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Il “giorno del ricordo”: a ciascuno il suo

di Franco
Ferrari

Ai primi di febbraio, nel sud della Spagna, si celebra il ricordo della “Desbandà”, uno degli episodi più tragici della guerra civile spagnola. Di fronte all’arrivo dei franchisti, sostenuti da 10.000 camicie nere italiani e dall’aviazione nazista, la popolazione di Malaga fuggì precipitosamente lungo la strada costiera che portava ad Almerìa, nel territorio della Spagna ancora controllato dai repubblicani.

Oltre alle notizie di massacri indiscriminati che arrivavano dalle città finite in mano ai franchisti, il terrore tra i civili venne seminato dai messaggi radiofonici di uno generali traditori, forse il più criminale, Queipo de Llano, che prometteva assassini e stupri per la popolazione civile.

E fu esattamente ciò che accadde per coloro che rimasero in città. Solo la fossa comune del cimitero di San Rafael conteneva più di 6.000 cadaveri. Decine di migliaia di cittadini di Malaga, soprattutto donne, vecchi, bambini, fuggirono a piedi e disordinatamente lungo la strada che portava verso la zona repubblicana. Questa lunga fila di profughi non subì solo le conseguenze del freddo, della fame e della sete, ma anche degli attacchi portati dagli aerei nazisti e italiani, dai cannoneggiamenti dal mare e ancora dai colpi delle artiglierie fasciste che si erano insediate a Malaga. Si calcola che ci furono altre migliaia di morti fra i civili in fuga.

Questo, che fu forse il maggiore crimine compiuto dalle forze antirepubblicane in Spagna, non ebbe la stessa risonanza mondiale che spettò al bombardamento della città basca di Guernica, immortalata dal quadro di Pablo Picasso. Gli stessi repubblicani cercarono di farla passare sotto silenzio, nelle settimane in cui avvenne, per seminare il panico e demoralizzare la popolazione che stava resistendo al franchismo. In particolare a Madrid, che aveva resistito per mesi all’avanzata franchista ma che è ancora non era al sicuro.

Per l’Italia fascista invece la criminale impresa di Malaga fu motivo di gloria e vanto per l’importante partecipazione delle truppe italiane. Il Corriere della Sera, fedele portavoce del regime, poteva scrivere in prima pagina che “Malaga era una vittoria italiana”. Fu per altro una vittoria militare contro una città praticamente indifesa se non da poche migliaia di miliziani scarsamente armati. L’esaltazione militare del fascismo italiano si scornò rapidamente per la sconfitta disastrosa subita solo poche settimane dopo nella battaglia di Guadalajara, che vide impegnati, dalla parte repubblicana, i garibaldini delle Brigate Internazionali.

Questo è uno degli episodi meno noti (la stessa voce di wikipedia non ha una versione in lingua italiana) tra i numerosi crimini compiuti dal fascismo al di fuori dei confini nazionali, dalla guerra di Etiopia fino alla sconfitta definitiva del ’45. Non fu l’unico nemmeno in Spagna, perché occorre almeno ricordare i bombardamenti di Barcellona del marzo 1938, ai quali partecipò la sedicente “Aviazione Legionaria” italiana. Uno dei primi casi (dopo Madrid) di bombardamenti indiscriminati di una grande città che, in quel momento, si trovava fuori dal teatro di guerra.

La quasi coincidenza delle date della strage della “Desbandà” con la giornata ufficiale dedicata al ricordo delle foibe e dell’esilio degli italiani dalla Jugoslavia, consente di porre una domanda: quando e perché un determinato episodio viene assunto come memoria (e in una certa misura anche falsificazione) di Stato, estrapolandolo tra i tanti che la storia ci offre.

Perché è stata finora respinta, se non addirittura ignorata, la richiesta di dedicare una giornata al ricordo dei crimini commessi dall’Italia nella propria storia, al di fuori dei propri confini, per effetto del colonialismo e della sua versione più aggressiva, ovvero il fascismo?

È stato proposto di assumere il 19 febbraio come data del ricordo di questi crimini, perché in quel giorno nel 1937, vennero massacrati migliaia di etiopi (per il solo fatto di essere africani) ad Addis Abeba, anche in questo caso dalle camicie nere e dalle truppe di occupazione italiane.

Ogni scelta di istituire una ricorrenza è un fatto politico e ideologico. Il rifiuto di ricordare questi crimini è l’altra faccia della scelta di istituire la data del 10 febbraio, estrapolando la vicenda delle foibe e dell’esodo della minoranza italiana dalla Jugoslavia (che furono sicuramente un evento drammatico) dal contesto complessivo della seconda guerra mondiale. E soprattutto cercando di cancellare il fatto che quegli eventi furono una delle conseguenze della decisione del fascismo italiano di portare la guerra, la violenza e la sopraffazione nelle terre jugoslave. Il che non implica che tutto ciò che accadde di conseguenza fosse giusto o inevitabile, ma che non si può capovolgere il dato fondamentale della responsabilità di chi diede inizio alla guerra e diede ad essa una decisa impronta “razziale”.

