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Il Confederalismo Democratico sotto attacco

di Tommaso
Chiti

di Tommaso Chiti –

Con l’annuncio del ritiro del contingente USA dalle aree nord-occidentali della Siria, al confine con la Turchia, vengono meno le condizioni negoziate ad agosto sul cosiddetto “meccanismo di sicurezza”, che ha portato Ankara e Washington a collaborare insieme alle Forze Democratiche della Siria occidentale (SDF) per la condivisione di una safe zone lungo la frontiera.

Le tensioni dei mesi scorsi, dopo la campagna militare turca, ironicamente chiamata ramoscello d’ulivo, sebbene organizzata per l’invasione di una città liberata come Afrin, avevano portato ad accordi diplomatici per l’istituzione di un centro operativo comune.

Le condizioni hanno previsto lo smantellamento di postazioni difensive delle SDF curde lungo il confine, tra Tell Abyad e Ras al-Ayn, ritirando le unità di combattimento con le armi pesanti per cinque chilometri all’interno del Paese, con la garanzia di supervisione proprio delle forze USA. Da settembre infatti nella zona si sono svolti pattugliamenti congiunti turco-statunitensi.

Proprio prima dell’Assemblea Generale dell’ONU alla fine di settembre, Erdogan aveva però ripresentato il suo piano di “corridoio di pace”, interamente sotto il controllo dell’esercito turco, fino a 30 chilometri all’interno del territorio siriano.

Le motivazioni ufficiali del governo di Ankara riguardano la necessità di dislocamento di una parte dei 3,5 milioni di esuli siriani, fuggiti durante un conflitto, che si protrae con fasi alterne dal 2011, causando oltre mezzo milione di vittime accertate e circa cinque milioni di profughi.

Le dichiarazioni di sabato scorso al congresso del proprio partito (AKP) da parte del presidente turco Tayyp Erdogan riguardo alla preparazione di contingenti militari su quel fronte, “per la salvaguardia di interessi di sicurezza“ fanno pensare ad un’imminente invasione, del resto mai celata dai discorsi pubblici. A riprova di simili dichiarazioni sono le testimonianze sullo schieramento di un sedicente “esercito nazionale siriano”, costituito in realtà da circa quattordici mila unità di mercenari jihadisti (compresi ex membri di Stato Islamico, IS, e di Al-Qaeda), come quelle milizie che hanno rioccupato Afrin lo scorso maggio.

Per il governo di Erdogan l’operazione ha un duplice risvolto.

Sul piano interno, dopo la sconfitta elettorale alle scorse amministrative nelle maggiori città del paese – come Istanbul e Ankara appunto – le manovre militari permetterebbero di alleggerire la pressione dell’opinione pubblica rispetto all’imminente scenario di crisi dell’economia turca. Questa situazione ha inoltre portato a malumori nei confronti dei profughi siriani, manifestati in più episodi di intolleranza. A livello politico poi un conflitto aperto contro i curdi, comprometterebbe l’avvicinamento fra i kemalisti del CHP e la sinistra filocurda dell’HDP, una coalizione risultata vincente proprio contro la deriva del sultano al governo.

Sul piano internazionale invece l’intento del governo filo-islamico turco è quello di stroncare l’esperienza di autogoverno del Rojava, ispirata al modello di confederalismo democratico di tipo plurale, paritario ed ambientalista, definito dal leader del PKK, Abdullah Ocalan.

Oltre alla campagna militare contro le milizie jihadiste di Daesh, le forze democratiche SDF dalla liberazione di Kobane hanno sancito un nuovo sistema di convivenza fra popolazioni curde, yazide, assire, arabe e turkmene presenti nella regione, attraverso la ‘Carta di Rojava’, fondativa di una “riconciliazione pluralista e democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione […] in una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica”.

Un simile progetto rappresenterebbe di fatto il superamento della divisione territoriale così come concepita dagli accordi di Sihkes-Picot, pur mantenendo un approccio realista, di tipo federativo e unitario rispetto all’integrità nazionale della Siria.

Nella lotta contro daesh le forze democratiche siriane, articolate nelle unità di difesa popolare Ypg ed Ypj si sono distinte come le più organizzate sul campo, tanto da riuscire a liberare le roccaforti di Raqqa e Mosul dal califfato.

Malgrado il sostegno alle popolazioni resistenti, portato avanti dagli USA finora, le ultime controverse dichiarazioni di Trump sembrano dare il via libera all’alleato della NATO per nuove manovre militari, tanto che proprio lunedì i caccia turchi hanno effettuato i primi attacchi aerei contro le basi curde nella provincia siriana di Hasakah.

Fra ripensamenti e smentite di facciata, la Casa Bianca non sembra volersi assumere un ruolo preminente in questa fase, tanto più che l’attore principale è proprio la Turchia, legata non solo alle alleanze occidentali, ma a quelle più regionali, grazie al processo di Astana, portato avanti con Iran e Russia.

Le forze democratiche SDF dal canto loro si dicono pronte a resistere ad oltranza e fanno appello alla solidarietà internazionale per difendere la pace e tutelare i diritti umani da nuove violazioni militari. In questo quadro i grandi assenti sembrano soprattutto l’Unione Europea e le altre potenze del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che finora hanno sommessamente seguito la vicenda, senza esprimere chiaramente una posizione in favore di un popolo che ha lottato per la propria libertà ma anche e soprattutto per una società egualitaria, dove vengano rispettati i diritti delle donne e i diritti civili.

Per questo alle autorità del Rojava non è restato altro che la riattivazione del canale con il regime siriano di Assad, che da Damasco fa sapere tramite il viceministro agli Esteri al Miqdad di voler difendere l’integrità territoriale, invitando però le forze del Rojava ad evitare ‘di abbandonarsi alla rovina’.

Mentre in diverse parti d’Europa si preparano mobilitazioni di solidarietà per la pace e per il rispetto del diritto internazionale, questo ennesimo atto di imperialismo militare può provocare una nuova destabilizzazione e chiama in causa direttamente le dormienti istituzioni UE.

Il pretesto ufficiale di una simile operazione è infatti quello del ricollocamento dei profughi, riproposto proprio nei giorni del summit dei ministri dell’Interno in Lussemburgo, ai quali la Turchia ha chiesto nuovi fondi per il programma di accoglienza. Su questo piano infatti il sistema di condizionalità tipico degli accordi UE potrebbe rappresentare uno strumento di dissuasione abbastanza concreto per la diplomazia europea, nel caso si decidesse per una posizione chiara ed indipendente dalle ombre lunghe dell’Alleanza Atlantica.

Fonti:

https://www.tagesschau.de/ausland/tuerkei-us-101.html?fbclid=IwAR3qva5hBxh58ihGHHLB0Ii5-EUc8ep_5FL5CRrujo5CHDDcvIIz58XhBwg

https://www.repubblica.it/esteri/2019/10/08/news/siria_la_frenata_usa_nessun_ritiro_l_ordine_di_trump_riguarda_50-100_soldati_-237948923/?ref=RHPPLF-BH-I237948924-C8-P8-S1.8-T1

http://nena-news.it/siria-curdi-pronti-a-respingere-le-truppe-turche-dopo-la-pugnalata-di-trump/

https://www.commondreams.org/views/2019/10/07/what-expect-turkeys-coming-invasion-syria

https://www.theguardian.com/world/2019/oct/08/syrian-kurds-brace-for-war-north-eastern-syria-turkey

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