Il dibattito a sinistra tende ad essere schiacciato sulla contingenza politica (confronto pur necessario) oppure rinchiuso in una serie di “echo chambers” in cui chi può cerca di parlare a coloro che sono pronti a dargli ragione, sfuggendo spesso al confronto con idee diverse. Credo che bisognerebbe invece dare profondità teorica alla discussione, verificando criticamente anche premesse spesso date per scontate, e sottoporre al confronto tesi precise che consentano di verificare punti di differenziazione ma anche, si spera, possibili elementi di convergenza.
A questo proposito, il libro di Alessandro Valentini, la cui storia politica lo colloca originariamente in quella che veniva giornalisticamente indicata come la corrente “cossuttiana” del PCI poi con ruoli di direzione del PRC e attualmente, se capisco bene, come “battitore libero” al di fuori delle esistenti organizzazioni della sinistra, offre non pochi spunti di riflessione anche qualora non se ne condivida alcune o molte delle tesi sostenute.
Pubblicato da poco dalle edizioni “Punto Rosso” (354 pagine, 22 euro) si intitola: “Il capitalismo finanziario oltre il capitalismo”. I temi affrontati dall’autore sono molti e hanno sia di carattere più schiettamente teorico che di ricostruzione storica come di proposta politica per il presente.
Operazione complessa quindi provare a sintetizzarne gli argomenti centrali senza rischiare di impoverirli per eccesso di schematizzazione, ma credo che valga la pena di provarci, anche per poter evidenziare alcuni punti di dissenso.
Dal punto di vista dell’analisi mi pare che le tesi fondamentali di Valentini siano le seguenti:
- siamo in presenza di una mutazione del capitalismo, nel quale è oggi dominante il “capitale finanziario”. Si potrebbe parlare di “neocapitalismo” o di “postcapitalismo” se non fosse che queste formule potrebbero lasciare intendere la necessità di abbandonare le categorie marxiane, mentre per l’autore queste restano fondamentali. Questa mutazione è rintracciabile in alcuni passaggi storici, come la famosa decisione di Nixon di slegare il dollaro dalla convertibilità con l’oro, la separazione delle Banche centrali dalle politiche del Tesoro (in Italia ne furono protagonisti Ciampi e Andreatta) e in generale nel processo di globalizzazione (che non è tutto negativo). Questo processo ha prodotto due conseguenze importanti: la trasformazione della moneta in merce e la possibilità di slegare la produzione di plusvalore dal momento della produzione;
- questa mutazione non rimette però in discussione la concezione dell’imperialismo, così come definito dal classico testo leniniano e quindi una logica di conflitto tra due campi: quello costituito dai tre poli imperialistici (USA, Unione Europea, Giappone) contro il campo che comprende sia paesi a orientamento socialista (es. Cina) che paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato (es. Russia);
- Il nuovo carattere del capitalismo produce una tendenza verso forme di governo “a-democratiche” in particolare costituendo enti e istituzione di carattere sovranazionale completamente sottratti alla sovranità popolare. Tale carattere “a-democratico” deriva anche dal fatto che la base sociale che beneficia e sostiene questo “nuovo capitalismo” si è ristretta soprattutto per l’impoverimento e la precarizzazione di parte del ceto medio.
Da questo quadro di analisi, Valentini fa derivare una serie di proposte che provo a sintetizzare, anche qui necessariamente in modo schematico:
- a livello italiano occorre pensare alla costruzione di un “Partito del Lavoro” che si basi sul “mondo dei lavori” (con una stretta relazione con le strutture sindacali) e che consideri superata la divisione intervenuta dopo la rivoluzione d’Ottobre tra comunisti e socialdemocratici. In questo soggetto dovrebbero convivere varie correnti ideologiche, caratterizzate però da un comune richiamo alla classe lavoratrice, così come avveniva, pur in un contesto storico diverso, nella Prima Internazionale (di Marx e Engels);
- questo partito dovrebbe prioritariamente impegnarsi nella conquista di un nuovo “welfare state” che tenga conto dei mutamenti intervenuti nell’assetto sociale, nella composizione del mondo del lavoro, ecc;
- sul piano internazionale dovrebbe collegarsi al “campo” dei paesi contrapposti ai poli imperialistici, conseguentemente a quanto si è detto sopra sul permanere dell’analisi di derivazione leninista dell’imperialismo (ma su quanto sia corretto il richiamo a Lenin si potrebbe discutere a lungo).