La giornata del ricordo del 10 febbraio nasce con una duplice motivazione politico-ideologica. La prima è la rimozione dell’antifascismo come base valoriale comune della Repubblica italiana. Questo obiettivo, che include la demonizzazione e la criminalizzazione della Resistenza, è ben chiaro e proclamato dalla destra (non solo di quella di diretta derivazione neofascista) ed è portato avanti con determinazione almeno dall’inizio degli anni ’90.

La storia del dopoguerra italiano ci dovrebbe ricordare che negli anni ’50 non era affatto scontato che l’antifascismo fosse patrimonio comune delle forze democratiche. Fu la reazione popolare e giovanile del 1960 contro il governo Tambroni che riattualizzò l’antifascismo e chiuse la porta all’accesso del partito neofascista all’area di governo. Progressivamente tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 si avviò un processo che rimetteva in discussione il cosiddetto arco costituzionale (e con esso la stessa Costituzione) e cercava progressivamente di sostituire l’anticomunismo all’antifascismo come elemento comune fondante del nuovo assetto politico-istituzionale.

La stessa mozione approvata dal Parlamento europeo qualche anno fa, nel riscrivere (e falsificare) la storia delle ragioni della seconda guerra mondiale, si muoveva in quella direzione, equiparando il nazismo al comunismo, ma anche separando il nazismo stesso, come fenomeno storico, dai diversi fascismi nazionali insediatisi non solo in Italia ma anche in molti paesi dell’Europa centro-orientale.

Il secondo elemento politico-ideologico che sta alla base dell’istituzione della giornata del 10 febbraio è la trasformazione del conflitto mondiale in conflitto etnico-nazionale. Non più opposizione trasversale, in modo diverso, a tutte le nazioni e i popoli, tra fascismo/antifascismo ma scontro tra italiani/non italiani. Una lettura che è coerente con la visione etno-nazionalista e sostanzialmente ancora razzista che caratterizza la destra italiana (e non solo). Un razzismo in parte non più basato su una gerarchia delle razze, ma su una visione “differenzialista” ovvero sulla diversità immodificabile e identitaria tra l’essere “italiano” e il non esserlo. L’identità italiana può essere solo parzialmente inserita in identità più ampie purché sempre caratterizzate dal rifiuto della comune umanità (bianchi/non bianchi, cristiani/non cristiani). Per questo dobbiamo celebrare i “nostri” morti e le “nostre” vittime ma non siamo interessati a ricordare i morti e le vittime altrui, tanto più se quei morti e quelle vittime sono tali per effetto dei crimini commessi dall’Italia e in particolare dal fascismo.

La decisione, avallata dall’allora Presidente Napolitano, di considerare gli italiani vittime di un crimine etnico, storicamente discutibile se non apertamente falsificante delle ragioni più complesse di quel conflitto, è coerente con la visione propria della destra. Non deve stupire che poi il Ministero dell’Istruzione (guidato da un Ministro d’area PD) equipari le vicende jugoslave al genocidio ebraico o allo sterminio degli armeni. In realtà è la naturale conclusione delle premesse da cui nasce la giornata del 10 febbraio. Così come è del tutto coerente che al funzionario ministeriale non venga in menta di citare lo sterminio, esso sì etnico, di centinaia di migliaia di serbi da parte del regime croata degli ustascia, sostenuto e favorito dal fascismo italiano.

A questa, che è un’operazione politico-ideologica, non si può rispondere semplicemente rivendicando le ragioni della conoscenza storica corretta degli eventi che pure è sempre necessaria. Né si può rispondere alle esagerazioni e falsificazioni storiche, costruite volutamente attorno alle foibe e all’esodo, piegando troppo il bastone dalla parte opposta e arrivando alla giustificazione totale di scelte che, per quanto comprensibili nel contesto, restano comunque criticabili, dal punto di vista morale e politico.

Occorre semmai proporre un’altra e contrapposta lettura degli eventi storici mettendo al centro una prospettiva esattamente opposta a quella sulla quale si fonda la giornata istituzionale. Da un lato mantenere viva la distinzione valoriale tra fascismo e antifascismo (nella quale il secondo non è la semplice opposizione al primo, ma è rifiuto della guerra, del razzismo, dell’ingiustizia, ecc), dall’altro rivendicare una visione internazionalista che assuma semmai i “nostri” crimini, a partire da quelli compiuti dall’Italia fascista, come quelli attorno ai quali costruire una consapevolezza storica diffusa.

Il punto di partenza è che può esistere sul piano della conoscenza storiografica una base di dati e di conoscenze comuni, ma non potrà mai esistere una visione comune a tutti degli eventi storici significativi. Le celebrazioni politiche e istituzionali di determinati eventi consegnatici dalla storia è sempre frutto di una scelta di campo. Anche il 10 febbraio dovrebbe diventare l’occasione per contrapporre il “ricordo” istituzionale ad un “ricordo” che nasca dal basso e che diventi il terreno di contrapposizione tra chi rivendica l’irriducibilità tra fascismo e antifascismo e una concezione della storia non fondata sull’etno-nazionalista bensì sull’idea della comune umanità a chi in questi principi non si riconosce.

Due visioni del mondo, in sintesi. A ciascuno la sua.

Franco Ferrari

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