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Il tonno in scatola a Fort Knox?

di Stefano
Galieni

Steal a little and they throw you in jail / Steal a lot and they make you king ( ruba un poco e finirai in galera ruba molto e ti faranno re) Sweetheart like you, da Bob Dylan”

Non è una battuta purtroppo. Ha fatto scalpore pochi giorni fa la notizia secondo cui, a causa del taccheggio nei supermercati, le scatolette di tale prezioso alimento non si trovano più negli scaffali. Chi intende acquistarlo, troverà al posto del suddetto un talloncino facsimile da ritirare e consegnare alla cassa, in cambio del quale riceverà, dopo aver pagato, la merce richiesta. I gestori dei supermercati che sono ricorsi a simile espediente hanno fatto presente che ad essere rubate sono le scatolette più pregiate, quelle di scarsa qualità sono rimaste al loro posto. Simile strategia si è estesa ad un altro “genere di lusso”, il caffè. Recentemente è stato anche elaborato uno studio, dalla Checkpoint Systems e Crime & Tech, dal titolo La sicurezza nel Retail in Italia, secondo cui, oltre ai prodotti suddetti, nei supermercati italiani vengono rubato soprattutto, pinoli, parmigiano, pile, cerotti, insetticidi e profilattici. Aumenta anche il frutto dei superalcolici e questo lascia interdetti visto che oramai, in gran parte nelle catene della grande distribuzione, tali prodotti sono da anni tenuti sotto chiave.

La stampa mainstream insiste sul fatto che a causa della crescita dei furti, la grande distribuzione ha anche dovuto aumentare i prezzi per sopperire ai mancati introiti. Implementare la sicurezza sembra essere divenuto un dogma. Forse, se non costassero troppo, sarebbe già stato predisposto un aumento del personale addetto alla vigilanza, magari anche dotato di Taser, chissà. L’aumento dei furti di generi spesso di prima necessità, ha avuto una crescita continua dalla fase post pandemia, non sarà che il covid ha lasciato molte persone più povere e meno in grado di provvedere ai propri bisogni materiali? No il problema resta il calo dei profitti che per la Grande Distribuzione Organizzata (a seguire GDO) semplicemente non è ammissibile. Da anni si tenta di farvi fronte sia con l’aumento dei sistemi di sorveglianza o dei sistemi antitaccheggio, per cui sono nate aziende specializzate nella sicurezza. Una di queste, partendo dal presupposto che i furti nei supermercati superano l’1,01% del fatturato complessivo, ha approntato etichette adesive di protezione 4×4 a radiofrequenza.

Risultano – a detta delle aziende produttrici – molto affidabili in quanto riescono a proteggere la merce e a limitare i danni conseguenti ai furti. In offerta se ne trovano di ogni tipo: disattivabili e non, bianche con falsi codice a barre, personalizzabili, con possibilità di sovrastampa di prezzo, peso e codice del magazzino, inserite in cartoncini per blister, addirittura per prodotti da banco del fresco, applicabili direttamente anche sul cibo. Ovviamente le spese per l’acquisto di tali prodotti porta ad un ulteriore rincaro dei prezzi del prodotto acquistato, anche la sicurezza si paga.

E se chi prova a inserire nella propria sporta prodotti che non riesce a pagare, dai nascondigli nelle tasche o nelle borse a metodi più sofisticati come borse schermate o l’utilizzo di magneti per disattivare i sistemi antitaccheggio, a difendere la proprietà provvedono le leggi.

In casi del genere il reato è definito in due articoli del codice penale, il 624 (furto semplice) e il 625 comma 7, (furto aggravato dall’esposizione della merce alla pubblica fede), in quanto questa, negli scaffali è accessibile a chiunque. Nel secondo caso, quello più usato, la pena prevista è più alta rispetto al furto semplice. La pena prevista, essendo reato penale, è la reclusione da due a sei anni e una multa da 927 a 1500 euro. Ma per poter essere condannati si deve essere presi e questo di solito può avvenire solo all’interno del supermercato. In tal caso l’accusa è di tentato furto quindi si prevede la riduzione di almeno un terzo della pena. Per la giurisprudenza la presenza di videosorveglianza o il fatto che la merce sia costantemente monitorata non escludono l’aggravante della cd “pubblica fede”. Se l’appropriazione riesce il responsabile dell’esercizio può comunque, magari avendo individuato il sospetto, sporgere querela. A detta delle associazioni degli esercenti, la percentuale dei tentativi di taccheggio che giunge a denuncia è estremamente bassa, non superando il 3% del totale. Gli altri si lasciano andare per pietas? Ogni caso fa scuola a se, tenendo conto del fatto che, secondo una sentenza della Corte di cassazione del 2023, se il valore della merce sottratta è inferiore ai 50 euro – come per la quasi totalità dei tentativi – il reato viene considerato estinto per irrilevanza dello stesso. A volte accade persino che durante un processo per furto sia il giudice stesso a pronunciarsi in maniera difforme da come ci si aspetterebbe.