- benché l’attuale Unione Europea sia anch’essa espressione del capitale finanziario uscirne (e in particolare uscire dall’euro) porterebbe l’Italia ad una crisi ancora più grave con una deflazione selvaggia e un aumento drammatico della disoccupazione. Occorre semmai rilanciare le idee contenute nel “Manifesto di Ventotene”, di Altiero Spinelli, verso la costituzione degli “Stati Uniti d’Europa”, sulla base di un movimento popolare che abbia per obbiettivo la convocazione di un’Assemblea Costituente a livello europeo;
- coerentemente con questa visione europeista, occorrerebbe costituire un partito “pan-europeo” della sinistra che non annulli i partiti nazionali;
- tutto questo andrebbe inquadrato in una prospettiva che metta al centro la libertà, contrapposta all’idea di democrazia, vista questa come mera proiezione ideologica del capitale finanziario. Libertà che va perseguita attraverso “la realizzazione di un diverso sistema sociale, marxisticamente parlando del socialismo, cioè della fine della sottomissione della sfera della libertà a quella della necessità”.
Rispetto a questo insieme articolato di tesi e di proposte, diverse delle quali meriterebbero un esame ben più approfondito di quanto sia possibile fare in questa nota di lettura, avanzo alcuni elementi di dissenso o interrogativi.
Non c’è dubbio che sia necessario verificare lo stato del capitalismo, alla luce del trentennio di egemonia neoliberista (definizione che, mi pare, Valentini non usi) e della sua doppia crisi, quella finanziaria di un decennio fa e quella di natura diversa ma di impatto non minore, dovuta all’attuale pandemia. Su questo esistono differenti paradigmi anche nel solo ambito marxista.
Indubbiamente si registra un notevole aumento della massa monetaria in circolazione nel mondo, ma ci si può chiedere se questa sia effettivamente dovuta alla capacità del capitalismo di slegare la produzione di plusvalore dal momento della produzione, oppure dalla necessità di accrescere l’indebitamento (a vari livelli, individuale, statale, delle imprese) per continuare a mantenere la capacità di accumulazione del capitale e quindi di profitto. In questo caso la massa monetaria esistente sarebbe in buona parte un’anticipazione della ricchezza reale che sarà prodotta nel futuro. La moneta non sarebbe solo un’altra merce ma diventerebbe una profezia che si autoavvera.
La comprensione della natura delle mutazioni avvenute nel capitalismo, della natura delle sue contraddizioni e delle possibilità che queste offrono per fondare un progetto di trasformazione sociale non fondato solo sul desiderio soggettivo di alcuni è certamente un tema aperto, sul quale il libro di Valentini offre spunti interessanti.
Poco convincente, invece, la riproposizione di una visione dell’imperialismo da cui far derivare la conferma di una logica “campista” che mi sembra abbia fatto non pochi danni al movimento operaio e soprattutto comunista. Ritengo difficile sostenere analiticamente che da un lato il capitalismo muti profondamente e dall’altro resti immobile. Senza aderire alla tesi sull’Impero di Negri e Hardt, che davano per acquisite tendenze in realtà ancora molto parziali nel capitalismo globale, a me pare evidente che vi sia una contraddizione nel capitalismo tra la dimensione globale delle forze produttive e la struttura politica ancorata allo Stato-nazione. Una tensione che, per alcuni anche a sinistra, andrebbe risolta tornando a mettere al centro lo Stato nazionale, come terreno necessario del conflitto tra capitale e lavoro.
