di Franco Ferrari
A poche ore dalla fine dello scrutinio, Pedro Sanchez, primo ministro uscente e leader del PSOE, e Pablo Iglesias, leader della coalizione Unidas Podemos, hanno annunciato la firma di un preaccordo in vista della formazione di un governo di coalizione. I socialisti, che hanno fallito l’azzardo costituito dalla convocazione di nuove elezioni a distanza di pochi mesi dalle precedenti, hanno dovuto far cadere il veto all’ingresso di esponenti della sinistra, e in particolare dello stesso Iglesias, nell’esecutivo spagnolo.
L’unica strada alternativa rimasta a Sanchez era una “grande coalizione” con la destra dei Popolari, ma è una strada che avrebbe presentato grossi rischi per il suo partito, come dimostra la crisi drammatica in cui si sono cacciati i socialdemocratici tedeschi dopo aver rifiutato un governo di sinistra con la Linke e i Verdi, quando questo era possibile, per scegliere l’abbraccio mortale con la CDU. Tanto più che i Popolari spagnoli affondano le proprie radici direttamente nel franchismo.
L’accordo è un fatto importante ed inedito ma l’esito positivo non è per nulla scontato. Una coalizione basata su PSOE e UP non ha la maggioranza assoluta nelle Cortes e può sperare nel successo alla seconda votazione quando sarà sufficiente la maggioranza relativa. Per ottenere questo risultato occorrerà quanto meno l’astensione dell’ERC, primo partito in Catalogna, il cui leader Oriol Junqueras è attualmente in prigione (ma essendo europarlamentare potrebbe vedere riconosciuta la sua immunità ed essere liberato). I catalani punteranno ad alzare il prezzo politico di un loro eventuale atteggiamento non ostile (di “non sfiducia” si sarebbe detto nel sempre fantasioso linguaggio politico italiano), ma se fossero loro a far cadere la possibilità di un governo progressista, in presenza di una forte crescita dell’estrema destra ultra-nazionalista, potrebbero risultare irresponsabili anche agli occhi del loro elettorato indipendentista.
L’accordo di coalizione, anche di prima di verificarne l’esito istituzionale, rappresenta un fatto sicuramente inedito nei rapporti tra la sinistra radicale e la socialdemocrazia in Spagna. E’ il complicato percorso di questi rapporti che vorrei provare a ripercorrere sinteticamente in questo articolo.
La triste “sorpresa” comunista dopo la fine del franchismo
Il passaggio dal franchismo alla democrazia parlamentare non è stato frutto di una rottura netta col passato bensì di una transizione piena di ambiguità e di compromessi. Si parla infatti ancora, a sinistra, di un “regime del ’78” (l’anno di approvazione della Costituzione) per intendere l’esistenza di una democrazia condizionata che, tra l’altro, ha negato la natura plurinazionale dello Stato spagnolo.
I comunisti erano stati l’unico partito ad essere riuisciti a ricostruire la propria presenza nel paese e a svolgere un ruolo di primo piano nella lotta al franchismo e pensavano che questo fatto incontestabile venisse riconosciuto dall’elettorato, come era avvenuto in Francia e in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con questa aspettativa guardavano ai socialisti, che erano rimasti sostanzialmente un partito di esiliati, con una certa superiorità. Quando il PSOE celebrò i suoi cento anni dalla fondazione, circolava la battuta: “cento anni di storia, quaranta anni di vacanze”, quelli passati dalla vittoria di Francisco Franco alla caduta del regime.
I risultati elettorali nel 1977 e poi nel 1979 non furono affatto all’altezza delle aspettative per assestarsi attorno al 10%, ben dietro ai socialisti. La politica del leader comunista Santiago Carrillo, in quegli anni, fu di estrema prudenza e di grande moderazione. Il timore era di mettere in pericolo il delicato equilibrio del passaggio alla democrazia e contemporaneamente sperava di acquisire quei titoli di partito responsabile ed equilibrato che facessero cadere l’inossidabile e anacronistico anticomunismo di una parte consistente dell’establishment (in particolare quello militare).