È recentissima la sentenza emessa nei confronti di una coppia, madre di 75 anni e figlia di 35, che vivono in una roulotte nella periferia di Torino, sorprese ad uscire, eludendo i controlli e le casse, da un grande supermercato, di una delle catene più note nel Paese, con una spesa del valore di oltre 250 euro, contenente alimenti. “Lo abbiamo fatto perché siamo in difficoltà” si sono giustificate le due, raccontando una storia di depressione e povertà, con la madre costretta a campare con 700 euro al mese di pensione, poche occasioni di lavoro, le bollette della luce e altre incombenze a cui dover far fronte che non permettono neanche di curarsi, figuriamoci di acquistare cibo. La giudice a cui era stato affidato il caso, pur ritenendo l’arresto legittimo ha deciso di non disporre alcuna misura ulteriore, limitandosi ad un ammonimento verbale. Del resto la “refurtiva” era tornata indietro, se si esclude una confezione di prosciutto danneggiata del valore di 22 euro. Lo stesso pubblico ministero si era “limitato” a chiedere per le due donne l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Una delle infinite storie di umiliazione, che poteva avere esito ancora peggiore, ma che tale resta e che ogni giorno si verifica in un paese in cui essere poveri è un reato. Anni fa provocò anche risate amare la scoperta, a seguito di una cd inchiesta, del racket dei pinoli. In Versilia e Lunigiana, nei supermercati, sparivano con frequenza sacchetti di tale gustoso alimento. Un magistrato in cerca di notorietà, supportato da alcuni esponenti politici locali di destra, riuscì ad inventarsi un curioso teorema – i malfattori erano in gran parte rom – in base al quale tali furti avevano uno scopo. Esportare i pinoli in Liguria per inserirsi nel mercato della produzione del pesto. L’inchiesta venne smontata facilmente in tribunale ma si consiglia vivamente di non cercare di appropriarsi indebitamente ti tale prodotto.

Prezzi, salari ed inflazione reale, la solita storia.

Nel mese di luglio il tasso di inflazione è rimasto invariato rispetto a quello di ottobre del 2023, + 1,7%. Questo, unito a dati poco significativi sull’andamento dell’occupazione hanno portato a dire alla presidente del Consiglio, che il tasso di povertà è rimasto invariato, anche è in fase di miglioramento. Peccato che questo non corrisponda al vero poi quando si va a vedere la condizione reale delle persone. A luglio di quest’anno, il carrello della spesa dei beni elementari e di largo consumo è cresciuto del 2,2%, del 2,8 % quello dei beni di consumo quotidiano di giugno, con uno 0,1 in più rispetto al maggio e su base annua del 3,2%. Si tratta di un segnale allarmante per milioni di famiglie, in vista delle ulteriori stangate previste per l’autunno. I prodotti il cui incremento dei prezzi è più forte sono quelli che costituiscono i beni essenziali, non sostituibili, che incidono sul bilancio familiare soprattutto nelle fasce di reddito medio-basso, come pane, pasta, frutta, verdura, carne e latticini, ma anche prodotti per la pulizia e la cura della persona. Si tratta di una voce che, in assenza di sostegni mirati e non di bonus, erode la capacità di spesa complessiva. Codacons e Unione nazionale consumatori (UNC), rimarcano come non ci siano state affatto inversioni di tendenza per le spese obbligate. L’aumento dei prezzi dei beni primari comporta, infatti, un impatto molto più profondo di quello esercitato da altri comparti, in quanto si tratta di consumi che non possono essere rinviati o eliminati. Soprattutto L’UNC parla apertamente di “Dati pessimi”, rinnovando l’allarme sulla progressiva erosione del potere d’acquisto degli italiani, in particolare di chi è in pensione, di chi ha lavoro precario e delle famiglie monoreddito. Anche il rincaro della componente alimentare ha effetti a catena sull’intero sistema dei consumi: meno disponibilità economica per spese discrezionali, maggiore indebitamento, minori risparmi

