Non si tratta di una semplice gaffe, la frase dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di sicurezza, l’estone Kaja Kallas, pronunciata martedì 17 giugno nel corso del dibattito al Parlamento Europeo sul vertice NATO del 24-26 giugno. Stava rispondendo all’eurodeputata irlandese dello Sinn Féin Kathleen Funchion, che poco prima aveva criticato la «militarizzazione strisciante» dell’UE, ricordando che quest’ultima era nata come progetto di pace, e soprattutto aveva rivendicato il diritto del suo paese a perseguire la tradizionale politica di neutralità e di sostegno alle azioni di peacekeeping delle Nazioni Unite (certamente, sarebbe pure auspicabile che la scelta della neutralità non fosse presentata quasi come un opt-out, bensì che la si concepisse come un elemento di convergenza per tutti gli europei, indipendentemente dalla nazionalità, che non vogliono una UE ridotta a un’appendice della NATO o identificata con la NATO, ma questo è un altro discorso).
Cosa risponde allora Kallas? Testuale: «E vorrei anche rivolgermi ai nostri colleghi irlandesi. Sì, la pace non significa che la sofferenza umana cesserà. Se ti arrendi e dici all’aggressore “Ok, prenditi tutto quello vuoi”, non significa che la sofferenza umana cesserà. Prendete la nostra esperienza dietro la Cortina di ferro dopo la Seconda guerra mondiale, i paesi come l’Irlanda hanno potuto costruire la loro prosperità. Ma per noi ha significato atrocità, deportazioni di massa, soppressione della lingua e della cultura. Questo è ciò che succede. È anche pace, ma non è in realtà libertà. Non è libertà di scelta per le persone, ed è questo il senso dell’Unione Europea, ed è questo anche ciò per cui stiamo lottando».
No, vabbè. Di primo acchito è sconcertante questa ignoranza su fatti elementari della storia di un paese membro della UE. Naturalmente Funchion ha avuto gioco facile a ricordare a Kallas la condizione degli irlandesi cattolici nell’Irlanda del Nord giustappunto nel secondo dopoguerra e le lotte attuali per la parità di status del gaelico. Ma, come si diceva, non si tratta solo di una gaffe o di una manifestazione di “semplice” ignoranza. In un discorso intessuto di slogan roboanti sulla necessità di contrapporsi antagonisticamente al nemico russo, irrazionale per definizione («vediamo molto chiaramente in questo momento con i colloqui per il cessate il fuoco che la Russia non vuole la pace. E ci vogliono almeno due per fare la pace, ma ne basta uno per volere la guerra. Ed è per questo che c’è bisogno di prepararsi»; «Qualcuno ha detto qui che la Russia non ha motivo di attaccare la NATO. Beh, la Russia non aveva alcun motivo per attaccare l’Ucraina, né la Siria, né la Georgia, la lista è lunga. Non agiscono razionalmente. Noi siamo democrazie, guardiamo attraverso il prisma della democrazia e vediamo che non è razionale. Ma loro no. Non è razionale attaccare la NATO, ma non possiamo sapere loro cosa pensano. Quindi dobbiamo prepararci e imparare dai nostri errori passati»), la stessa tragica esperienza dell’occupazione sovietica è resa puro strumento di propaganda e racchiusa in un eterno piccolo presente, che le nega complessità e profondità storica, e la separa da altre esperienze di altri popoli. Oltre la cortina di ferro, il buio. Cosa importa sapere della storia d’Irlanda, o di qualsiasi altro paese, cosa importa conoscere le modalità con cui altri hanno affrontato conflitti etnonazionali difficili, se non serve a “prepararsi” contro il nemico? Che valore ha considerare la storia d’Europa, con le sue continue guerre e aspirazioni alla pace? Si rischierebbe di notare che la liberazione dei paesi baltici, e invero di tutta l’Europa centro-orientale, fu principalmente dovuta a un processo di cui fu protagonista il sovietico Mikhail Gorbaciov, ultimo atto di un percorso avviatosi con la Conferenza di Helsinki cinquant’anni fa. Non fu certo dovuta alle armi.
Francesca Lacaita
