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Il cambiamento climatico visto dalla Cina

di Franco
Ferrari

Al momento di scrivere non è ancora chiaro quale sarà l’esito effettivo della Conferenza di Glasgow, convocata per definire le azioni concrete da implementare in tutti i Paesi per cercare di limitare il cambiamento climatico in corso. E’ ormai evidente che senza radicali mutamenti di politiche la tendenza in corso, così come delineata dalla comunità scientifica, potrebbe avere conseguenze catastrofiche e in buona parte irreversibili per l’umanità.

Le informazioni che circolano sulla stampa non consentono di essere ottimisti. La necessità di ottenere il consenso di tutti i Paesi presenti (quasi 200), una parte dei quali con forti interessi nel campo dei combustibili fossili e con diretti legami economici e politici con le classi dominanti dei paesi economicamente più sviluppati (come l’Arabia Saudita) consente alle relative lobbies un ampio margine di influenza.

La rappresentazione mediatica prevalente cerca di attribuire la colpa dell’eventuale insuccesso soprattutto alla Cina e alla Russia in primis e in misura minore all’India. Il rischio quindi è che si inserisca il tema cruciale dell’azione contro il riscaldamento globale nel contesto di un conflitto tra Usa e Cina che ha per oggetto in realtà il mantenimento della leadership economica e tecnologica degli Stati Uniti nei confronti della ascendente potenza asiatica.

Con qualche differenza tattica tra loro, sia la presidenza di Trump che quella di Biden hanno messo al centro della loro azione mondiale l’individuazione della Cina come un competitore strategico globale, cercando di far allineare l’Unione Europea in questa nuova tendenziale “guerra fredda”. La Cina a sua volta reagisce accentuando una retorica nazionalista che si è rafforzata con la Presidenza di Xi Jinping (forse destinata a prolungarsi oltre i prevedibili 10 anni), una retorica che costituisce un elemento di legittimazione e di costruzione del consenso da parte del Partito Comunista. L’altro aspetto essendo evidentemente il miglioramento della condizione economica complessiva, racchiusa nella prospettiva della “modesta prosperità”, con la quale si cerca di eliminare le situazioni di particolare povertà e di accrescere le dimensioni di un vasto e relativamente affluente ceto medio. E’ in fondo l’implicito “patto sociale” con questa parte della società cinese alla quale si prospetta un concreto progressivo miglioramento delle condizioni di vita, piuttosto che con la tradizionale “classe operaia” ad essere la base del potere in Cina.

La lettura della stampa cinese in lingua inglese di questi giorni (l’ufficiale China Daily e il più ufficioso e aggressivo Global Times) consente di capire come la leadership del paese interpreta la situazione attuale e in particolare la questione del cambiamento climatico.

Innanzitutto va sottolineato che la Cina non ha un atteggiamento negazionista di fronte alle preoccupazioni degli scienziati per il previsto incremento della temperatura media sul pianeta nei prossimi decenni, a differenza di quanto avvenuto negli Stati Uniti durante la Presidenza Trump. Una posizione che è ancora fortemente presente negli Stati a guida repubblicana, alcuni dei quali (come il Texas) strettamente legati ad un’economia basata sul fossile.

La posizione cinese, espressa nel messaggio video di Xi Jinping al G20 di Roma, viene così sintetizzata da Seymur Mammadov, sul China Daily del 3 novembre scorso: “Il leader cinese ha sottolineato che i paesi sviluppati devono tenere pienamente conto delle difficoltà speciali e delle preoccupazioni dei paesi in via di sviluppo, adempiendo ai loro impegni di finanziare la lotta contro il cambiamento climatico e di provvedere i paesi in via di sviluppo con tecnologie che sviluppino le loro capacità e altri sostegni”.

Xi Jinping ha anche evidenziato la necessità di accrescere le responsabilità dei singoli paesi per la violazione degli obblighi assunti sulla base degli Accordi di Parigi. Per quanto riguarda la Cina stessa, ed è quanto in sostanza indica come criterio anche per gli altri paesi soprattutto quelli economicamente meno sviluppati, gli impegni che assume sono “proporzionati” alle sue capacità e agli interessi nazionali. Gli obbiettivi sono “ambiziosi e realistici”. La Cina si propone di raggiungere il picco delle emissioni di CO2 entro il 2030 e di arrivare alla “neutralità” delle emissioni di carbone entro il 2060. Intervenendo al G20 il leader cinese ha sottolineato la volontà di collaborare con tutti i paesi lungo la strada di “uno sviluppo sostenibile, verde e con basso utilizzo di carbone”.

Il China Daily ricorda che la Cina è il maggiore produttore e consumatore di energia nel mondo e che i combustibili fossili coprono attualmente l’85% del fabbisogno. Viene considerato irrealistico abbandonare in poco tempo le fonti tradizionali di energia perché questo avrebbe un forte impatto economico negativo per molti paesi.

Nel rivendicare le proprie politiche di riduzione delle emissioni (a fine ottobre l’Ufficio Informazioni del Consiglio di Stato ha pubblicato un libro bianco intitolato “Rispondere al cambiamento climatico: politiche e azioni della Cina”) non mancano i toni polemici che cercano di rispondere alla propaganda dell’Amministrazione Biden. Yang Pingjian, sul China Daily del 9 novembre, commenta criticamente le dichiarazioni di Joe Biden a Glasgow sulla volontà degli Stati Uniti di riconquistare la leadership nella lotta al cambiamento climatico.