Poi ci si stupisce che molte persone in meno si siano potute permettere una vacanza estiva – a meno risorse è corrisposto un aumento assurdo dei costi per avere un semplice ombrellone in spiaggia. E mentre in altri Paesi europei cala il costo di alcuni prodotti come l’olio extravergine di oliva, gli imprenditori quasi festeggiavano nel 2024, notando come in Italia il prezzo medio di tale prodotto superasse i 9 euro al litro, con un aumento del +32% rispetto al 2023 e addirittura del +112% rispetto al 2021. Della serie: “l’olio buono lo acquista chi se lo può permettere, la maggioranza della popolazione si accontenti di prodotti di infima qualità. Il prezzo dell’italico olio di pregio, in quanto alto, è testimonianza concreta del suo valore su tutto il globo terracqueo. (Cit). Secondo quanto riportato dal responsabile politiche sociali di Rifondazione Comunista Giovanni Barbera, in un suo articolo “Contemporaneamente, i salari nominali registrano timidi segnali positivi: nel periodo gennaio–giugno 2025 la retribuzione oraria media è cresciuta del 3,5% rispetto allo stesso semestre del 2024. Tuttavia, questo aumento non si traduce in un effettivo miglioramento del tenore di vita. Al contrario, i salari reali restano circa il 9% inferiori rispetto ai livelli di gennaio 2021, complice una fiammata inflazionistica che ha eroso gran parte degli incrementi. Nel solo mese di giugno, l’indice delle retribuzioni contrattuali orarie è cresciuto dello 0,5% su maggio e del 2,7% su base annua. L’aumento è stato del 2,3% nell’industria, del 2,7% nei servizi privati e del 2,9% nella pubblica amministrazione. Tuttavia, oltre il 40% dei lavoratori (circa 5,7 milioni) resta ancora in attesa del rinnovo del contratto collettivo, con conseguenze dirette sulla capacità di recupero del potere d’acquisto. Si tratta di una forbice inaccettabile. Da un lato salari nominali che crescono troppo poco, dall’altro prezzi che aumentano soprattutto dove incidono le spese essenziali. Questo scarto ha determinato una perdita strutturale del potere d’acquisto, soprattutto per chi ha redditi fissi o bassi”.

E la povertà lentamente, avanza

In assenza quasi totale di strumenti di sostegno al reddito le condizioni di povertà, che possono poi costringere a dover ricorrere ad espedienti anche per mangiare, sono destinate ad aumentare. L’ISTAT, non pubblicherà stime preventive sui dati, ad ottobre, prossimo si avranno quelli relativi al 2024, intanto sono disponibili quelli del 2023. Teniamone conto, ragionando sul fatto che gli indicatori ci dicono già come non c’è da aspettarsi alcun miglioramento, anzi, per gli anni a venire.

L’ISTAT ha un metodo consolidato nell’analizzare questa condizione ormai strutturale del Paese e parte dalla cd “povertà assoluta” in cui si trovano le famiglie che non dispongono delle risorse economiche minime per acquistare un insieme di beni e servizi considerati essenziali. Questo indicatore, però, si basa sulla spesa per consumi delle famiglie, non sul reddito e varia, in base al costo della vita, da territorio a territorio. L’istituto ha stimato che nell’anno indicato, le persone in povertà assoluta fossero 5 milioni e 694 mila, ventimila in più rispetto al 2022. Anche le famiglie in povertà assoluta sono aumentate, erano 2 milioni e 217 mila, trentamila in più rispetto all’anno precedente. Sempre a detta dell’ISTAT, “l’impatto dell’inflazione ha contrastato la possibile riduzione dell’incidenza di famiglie e individui in povertà assoluta”. È accaduto perché l’aumento dei prezzi, accompagnato sovente da un mancato o insufficiente rinnovo dei contratti, ha reso più costosi i beni e i servizi essenziali, la cui carenza determina l’inserimento nella fascia di chi va considerato in povertà assoluta. Una famiglia – e ripetiamo che i dati per quest’anno e per come si prospettano nei successivi portano a temere il peggio – anche se ha mantenuto lo stesso livello di consumi dell’anno precedente, potrebbe essere finita sotto la soglia di povertà perché, con gli stessi soldi, è riuscita a comprare meno cose indispensabili.

