tsunami del debito”.[]
  4. Alla fine del 2021, l’indice dei prezzi alimentari della FAO era al livello più alto in un decennio e vicino al picco precedente di giugno 2011, quando molti avvertivano di una crisi alimentare globale causata dalla speculazione sulle materie prime alimentari. Inoltre, l’aumento dello scorso anno è stato improvviso: dal 2015 al 2020 i prezzi dei generi alimentari erano stati relativamente bassi e stabili, ma nel 2021 sono aumentati in media del 28%. Gran parte di questa impennata è stata determinata dai cereali, con un aumento dei prezzi del mais e del grano rispettivamente del 44% e del 31%. Ma anche i prezzi di altri prodotti alimentari sono aumentati: i prezzi dell’olio di semi di girasole hanno raggiunto livelli record durante l’anno, lo zucchero è aumentato del 38% e gli aumenti dei prezzi di carne e prodotti lattiero-caseari, sebbene inferiori, sono rimasti a doppia cifra. L’inflazione dei prezzi alimentari attualmente supera l’aumento dell’indice generale dei prezzi ed è ancora più allarmante dato il significativo calo dei salari dei lavoratori durante la pandemia di CoVid-19, soprattutto nei Paesi a basso e medio reddito. Questa combinazione letale di cibo più costoso e redditi più bassi sta alimentando aumenti catastrofici della fame e della malnutrizione. In Kenya, i prezzi del pane sono recentemente aumentati del 40% in alcune aree. Nel 2021, il costo delle importazioni di grano dell’Uganda è salito a 391 milioni di dollari, con un aumento del 62% rispetto all’anno precedente. Dall’inizio della guerra il prezzo dell’olio vegetale è raddoppiato e un sacco di grano è aumentato di oltre il 25%. Il Libano ha solo un mese di fornitura di grano e il Paese è in default da oltre un anno. In Egitto, il governo ha affermato che la crisi ucraina potrebbe comportare circa 1 miliardo di dollari in più al costo dei sussidi per il pane (nel 2021 circa 1,6 miliardi di dollari), sta cercando nuovi fornitori e ha introdotto controlli sui prezzi del pane non sovvenzionato per fermare il forte aumento. La sterlina egiziana ha subito una svalutazione del 15%, e il governo ha annunciato una ristrutturazione del bilancio, mentre sta trattando un nuovo pacchetto finanziario con il FMI. In Indonesia, il governo ha imposto controlli sui prezzi dell’olio da cucina. In Brasile, il gigante energetico statale Petrobras ha dichiarato all’inizio di questo mese di non essere in grado di tenere a bada le pressioni inflazionistiche e ha aumentato del 19% i prezzi della benzina ai distributori. In Turchia, un forte aumento del prezzo dell’olio di girasole ha scatenato il panico negli acquisti. Le persone si sono arrampicate sugli scaffali dei supermercati e sugli altri acquirenti per afferrare ciò che restava. I manifestanti di strada in Iraq, arrabbiati per l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, si sono definiti la “rivoluzione degli affamati“. Circa 50 Paesi, per lo più Paesi più poveri, importano il 30% o più della loro fornitura di grano dalla Russia e dall’Ucraina. I due Paesi insieme forniscono un terzo delle esportazioni globali di cereali e il 52% del mercato delle esportazioni di olio di girasole, secondo la FAO.[]
  5. Le economie fortemente dipendenti dalle importazioni di energia sono particolarmente in pericolo, tra cui India, Thailandia, Turchia, Cile e Filippine. L’India importa quasi l’85% del suo petrolio. La Thailandia ha la bolletta delle importazioni di energia più alta tra i principali Paesi emergenti, con un totale del 6% del PIL. Lo shock dei prezzi è sufficiente per abbattere di un punto percentuale le previsioni di crescita per molti Paesi poveri ed emergenti, inclusa l’India. Per Paesi con prospettive di crescita già anemiche, come il Sudafrica e la Turchia, ciò potrebbe significare un dimezzamento della crescita quest’anno, secondo la Banca Mondiale. In Pakistan, che ha registrato un’inflazione persistente, il governo ha annunciato sussidi per 1,5 miliardi di dollari alla fine di febbraio per cercare di mantenere bassi i prezzi della benzina durante la crisi ucraina. Negli ultimi giorni, l’olio da cucina è aumentato di un altro 10% sul mercato. Sta arrivando il mese sacro del Ramadan, che di solito stimola un aumento dei prezzi. Il governo non appare in grado di tenere sotto controllo l’inflazione e i partiti di opposizione spingono per far cadere il governo di Imran Khan.[]
  6. La Somalia, Paese che deve affrontare una combinazione paralizzante di siccità, diffusa violenza delle milizie jiahadiste e stallo politico, ha subito un picco di casi di quasi morte per fame prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Il Kismayo General Hospital, nella Somalia meridionale, in febbraio ha curato 207 bambini di età inferiore ai 5 anni affetti da malnutrizione acuta grave con complicazioni, il doppio rispetto al 2021.[]
  7. La guerra ha aggiunto altri 29 milioni di dollari alle spese mensili di cibo e carburante del WFP. Dal 2019, i suoi costi di cibo e carburante sono aumentati del 44%, a 852 milioni di dollari in più all’anno.[]
  8. Occorre ricordare che nel 2021, ondate di caldo, incendi, siccità, uragani, inondazioni, tifoni, invasioni di cavallette e altri disastri hanno messo a nudo le implicazioni del cambiamento climatico nel mondo reale, soprattutto nei Paesi poveri. Il vertice sul clima della COP26 a Glasgow ha offerto per lo più discorsi retorici, lasciando il mondo sulla buona strada per subire un devastante riscaldamento di 3°C in questo secolo. La siccità sta già determinando un pericoloso aumento dei prezzi dei generi alimentari e gli effetti del cambiamento climatico continueranno ad aggravarsi. A peggiorare le cose, la spinta aggressiva alla decarbonizzazione dell’economia sta portando a investimenti insufficienti nella capacità di estrazione dei combustibili fossili prima che vi sia una fornitura sufficiente di energia rinnovabile. Questa dinamica genererà prezzi dell’energia molto più elevati nel tempo. Inoltre, i flussi di rifugiati climatici verso gli Stati Uniti, l’Europa e altre economie avanzate aumenteranno proprio mentre quei Paesi tengono chiusi i loro confini e stanno accogliendo i profughi ucraini.[]
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