di Stefano Galieni –
Si fa presto a dire “Africa”. Soltanto a causa di un approccio ancora coloniale si considera un continente intero, il terzo per estensione con in suoi 30 mln e 370 mila kmq, in cui storie e culture diverse spesso neanche si incontrano, come una sola entità. Non si tratta solo di pensare ai 56 paesi in cui è diviso da frontiere spesso tracciate con il righello, in base a dinamiche decise a tavolino nel diciannovesimo secolo, ma di accettare una pluralità dinamica che ha una sua storia non estranea alle vicende del resto del pianeta e che in quanto tale ha dovuto rapidamente fare i conti con il crollo del Muro di Berlino e la dissoluzione repentina del blocco sovietico. In maniera e con tempi diversi, sia ben chiaro, gran parte dei paesi africani, soprattutto quelli formalmente indipendenti dal 1960, così come precedentemente sono stati considerati terreno di conflitto fra i blocchi, in guerre mai state fredde, dopo l’Ottantanove, ridefiniscono la propria posizione e le proprie prospettive. Un esempio positivo ed intrigante come terreno di studio è il Sudafrica. È nel 1989 che di fatto si concretizzano le prime trattative per superare il regime di apartheid ma è solo dopo il crollo del muro che questo si può realizzare. Il Sudafrica pre 89 ha ragion d’essere proprio in quanto luogo strategico nonché potenziale di risorse fondamentale per l’occidente. Nonostante le sanzioni e l’isolamento ufficiale il commercio con il governo di Botha e De Klerk non si era affatto fermato, né si poteva permettere che le popolazioni Xosa e Zulu, maggioritarie nel Paese insieme ai Coloured, potessero prendere il potere. L’ANC (African National Congress) del detenuto Nelson Mandela, era considerato da USA e NATO una organizzazione comunista. Eppure, partendo dal fatto che in realtà l’Ottantanove si preannuncia con segnali forti in tutto il pianeta, precedentemente, ad inizio dell’anno l’ANC dichiara di non voler più effettuare attentati mentre una parte importante dei prigionieri politici viene liberata. Tre mesi dopo l’abbattimento del muro, dal carcere di Durban esce trionfalmente Nelson Mandela, che diviene un baluardo, non solo simbolico ma in quanto grande protagonista del secolo, della transizione democratica della grande potenza africana. Ma questo può avvenire solo l’11 febbraio del 1990, quando non c’è più il rischio di una ricomposizione del Patto di Varsavia. Ma il “paese arcobaleno” con tutte le sue contraddizioni e col percorso di riconciliazione nazionale, rappresenta tutto sommato una eccezione positiva.
Ma tante altre aree del continente risentono, in tempi troppo vicini, di quanto accade attorno a Berlino. Nel 1991 Menghistu Hailé Mariàm, il “Negus rosso” d’Etiopia, viene deposto da un fronte dopo una forte carestia. Sono venuti meno i sostegni dall’Est. Eppure l’Urss, fino al 1977, aveva sostenuto il regime confinante di Mohammed Siad Barre in Somalia, non proprio benevolo nei confronti del vicino etiope. Dopo che appunto nel 1977, Barre portò il suo esercito nell’Ogaden, regione etiope a maggioranza somala, l’Urss tolse il su appoggio al governo somalo e investì in quello etiope. La Somalia, antica colonia italiana, lentamente divenne vicina al blocco occidentale. Negli anni Ottanta grandi risorse vennero versate nelle tasche del dittatore, chiamato nel proprio paese “Bocca larga”, nel 1991, lasciato da solo e senza il supporto occidentale, divenuto scomodo anche per i partner europei, venne abbandonato e la Somalia sprofondò in una guerra civile da cui solo da poco sta uscendo. Due paesi, un tempo colonie portoghesi, si ritrovarono anche a causa della guerra fredda, coinvolte in conflitti interni. In Angola, paese che ha raggiunto l’indipendenza solo nel novembre 1975, il MPLA (Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola) di Agostino Neto, prese rapidamente il potere entrando in orbita dell’Urss ma dovette contrastare l’esercito dell’UNITA (Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola) di Jonas Savimbi, che rapidamente ricevette il sostegno di USA e Sudafrica. La guerra civile è terminata solo nel 2002 ma già 10 anni prima, dopo la fine dell’Urss e la scelta del multipartitismo e del superamento dell’impostazione marxista leninista, l’MPLA si avvicinò all’occidente, si adeguò a politiche liberiste, scelse di allearsi con Usa, UK e Portogallo, sostenne addirittura le guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan. Il rapporto con l’UNITA, peraltro responsabile di crimini contro l’umanità durante il conflitto degli anni precedenti, restò altalenante. A fasi di pacificazione e di reintegro nell’esercito nazionale si alternarono momenti di conflitto armato, Ma non c’erano più le due grandi potenze a confrontarsi, per conto terzi, nel grande paese africano. Nel Mozambico, paese che come l’Angola risentì della Rivoluzione dei garofani, portoghese, dopo l’indipendenza del 1975 andò al governo Samora Machel, leader del Fronte di Liberazione del Mozambico (FreLiMo) che si ritrovò a dover fronteggiare la guerriglia caratterizzata da atrocità della RENAMO (Resistenza Nazionale Mozambicana). Il FreLiMo appoggiava i movimenti di liberazione dell’allora Rhodesia, oggi Zimbabwe e del Sudafrica e riceveva il sostegno dell’URSS. Nel 1990 iniziano a Roma le trattative fra le due forze contendenti, si va presto a libere elezioni in cui il FreLiMo mantiene il potere. Potere che detiene ancora oggi grazie anche al fatto che sin da dopo il 1990 le politiche economiche mozambicane subiscono una virata liberale abbandonando i sogni internazionalisti del defunto Samora Machel. Non è casuale che i paesi in cui il riflesso della guerra fredda si tramuta in conflitto interno sono quelli provenienti da esperienze coloniali fragili. Nei paesi sotto la dominazione inglese e francese ci sono stati minori contraccolpi. Accade anche nelle due “repubbliche del Congo”. Il “Congo Brazzaville” nonostante nelle ripartizioni coloniali si era ritrovato sotto il dominio francese, diviene nel 1969 Repubblica Popolare del Congo. Con alterne e sanguinose vicende si ritrovò nell’orbita sovietica realizzando una modalità di gestione dello Stato simile a quanto realizzato in Benin e in Guinea Conakry.