C’è poi la fascia ancora più ampia di persone in “povertà relativa” che fotografa le disuguaglianze nei consumi rispetto alla media della popolazione. Si rientra in questa categoria se la spesa mensile per consumi è pari o inferiore a quella media nazionale. È una sorta di confronto con il tenore di vita medio del Paese, basato su una soglia che cambia ogni anno perché dipende da quanto spendono in media le famiglie italiane, e viene adattata in base alla dimensione del nucleo familiare. Per esempio, nel 2023 la soglia di povertà relativa per una famiglia di due persone era pari a circa 1.211 euro mensili. A detta dell’istituto, nel 2023 le famiglie in povertà relativa erano 2 milioni e 806 mila, 135 mila in più rispetto al 2022. L’incidenza della povertà relativa tra le famiglie è passata dal 10,1 per cento al 10,6 per cento. Le persone in tali condizioni erano invece 8 milioni e 477 mila, con un aumento di 275 mila unità rispetto all’anno precedente. In questo caso l’incidenza è cresciuta dal 14 al 14,5 per cento. Per le famiglie si parla di dato quasi invariato, per le persone, esplicitamente di una crescita.

Le cause

Alla base di un’inflazione che, seppur con numeri lontanissimi dagli anni Settanta, non accenna a fermarsi c’è certamente l’aumento dei costi esterni – la guerra ci ha regalato un costante aumento delle spese energetiche – ma questa è solo una delle voci. Ed un dato odierno ci fa rabbrividire. L’Italia, con 113,3 €/MWh è oggi in UE il primo Paese per il costo dell’energia elettrica. In Svezia, dove i redditi medi sono molto più elevato il costo è di 29,3 euro sempre per MWh

L’FMI, due anni fa segnalava che il 44,8% dell’inflazione al febbraio 2023 era da attribuirsi all’espansione dei margini di profitto delle imprese. Quasi il doppio del peso derivante dal costo del lavoro. Come a dire che l’inflazione è stato un ottimo pretesto per gonfiare i profitti. E per tornare al punto di partenza, non solo compagnie energetiche e banche, ma e soprattutto la GDO ne hanno approfittato per aumentare i guadagni. Il risultato, che continua a farsi più pesante è che a pagarne le conseguenze sono alcune aree del Paese – secondo Banca D’Italia il Pil pro capite del Sud resta inferiore del 42% rispetto al Nord – e le fasce meno garantite: giovani e non solo giovani con lavoro precario, pensionati che vedono sempre più ridotto il potere d’acquisto del loro assegno, lavoratrici e lavoratori che, pur avendo regolari contratti, non riescono a sostenere le spese per mantenere se e il proprio nucleo familiare. L’occupazione oggi disponibile, in assenza di una politica industriale pubblica e di una semplice definizione di investimenti strategici, è quella di lavori temporanei, malpagati, ma che soprattutto fanno vivere, anche avendo superato i 50 anni di età, in condizioni di eterno presente. Fino a quando ci si risveglierà, con – forse – una pensione sociale che lascerà, anche in mancanza di reti sociali che si sostituiscano ad un welfare pubblico, nell’abbandono più totale. Non è fantapolitica ne quantomeno pessimismo cosmico, pensare a zone delle città più importanti, dotate di tutti i confort, destinate alle poche e ai pochi che da questa crisi continua trarranno profitto, chiuse a chi vivrà in periferie sempre più disagiate e abbandonate. Avviene già in molte città del mondo che guardiamo con sufficienza ma ci sono tutte le condizioni perché un simile scenario possa realizzarsi anche qui.

 

Occorrono risposte

Invece a nuovi strumenti antitaccheggio, a pene più severe, a fomentare l’odio diffuso verso chi non riesce a sopravvivere, servirebbe altro. Servirebbe la politica. E si tratta di risposte che deve dare la politica. Il governo parla di allarmi propagandistici – di propaganda se ne intende – ed evita di affrontare l’argomento. La segretaria del PD Elly Schlein, prima di ferragosto aveva avanzato alcune proposte: «Credo che l’Italia dovrebbe seguire l’esempio francese e fare un accordo con la GDO, per garantire stabilità e controllo sull’andamento dei prezzi dei generi di prima necessità e sostenere il potere d’acquisto. Lì hanno fatto un patto anti-inflazione con le aziende e inserito misure che evitano speculazioni. Un accordo strutturale, non una iniziativa episodica e propagandistica come il Carrello tricolore proposto nel 2023 dal governo Meloni». Si avanzano poi altre proposte che vanno dal salario minimo (la proposta dei 9 euro l’ora a carico della fiscalità generale) all’aumento del personale sanitario, a strumenti per colpire gli extraprofitti fino ad un generale aumento salariale rivolto soprattutto ai tanti lavori sottopagati come quello degli insegnanti.

Un passo avanti ma che da solo non risolve i problemi pesanti del sistema Paese.