Il giornalista cinese richiama gli Stati Uniti alle loro responsabilità storiche. Se la CO2 rimane nell’atmosfera per 100-150 anni, significa che la principale responsabilità per l’attuale effetto serra resta in carico ai paesi occidentali economicamente avanzati ed in particolare agli Stati Uniti. Se si calcola che dalla Rivoluzione Industriale siano stati scaricati nell’atmosfera 1,5 trilioni di tonnellate di CO2, 400 milioni sono da attribuire a loro. Anche in termini di emissioni pro-capite, dal 1850 ad oggi, la quota degli Stati Uniti è almeno otto volte quella della Cina e decine di volte quella dell’India. La Cina, secondo l’editorialista del quotidiano di Pechino, chiede agli Stati Uniti: 1) di riconoscere le loro responsabilità storiche e compensare i paesi in via di sviluppo; 2) di abbandonare l’unilateralismo e smettere di porre i propri interessi al di sopra di quelli del resto del mondo; 3) di assumere iniziative concrete per mitigare gli effetti del cambiamento climatico perché sono il maggiore emettitore di gas serra ed anche il paese più avanzato del mondo in termini economici e tecnologici (e ricorda che non hanno finora mantenuto gli impegni assunti); 4) di riconoscere che, essendo i vari paesi in diversi stadi di sviluppo, gli obbiettivi di riduzione delle emissioni devono essere differenziati.

Dalla stampa cinese, ed in particolare ancora dal China Daily, in un articolo firmato da Hou Liqiang del 9 novembre, è stata avanzata una posizione critica sulla recente proposta dell’Unione Europea di tassare i beni importati da paesi con regolamentazioni meno stringenti per la limitazione dei gas serra. Citando in proposito il parere di vari esperti, il quotidiano ufficiale di Pechino ripropone l’argomentazione “storicistica”. I paesi che passano da una fase di industrializzazione ad una post-industriale possono ridurre più facilmente le emissioni di CO2. “Il livello di emissioni di un paese diminuiscono gradualmente quando entra in un periodo di post-industrializzazione, ma economie in fase di sviluppo come la Cina che si stanno ancora industrializzando stanno ancora facendo emissioni di sopravvivenza’, dichiara (Zhang Zhiqiang, ricercatore del Centro Nazionale sul Cambiamento Climatico e della Cooperazione Internazionale), comparando la situazione all’appetito delle persone alle diverse età”. I giovani sono molto più attivi e mangiano di più, mentre negli anziani cala il livello di attività e anche il metabolismo rallenta.

Più significativo un altro elemento richiamato dal ricercatore cinese quando ricorda che molti paesi sviluppati hanno trasferito le produzioni ad alte emissioni di carbone nei paesi in via di sviluppo. Se il calcolo fosse fatto tenendo conto del consumo di prodotti inquinanti fabbricati al di fuori dell’UE molti paesi ricchi farebbero registrare livelli di emissioni ben più alti. Un altro esperto cinese rileva che iniziative come quella ipotizzata dall’UE sono unilaterali, mentre per fronteggiare il cambiamento climatico è necessaria la più ampia collaborazione.

Nella posizione cinese, così come emerge da dichiarazioni ufficiali e commenti di stampa, si possono evidenziare questi elementi: 1) il cambiamento climatico è un problema reale è va affrontato con gli strumenti messi a disposizione dalla scienza; 2) non c’è una connessione tra “capitalismo” (termine che non viene mai utilizzato) e crisi ambientale, ma piuttosto tra livelli di sviluppo (industriale-postindustriale) e ambiente; 3) la questione va affrontata all’interno di una logica che prevede il multilateralismo (quale strumento di governo condiviso del mondo) e di difesa della globalizzazione economica.

Si cerca anche di contrapporre un approccio considerato concreto e realistico, basato sulla difesa di impegni che si ritiene di poter realmente raggiungere, piuttosto che su dichiarazioni di intenti declamatorie e fondamentalmente propagandistiche. Nei giorni scorsi, in coincidenza con la COP26, la Banca centrale cinese ha aperto nuove linee di credito per quelle imprese private che realizzino interventi concretamente finalizzati a ridurre le emissioni di gas serra. Come a dire che se a Glasgow si chiacchiera in Cina si fa sul serio.

Un ultimo elemento, non apertamente dichiarato della politica cinese ma che si può intravedere in sottofondo, è il rifiuto di separare le questioni ambientali (e altri temi di interesse comune a livello sovranazionale), dal confronto geopolitico e dalla competizione tecnologica. Confronto quest’ultimo che ha visto la Cina confermare il primato, acquisito da qualche anno, nel numero di brevetti depositati all’ente internazionale che ne registra la validità. Iniziative militari considerate aggressive, come l’accordo Aukus (Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia) o le azioni provocatorie su Taiwan, sono considerate un ostacolo anche per altre forme di collaborazione. Così come uno scontro sul terreno delle tecnologie potrebbe rendere più difficile lo sviluppo di soluzioni necessarie ad affrontare il cambiamento climatico.

 

Franco Ferrari

 

 

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