Giuseppe Bommarito è un avvocato cassazionista di Macerata, specializzato in Diritto del lavoro. Nel 2009 ha fondato l’associazione “Con Nicola, oltre il deserto dell’indifferenza”, dopo la morte per droga dell’unico figlio, deceduto a 26 anni. E’ impegnato nella lotta alla droga, all’alcool e al disagio giovanile. Ha scritto vari libri, fra i quali La leggenda del santo ergastolano, un romanzo di formazione sull’ergastolo ostativo che contiene una bella descrizione dell’arruolamento della mafia negli anni ’80 a Palermo.
Giuseppe Bommarito era stato invitato pochi anni fa al Salone del Libro di Torino assieme a Enrichetta Vilella responsabile dell’area trattamentale della Casa Circondariale di Pesaro, anch’ella scrittrice e l’avvocato Andrea Nobili, allora Garante dei detenuti delle Marche.
Sarà presente domenica 24 settembre 2023 al Festival della Storia di Ancona quest’anno dedicato ai Demoni, col suo ultimo libro, Le vittime dimenticate: D’Aleo, Bommarito, Morici, la strage di Via Scobar.
Lei, avvocato Bommarito, è libero professionista cassazionista. Ci sono relazioni fra la sua attività e l’impegno che ha assunto nel suo terzo libro nei confronti dell’ergastolo ostativo?
Assolutamente no. La battaglia contro il carcere a vita, specialmente quello ostativo, cioè effettivo, previsto solo per particolari tipologie di reati, è una battaglia che va, o comunque dovrebbe andare oltre le professioni e, secondo me, anche oltre le ideologie e le appartenenze politiche.
Si nota il parallelo di scelte fra Ninì, personaggio del romanzo, e Peppino Impastato, personaggio vero. Il primo rifiuta le scelte del padre e giunge fino a negarne l’esistenza, impegnandosi a fondo nella stagione di Palermo anni ’90 di Leoluca Orlando, il secondo negli anni ’70 si mette in lotta contro la mafia, rinnega il padre e viene ucciso quando la sua propaganda politica diventa insopportabile per il clan. Quali sono le similitudini e quali le differenze secondo lei?
Entrambi rifiutano e condannano le scelte dei padri, che avevano aderito a cosa nostra. Però, mentre Ninì, nel mio libro, si limita ad una generica contestazione e all’adesione dapprima alle iniziative studentesche e poi di sostegno alla candidatura di Leoluca Orlando, Peppino Impastato, di tutt’altro spessore, conduce per anni una battaglia senza tregua contro la mafia, nel suo caso rappresentata dal potentissimo boss Gaetano Badalamenti, con articoli su un giornale da lui fondato, con gli interventi alla radio libera da lui messa in piedi, candidandosi in prima persona alle elezioni comunali a Cinisi e infine denunciando nello specifico le azioni delittuose dei mafiosi del suo paese.
Nei suoi libri il suo impegno contro gli spacciatori di droghe ai giovani e contro la cultura della fuga dalla realtà attraverso alcool e divertimento smodato è chiaro ed encomiabile. Quali sono i punti a favore dell’impegno che svolgono le istituzioni e quali i settori restano scoperti?
A mio avviso le istituzioni sono molto carenti nel contrasto al traffico e allo spaccio di stupefacenti, e ciò a tutti i livelli, comprendendo in questa valutazione negativa anche la magistratura e le forze dell’ordine. C’è una grande sottovalutazione del fenomeno e dei pericoli che esso induce a carico soprattutto dei più giovani. Si dice che l’Italia sia un paese proibizionista, ma in realtà ci sono tanti e tali varchi nel contrasto che questa rimane una mera affermazione di principio. Oggi, di fatto, lo spaccio di cannabis (sostanza pericolosissima per la sua elevata concentrazione di THC, esiziale per la salute mentale degli adolescenti che ne sono i maggiori consumatori) è sostanzialmente legalizzato, ed anche per le altre sostanze c’è un pacchetto di norme repressive che non è affatto deterrente, anzi, induce a delinquere nel settore della droga.