Ad avviso di chi scrive, il controllo sui prezzi dei beni essenziali dovrebbe essere pubblico e riguardare non solo gli alimenti ma gli affitti e l’energia. Gli extraprofitti dovrebbero avere una tassazione straordinaria per sostenere politiche redistributive, come si proponeva durante l’ultima campagna elettorale, uscendo dalla logica caritatevole dei bonus. I salari dovrebbero poter essere indicizzati automaticamente, come avveniva con la scala mobile e quello minimo, anch’esso da indicizzare, dovrebbe essere a carico delle imprese.

Ma occorrerebbe un ragionamento di prospettiva: l’Italia vive un interminabile inverno demografico che solo la presenza di nuclei famigliari di persone migranti – a cui si è anche voluto negare un meno vessatorio accesso alla cittadinanza – sta, per ora, attenuando. Vivere in un Paese in cui l’età media è oggi di 49 anni presuppone l’urgenza di reimpostare un sistema di welfare esteso, con maggiori risorse per sanità, prevenzione, scuola, trasporti e quant’altro che permetta almeno una vecchiaia dignitosa ed una ripresa delle prospettive nel campo dell’istruzione e della formazione. Ma per ottenere questo ci sarebbe bisogno di una ripresa forte della politica e di una sua maggiore credibilità, soprattutto per chi patisce le condizioni che abbiamo provato a toccare. Va operata una profonda politicizzazione della società per cui ci vorranno almeno anni. E nel frattempo? Si può reagire solo col taccheggio?

Dalle attiviste e dagli attivisti di Ultima Generazione (https://ultima-generazione.com/) giunge una proposta di mobilitazione che vale la pena di raccogliere. Si chiede di attuare, nel mese di ottobre, alcune giornate di boicottaggio della GDO, soprattutto nei sabati, evitando di fare la spesa. L’intenzione è quella di creare un danno economico e di costringere ad abbassare i prezzi. Il loro punto di vista è molto netto. “Perché i prezzi del cibo aumentano sempre di più ma a guadagnare sono i supermercati e l’agribusiness e non gli agricoltori! – affermano – Perché il governo alza le tasse come l’IVA su beni essenziali e spende miliardi in armi! Perché la crisi climatica devasta i raccolti, ma a pagare sempre di più, siamo noi e non chi ne è responsabile! Perché mentre tutto costa sempre di più, i nostri stipendi sono fermi da anni: l’Italia è l’unico paese europeo in cui gli stipendi sono diminuiti dal 1990 a oggi!

Accusano il governo attuale di aver mentito quando, in campagna elettorale, promise di tagliare l’IVA sui beni essenziali. Ed a dimostrare la validità di quanto affermano si pensi all’aumento di tale imposta su pannolini e assorbenti. La loro critica entra direttamente nell’agone politico quando si contesta al governo di aver tagliato fondi a scuola e sanità mentre ci si prepara a spendere 100 miliardi di euro all’anno per spese militari. Non si limitano alla protesta ma lanciano una sfida. Propongono di tagliare e magari azzerare l’IVA sui beni essenziali. “Si può fare – dicono da UG – riducendo drasticamente le spese militari e tassando chi è responsabile di questa crisi: i colossi del fossile, l’1% più ricco e chi specula alle nostre spalle”. Con la campagna di boicottaggio si propongono di far pagare la crisi climatica, elemento dominante, non solo alla lobby del fossile ma a quella dell’agribusiness”. Con queste azioni intendono difendere il piccolo commercio e l’agricoltura, distrutti dai prezzi imposti oltre che dalla crisi climatica, vogliono denunciare lo sfruttamento a cui è sottoposto chi lavora nelle catene della GDO e il caporalato in agricoltura, si propongono di fermare lo spreco alimentare che nei grandi supermercati è normalità, intendono contrastare il consumo di suolo causato dalla costante apertura di nuovi punti di vendita. Il boicottaggio – last but not least – è funzionale anche contro chi collabora vendendo prodotti di Stati criminali come Israele. La loro è una proposta che invita a rompere con un meccanismo del commercio che è funzionale unicamente alla realizzazione di maxi profitti, in favore delle reti che ancora sussistono dei mercati rionali, dei piccoli esercenti, dei gruppi solidali di acquisto. Ma questo presuppone ripensare totalmente ad uno stile di vita dannoso, intanto almeno divenendo massa critica in grado di produrre contraccolpi, se si riuscisse a far abbassare i prezzi al dettaglio si darebbe un primo segnale. Magari si sarebbe meno costretti al furto per mangiare. Da UG lanciano un messaggio semplice e mutualistico “Il boicottaggio è anche un gesto di solidarietà: fallo per te, ma anche per chi non ce la fa più”.

 

Stefano Galieni

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