di Tommaso Chiti –
Per la venticinquesima volta, ci risiamo! L’ennesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP25) si è tradotta in un nulla di fatto, malgrado le mobilitazioni mondiali trainate dai Fridays For Future, che hanno invaso le piazze nei mesi scorsi, per ribadire l’emergenza climatica, che mette seriamente in discussione le possibilità di vita sostenibile sul pianeta.
Nel testo finale della più lunga conferenza sul clima della storia non sono previsti ulteriori provvedimenti rispetto a quelli di Parigi, almeno fino al 2025.
Del resto, in una fase geopolitica di crescenti conflitti – dalla Siria, passando per la Libia, fino ai tentativi di golpe filo-USA in Venezuela e ben più concretamente in Brasile e Bolivia – alla scarsità delle fonti esauribili corrisponde una nuova politica delle cannoniere e dello sfruttamento sregolato, piuttosto che un’inversione di rotta in senso ambientalista.
Lo stesso spostamento del summit da Santiago del Cile a Madrid per scappare dall’insurrezione popolare contro caro-vita e politiche liberticide di austerità è emblematico di quanto lo stravolgimento non sia solo climatico ma anche popolare, rispetto a speculazioni e diseguaglianze; e di quanto i governi tengano piuttosto in conto gli interessi multinazionali, invece dei diritti umani.
Un piccolo esempio mediterraneo è il recente invio di una fregata militare italiana a largo delle coste di Cipro, per tutelare gli interessi estrattivi di un nuovo giacimento petrolifero assegnato ad ENI, al quale anche la Turchia non pare indifferente, dato il dispiegamento di sue unità navali e l’accordo con la Libia, che attribuisce ad Ankara un’estensione dell’area di interesse economico, in cambio del supporto militare al premier di Tripoli, Al Serraj.
Il cerchio della guerra, insomma, o più semplicemente del solito capitalismo, che coniuga sete imperialista di nuovi domini ricchi di materie prime, con l’accaparramento di fonti fossili da parte di potenze ‘post-coloniali’. Ai margini, i bordi di questo cerchio appaiono altrettanto destabilizzanti, come l’impoverimento e la desertificazione dei territori; e quindi le fughe di massa con nuove ondate migratorie, di popolazioni in cerca di una vita più sostenibile appunto.
Non a caso, a denunciare l’esito deludente della COP25 sono proprio quei leader africani, che hanno visto le proprie popolazioni colpite dai cambiamenti climatici in termini di salute, sicurezza alimentare e sussistenza produttiva.
Secondo l’IPCC fra i primi 10 paesi altamente vulnerabili a fenomeni di cambiamento climatico, ben sette sono del continente africano – ovvero Ciad, Eritrea, Etiopia, Nigeria Repubblica Centrafricana, Sierra Leone e Sud Sudan. A proposito, Refugees International ha studiato l’imponenza dell’effetto migratorio di cicloni devastanti in Mozambico e Zimbabwe. Per questo la delegazione africana ha ribadito la necessità di un sistema di contabilità per il mercato delle emissioni, evitando il doppio conteggio, con una commissione per finanziare i progetti di adattamento.
Oltre all’assenza di nuovi impegni giuridicamente più stringenti, i riferimenti ai contributi nazionali determinati (NDC) pongono soltanto un’indicazione di aggiornamento per il 2020, rispetto ad obiettivi sulle quote di emissioni, che risultano però differenziate fra paesi intenzionati a definire scadenze nel 2025 ed altri invece nel 2030. Questo pare l’aspetto più controverso, dato che per la prima scadenza ai paesi è richiesto di presentare una reale implementazione degli NDC, mentre per la seconda si richiede soltanto di ‘aggiornare o comunicare’ i risultati attesi.
Del primo gruppo fanno parte stati – come Ecuador, Congo, Gabon, El Salvador, Suriname, Guyana, Belize, Micronesia, Saint Vincent and the Grenadines, Samoa, Niue, Palau, Tuvalu.- le cui emissioni globali complessive non rasentano un quarto di quelle totali. Tutti i più grandi paesi inquinanti invece ricadono nel secondo gruppo, ad eccezione degli USA, che sotto la presidenza Trump hanno deciso di abbandonare ogni impegno in materia a partire dal 2020.
Nuove diatribe sono emerse anche sui provvedimenti necessari a raggiungere gli obiettivi della COP22 di Parigi, per la limitazione del riscaldamento globale sotto ai 2°; tanto da far fallire ogni accordo sulla ridefinizione dell’art.6 in merito al commercio di carbone, molto lontano dal sistema di scambio europeo (ETS), con la compravendita di quote di emissioni in una sorta di paniere comune.
Ad insidiare maggiormente implementazioni sul mercato del carbone sono state le proposte di mantenimento del meccanismo di sviluppo pulito (CDM) per paesi emergenti dell’accordo di Kyoto, da parte della delegazione australiana; oltre a quella sul doppio conteggio, fra crediti di sviluppo pulito (CDR) e la loro compravendita, avanzata dalla delegazione brasiliana.
A pesare sulle negoziazioni non sono soltanto le diverse propensioni ecologiste dei governi, quanto piuttosto le influenze delle compagnie produttive della grande industria e le loro ricadute in termini geopolitici sulla competizione mondiale, come nel caso della produzione dell’acciaio, della logistica e naturalmente del comparto carburanti, che risentono della continua ‘guerra commerciale’ sui dazi, in primis fra USA, Cina ed Unione Europea.
Inoltre, la centralità delle emissioni fossili nelle linee guida politiche della COP25 è parsa obsoleta rispetto ai capitoli commerciali maggiormente critici ed altrettanto rilevanti, quali ad esempio quelli dei sussidi statali, del trasferimento di tecnologie e della proprietà intellettuale.
Agli interessi economici si sommano quelli nazionali, che lasciano spiragli di apertura soltanto per traffici reciprocamente vantaggiosi, spesso a carattere regionale. Proliferano accordi bilaterali, sul piano del reciproco sostegno spesso di tipo militare, quindi corredati da quell’export di armamenti, che non sembra avere confini, salvo poi porre le basi per nuove barriere di frontiera ai flussi migratori – di profughi, vittime di quegli stessi traffici -, barriere stimate in Europa come sei volte superiori al Muro di Berlino, alla ricorrenza del trentesimo anniversario dalla sua caduta (!).
In questo clima davvero teso è dunque difficile raggiungere soluzioni multilaterali, sebbene il disastro ambientale non conosca confini.
Sul piano politico a farne le spese è anche l’ambizioso progetto per un ‘Green Deal’ europeo, lanciato appena pochi giorni fa dalla nuova commissione Von der Leyen, per raggiungere la ‘neutralità climatica’ con zero emissioni entro il 2050.
Con la Brexit ormai vittoriosa nell’esito elettorale britannico favorevole a Johnson, la riduzione delle emissioni UE del 40% già entro il 2030 sembra allontanarsi ulteriormente, malgrado l’intento di varare la prima ‘legge europea sul clima’; tanto più se si considera l’ostilità ad implementazioni eco-sostenibili da parte di paesi del vicinato mediterraneo come la Turchia o dell’accordo ACP.
In definitiva, oltre al fallimento della conferenza, ad essere seriamente in crisi sembra proprio la capacità di stabilità globale fondata sulla condivisione multilaterale e sulla preminenza del diritto internazionale.
Fra l’azione decisiva richiesta per fermare l’emergenza climatica e il rischio di pagare un prezzo insostenibile in futuro, la situazione sembra propendere per prospettive davvero incerte.
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