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Fine pena (quasi) mai

di Maria Pia
Calemme

Con la sentenza1 del 13 giugno di quest’anno la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) si è pronunciata sul cosidetto “ergastolo ostativo” presente nell’ordinamento italiano, decidendo in favore del ricorrente Marcello Viola, condannato nel 1999 all’ergastolo (sentenza diventata definitiva nel 2004) per associazione a delinquere di stampo mafioso, omidicio, sequestro di persona e detenzione di armi da fuoco. La sentenza della Corte europea è diventata esecutiva a seguito del rigetto del ricorso dell’Italia.

Con l’espressione “ergastolo ostativo” ci si riferisce al particolare regime previsto per i condannati all’ergastolo per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario (tra i quali figura quello di associazione di tipo mafioso), che non collaborino con la giustizia2. Questa previsione legislativa nega ai condannati per questi reati l’accesso a una serie di benefici penitenziari, quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale, equiparando la mancata collaborazione con la giustizia a una presunzione assoluta di pericolosità sociale.

La sentenza della Cedu, come sempre estremamente articolata e fitta di rinvii a propri precedenti pronunciamenti nei quali sono stati fissati alcuni principi fondamentali in materia di ergastolo3, interviene esattamente su questo aspetto, ribadendo che l’applicazione di una pena perpetua non contrasta di per sé con il sistema di tutela dei diritti creato dalla Convenzione ma, affinché sia rispettato il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”), è necessario che l’ordinamento assicuri un meccanismo di revisione della condanna che offra al condannato, decorso un certo periodo di detenzione, concrete possibilità di liberazione4.

Il ricorso alla Cedu proposto da Marcello Viola nel 2016, infatti, è relativo al respingimento (a norma dell’art. 41-bis OP) da parte del Tribunale di sorveglianza dell’Aquila della richiesta di accedere alla liberazione condizionale, l’istituto dell’ordinamento penitenziario che consente di espiare parte della pena in regime di libertà vigilata, al quale i condannati all’ergastolo c.d. “ordinario” possono accedere dopo aver scontato almeno 26 anni5.

Le dichiarazioni scomposte di numerosi esponenti politici di queste ore, come accade spesso, non sembrano cogliere il punto: non solo non si tratta di una sentenza “libera tutti” ma nemmeno di un pronunciamento che apre le porte del carcere al solo ricorrente (la Corte precisa che “la constatazione di violazione pronunciata nella presente causa non possa essere intesa nel senso di dare al ricorrente una prospettiva di liberazione imminente”)6.
La Cedu, infatti, non stabilisce affatto che non possa essere in futuro respinta una richiesta di liberazione condizionale avanzata da un condannato all’ergastolo per uno dei reati contemplati dall’art. 4-bis dell’OP, ma si limita ad affermare che non possa essere respinta in maniera automatica, restituendo in questo modo alla magistratura di sorveglianza la discrezionalità, incentrata sulla partecipazione del condannato al “trattamento” penitenziario e basata sulla valutazione della pericolosità del richiedente, che esercita sempre quando esamina la richiesta di un condannato di accedere a uno dei benefici previsti dall’ordinamento. Dice, insomma, che non si può semplicemente “buttare la chiave”.

La sentenza della Corte europea, pur senza essere la prima in questo senso e pur non avendo alcun effetto diretto sulla legislazione nazionale, è importante perché invita lo Stato italiano a riformare l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario laddove preclude in maniera automatica e assoluta ad alcuni condannati la possibilità di poter riacquistare la libertà7.

Richiama, in buona sostanza, i legislatori a promulgare norme coerenti con il principio costituzionale dell’art. 27. C’è qualcuno che intende sostenere che la Costituzione impedisca di perseguire i delitti di mafia? Perseguire, non “fare la guerra”, perché se si adotta la terminologia bellica si accetta l’idea (sottintesa ma negata) che tutto sia lecito.

1 La sentenza, tradotta dal francese, è disponibile sul sito della Corte. Per un approfondito esame della sentenza si veda, tra gli altri, l’articolo di Serena Santini in DPC – Diritto penale contemporaneo.

2 Per una ricostruzione della storia dell’ordinamento penitenziario si veda, tra gli altri, la sezione dedicata del sito del Centro di documentazione Due Palazzi.

3 In particolare, ma non solo, le sentenze Vinter e Hutchinson c. Regno Unito e Murray c. Paesi Bassi.

4 Nelle parole della Corte: “Il ricorrente si trova nell’impossibilità di dimostrare che non sussiste più alcun motivo legittimo in ordine alla pena che giustifichi il suo mantenimento in detenzione, e che pertanto tale mantenimento è contrario all’articolo 3 della Convenzione […], in quanto, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale […], il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, invece di tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna [e] rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena”.

5 Secondo i dati del Ministero della Giustizia aggiornati al 30 giugno di quest’anno, i detenuti condannati all’ergastolo sono 1.776 (popolazione carceraria complessiva: 41.103).

6 E non apre la strada alla richiesta di risarcimenti milionari, come pure è stato sostenuto in queste ore, limitandosi a riconoscere un indennizzo di 6.000 euro per le spese sostenute: “La Corte ritiene che, alla luce delle circostanze del caso di specie, la constatazione di violazione dell’articolo 3 della Convenzione alla quale è giunta costituisca un’equa soddisfazione sufficiente per il danno morale che il ricorrente possa avere subito”.

7 Nelle parole della Corte: “Lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili”.

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