Già nel 1990 il paese si avviò verso processi di svolta liberale. La auspicata democrazia purtroppo non portò pace e benessere. Ma nessun miglioramento avvenne neanche nel “Congo belga”, fino al 1997 Zaire. Il paese che con Patrice Lumumba aveva sperimentato, forse per primo nell’Africa Sub Sahariana un tentativo di realizzazione di democrazia socialista era caduto dal 1961 (anno della morte del grande leader congolese) nella dittatura di Sese Seko Mbutu, un generale sostenuto da Belgio e Usa. Tanti anni dopo divenne chiaro che dietro il colpo di Stato che portò all’uccisione di quello che stava diventando uno dei più interessanti leader fra i cosiddetti paesi “Non Allineati” c’erano le forze occidentali preoccupate di vedere una delle fonti più ricche di risorse avvicinarsi all’Urss. A tentare riforme sociali in uno dei paesi più poveri fu Thomas Sankara, nell’ex Alto Volta poi Burkina Faso (in bambara, “Paese degli uomini integri”. Anche il Burkina, territorio controllato dalla Francia, si stava avvicinando verso un vero e proprio socialismo ma il tentativo, senza grandi sussulti dell’Urss che non lo considerava nella sua sfera di possibile influenza, venne annientato da un colpo di Stato di matrice occidentale che portò al potere per oltre 25 anni il suo vice Blaise Compaoré. Anche i paesi dell’Africa del Nord, risentirono dei contraccolpi derivanti dalla fine dei blocchi. Già nel 1990 la Libia, considerata fino ad allora “Stato canaglia”, riallaccia ufficiali rapporti diplomatici prima in Europa con Italia e Francia, più tardi con gli Usa. Del resto il Colonnello Gheddafi, dal 1969 al potere, aveva nel 1973 eliminato l’opposizione marxista e pur avendo mantenuto relazioni forti con l’Urss aveva mire panafricane che da entrambi i blocchi erano considerate indigeste. Paesi di importanza strategica per l’Europa occidentale, avevano intanto provato tentativi socialisteggianti, si pensi alle prime riforme di Bourghiba in Tunisia, ma queste furono interrotte già agli inizi degli anni Settanta e prima ancora dei cambiamenti derivanti dal crollo del muro, il generale Ben Alì, sostenuto da Francia e Italia, aveva preso il controllo del paese. Molto ci sarebbe poi da dire sugli effetti che la fine dei blocchi, provocò negli altri paesi africani, si pensi alla guerra civile in Algeria, ai regimi dittatoriali in Egitto, Uganda, Repubblica Centrafricana, molti dei quali sostenuti ad ogni costo dalle potenze occidentali in funzione antisovietica. In buona parte del Continente, dopo il 1989 si liberarono anche enormi energie ma a quel punto, i conflitti si giocarono anche sulla base degli interessi economici dei singoli paesi occidentali che finanziarono anche guerre sanguinose, si pensi a quanto accaduto in Liberia, Sierra Leone, Rwanda, solo per citare i principali. In questa ricostruzione a “volo d’uccello” su un continente complesso, è difficile produrre una sufficiente analisi storica per comprendere quanto la fine dei blocchi abbia influito sul futuro di ogni singolo paese. Ed è errato ridurre il tutto ad un meccaniccismo, anch’esso coloniale che ignori il protagonismo di leader, che hanno positivamente o negativamente, governato in ogni singolo paese, ai movimenti popolari che attorno ad alcune spinte di liberazione si sono anche prodotte. La storia africana è, da questo punto di vista, forse ancora da scrivere, ma va fatta tenendo conto in egual misura dei fattori e dei condizionamenti esterni quanto delle articolazioni interne che in un articolo di fondo neanche trovano lo spazio per essere accennate, si pensi al magma della Nigeria, stato enorme abitato da persone che parlano oltre 250 lingue diverse, o alle vicissitudini del Sudan. Ma il crollo del Muro certamente ha fatto sentire i suoi effetti anche in un mondo così vasto, finiva in pochi mesi il timore che il blocco sovietico conquistasse maggiore influenza, ma contemporaneamente si apriva la caccia al controllo delle immense risorse, minerarie, energetiche e non solo di cui l’intero continente è ricchissimo.
E resta questo il dramma africano, possedere gran parte di ciò che di più prezioso e fondamentale c’è per le potenze del pianeta ed avere contemporaneamente il 60% degli abitanti che non hanno ancora oggi accesso all’energia elettrica, per non parlare di acqua, sanità, istruzione, infrastrutture, prospettive di sviluppo. E stupiscono ancora i movimenti migratori?