C’è un somiglianza fra i personaggi immersi nella povertà, con pochi strumenti in famiglia, avvicinabili dalla vita mafiosa nel suo romanzo e gli ultimi della società in molti romanzi di Zola, che vivono nelle periferie, non trovano lavoro e cadono facilmente in gioco, prostituzione, alcool. E’ d’accordo?
No, le persone che si avvicinano alla mafia, salvo qualche caso, non sono in condizioni di estrema povertà, come molti personaggi di Zola, ma scelgono la delinquenza per assicurarsi un più veloce e più ingente arricchimento, oppure per motivi familiari.
La figura di Rocco è per lei negativa perché non permette di scoprire altri affiliati e non permette che essi compiano altri delitti?
No, perché la collaborazione con la giustizia deve essere una scelta, magari incentivata, ma non certo imposta, tanto meno con il ricatto incostituzionale del carcere a vita. A mio avviso è rispettabile, in ogni caso, sia il collaboratore di giustizia che vuota il sacco sia il detenuto che sceglie di non collaborare e paga per intero la sua pena.
Fino a che punto la moglie Sara è consapevole del comportamento di Rocco e lo accetta per suo tornaconto?
Nel mio libro Sara, la moglie di Rocco, non è consapevole fino in fondo del comportamento criminale del marito, divenuto un pluriomicida. Probabilmente è una donna che ha scelto di non approfondire il livello di “mafiosità” del marito, sia per il tornaconto della sua famiglia sia per non avere problemi di coscienza.
Il funzionamento della giustizia in Italia è difficile anche perché, nonostante quanto recita l’art. 27 della Costituzione, essa è concepita più dal punto di vista di restituzione tributaria nei confronti della legge invece che di processo comune dei rei e delle vittime?
In Italia la giustizia non funziona perché, per una precisa scelta politica che accomuna destra, centro e sinistra, non si è mai voluto arrivare ad un organico adeguato, sia di magistrati che di personale amministrativo. A ciò si aggiungano norme processuali ammantate di un falso garantismo, che provocano di continuo lungaggini e prescrizioni. Lo stesso discorso può farsi per le forze dell’ordine, che oggi sono tutte sottodimensionate rispetto agli organici previsti: mancano migliaia di poliziotti, di carabinieri e di finanzieri, pure previsti nelle rispettive piante organiche, ma i concorsi per il reclutamento di nuovo personale non vengono banditi dai ministeri competenti, o lo sono con gravissimi ritardi.
Parliamo dell’ergastolo ostativo, focus del romanzo. Su 1.779 ergastolani, 1.259 sono sottoposti all’ergastolo ostativo. L’articolo 41-bis venne introdotto nel 1991: impedisce alle persone condannate all’ergastolo per alcuni reati di accedere alla libertà condizionale e ai benefici penitenziari, come i permessi premio, il lavoro all’esterno e la semilibertà. I reati che “ostano” all’accesso a questi benefici (da qui l’espressione “ergastolo ostativo”) sono, tra gli altri, l’associazione di stampo mafioso, il terrorismo e l’associazione finalizzata al traffico di droga. L’ergastolo ostativo si applica principalmente ai condannati per mafia, a meno che questi collaborino con la giustizia e diventino “pentiti”.
Cosa è cambiato dopo l’approvazione del decreto del Governo Meloni che lo ha in parte cambiato?
Poco o nulla, perché sono state introdotte solamente modifiche di facciata che comunque rendono altamente improbabile che l’ergastolano ostativo riesca, dopo circa trenta anni di carcere “duro”, ad ottenere la libertà. Il Governo Meloni ha ossequiato solo formalmente le pronunzia della Corte Costituzionale, lasciando in sostanza le cose come stanno.
Marcello Pesarini