Opportunamente Valentini, parlando di Europa rifiuta questa ipotesi “sovranista”. Ritengo del tutto positiva la proposta di un “partito pan-europeo”, anche se trovo abbastanza sorprendente che non ci misuri, fosse anche per coglierne i limiti, con la struttura che già esiste: il “Partito della Sinistra Europea”. Mi sembra che in questo non prendere posizione vi sia un altro limite nell’approccio di Valentini, quello di parlare genericamente di sinistra, senza rilevare alcuna distinzione tra la componente socialdemocratica e quella della cosiddetta “sinistra radicale”. Anche condividendo la suggestione di un campo politico che, analogamente alla Prima Internazionale, faccia confluire orientamenti ideologici diversi, pare del tutto evidente che la socialdemocrazia si configuri in larga parte secondo l’idea del partito “pigliatutto”, interclassista e non più ancorato alla rappresentanza di quel “mondo dei lavori” di cui parla Valentini. E che questa definisca una differenza di fondo e non solo di singole scelte politiche.
E vengo qui all’ultima annotazione critica. Proporre un “Partito del lavoro” significa riproporre un blocco sociale alternativo al capitalismo che abbia nell’identità che si determina nel mondo della produzione il suo carattere fondamentale. Emerge una asimmetria, mi sembra, tra l’idea di un capitale che da un lato non basa più la sua potenza sul mondo della produzione, come ritiene Valentini nella parte analitica, e il suo antagonista sociale, che invece resterebbe ancorato a quella dimensione.
Inoltre non considera adeguatamente che un blocco sociale che si ponga oggi come alternativa al capitalismo non può che formarsi attraverso la confluenza di identità e domande politiche complesse. Nei primi anni ’60 si aprì un dibattito nel campo marxista tra chi identificava il possibile soggetto della trasformazione nella sola classe, costituita all’interno nel rapporto di produzione (la corrente cosiddetta “operaista”, sorta dai Quaderni Rossi) in alternativa alla politica delle alleanze tra la classe operaia e altri soggetti, che era la visione incarnata soprattutto nel PCI togliattiano. Sintetizzando molto se da un lato il “soggetto” era la classe, dall’altro vi era il “popolo”, anche se questo aveva nella classe operaia il suo cuore fondamentale (a differenza delle tesi populiste post-strutturaliste alla Laclau).
Che lo si declini in forma “laburista”, come mi pare faccia Valentini, o in forme “estremiste” come in alcune esperienze derivate da quella visione dei primi anni ‘60, a me pare del tutto evidente che l’esperienza politica attuale, renda più produttiva la seconda opzione. Ma in una visione che non sia più, come ho scritto in altro articolo, tolemaica, ovvero con la classe operaia della grande industria nel ruolo fisso centrale di un insieme di cerchi concentrici. Ma solo un’ampia convergenza di soggetti mossi da approcci e motivazioni diverse e non dal solo collocarsi nel mondo produttivo, può essere la base di uno strumento politico antiliberista di massa. E anche questo è uno dei tanti temi sui quali la discussione dovrebbe e potrebbe continuare ed arricchirsi.
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E’ incredibile pensare a come siano state funeste le conseguenze per la sinistra istituzionale e soprattutto per il mondo del lavoro dell’aver accettato il mondo cosi’ com’è,accontentandosi di illusori rimedi. Anche a questo si devono gli effetti disastrosi della pandemia: quanti ospedali tagliato in questo anni avrebbero potuto usare con maggior tranquillità i numerosi malati, quanto tagli alla ricerca scientifica hanno impedito di meglio approfondire le caratteristiche del virus e come non vedere una correlazione tra le vaccinazioni di massa in usa e GB e le carenze di vaccini nella nostra Europa?
La pandemia l’ha ampiamente dimostrato:
questo mondo va cambiato!