La transizione comportò una serie di compromessi istituzionali, politici ed anche sociali (col Patto della Moncloa, che stabilì la moderazione delle rivendicazioni sindacali in cambio di modeste concessioni) i cui aspetti negativi alla fine furono imputati soprattutto al Partito Comunista. La direzione del PCE ed in particolare Carrillo se, da un lato, radicalizzava la critica verso l’Unione Sovietica e lo stalinismo, dall’altra sul piano interno perseguiva una linea molto timida. Il risultato fu che i socialisti, con molta spregiudicatezza e abilità propagandistica, poterono presentarsi come portatori di una rottura più radicale del quadro politico e sociale, soprattutto senza portarsi dietro i ricordi e i timori della guerra civile. Il PSOE conquistò la maggioranza assoluta e arrivò al governo da solo sotto la guida di Felipe Gonzales.
Il Partito Comunista invece si ritrovò con un consenso elettorale ridotto ad un 4%, una profonda crisi di strategia e di identità e con l’apertura di una fase di conflitti interni che seguivano molteplici linee di frattura. In quel momento sembrava che il quadro politico spagnolo si orientasse verso il bipolarismo e che la parte sinistra del sistema fosse totalmente occupata dal PSOE.
Nasce Izquierda Unida che ridà fiato alla sinistra radicale
Nel 1986 il Partito Comunista ed altri gruppi di sinistra danno vita ad Izquierda Unida. L’occasione politica è offerta dal referendum sulla presenza della Spagna nella NATO. I socialisti si erano dichiarati per l’uscita ma dopo essere arrivati al governo cambiarono opinione. In generale la loro azione fu molto più moderata e favorevole all’establishment economico di quanto lasciassero intendere le loro promesse elettorali. Per i comunisti si intravedeva la possibilità di recuperare un ruolo nella società e uno spazio di rappresentanza politica attraverso la confluenza con altre correnti politiche ed ideali.
Le prime elezioni nelle quali si presenta Izquierda Unida consentono solo una limitata inversione di tendenza rispetto ai risultati del PCE ma quanto meno mettono un argine ad una crisi che sembrava senza via d’uscita. IU si propone come movimento politico-sociale in grado di intercettare il crescente malcontento per le politiche sociali di tipo liberiste condotte dal governo socialista di Gonzales. Le due maggiori organizzazioni sindacali (CC.OO e UGT) proclamano diversi scioperi generali contro queste politiche e IU riesce, in una certa misura, a farvi da sponda.
Carrillo torna alla “casa comune” che poi tanto comune non era
Una parte del comunismo spagnolo non aderisce a Izquierda Unida. Si tratta del Partito del Lavoro (PTE-UC) che Carrillo ha fondato dopo essere entrato in rotta di collisionecon la nuova direzione comunista di Gerardo Iglesias. Si presenta alle elezioni con liste alternative a quelle di Izquierda Unida ma il suo spazio politico si restringe rapidamente, anche se mantiene un certo seguito all’interno dell’apparato delle Comisiones Obreras. Carrillo contrappone a Izquierda Unida la difesa dell’identità comunista, ma dopo la caduta del muro di Berlino compirà un rapida giravolta. Dichiarerà la fine dell’esperienza storica del comunismo e la necessità di confluire nel PSOE, quale casa comune della sinistra, da cui era uscito più di cinquanta anni prima. Il suo piccolo partito seguirà questo percorso, anche se non tutti i militanti accetteranno di entrare in un PSOE che nel frattempo è scosso dagli scandali dovuti alla corruzione e alla vicenda del GAL, le squadre antiterrorismo segretamente utilizzate dal governo per assassinare militanti dell’ETA.
Izquierda Unida, al contrario di Carrillo, rivendica l’esistenza di uno spazio a sinistra del PSOE, nei cui confronti accentua i toni polemici. Alla guida sia del PCE che di IU arriva Julio Anguita, ex sindaco di Cordoba e dotato di indubbio carisma. Il consenso per IU cresce e in essa confluiscono anche gruppi di dissidenti socialisti.
Anguita si deve scontrare contro una minoranza interna che propone lo scioglimento del PCE e la trasformazione di IU in partito politico. Una richiesta alla quale Anguita si oppone, pur essendo stato inizialmente vicino all’ala cosiddetta “rinnovatrice”, perché la ritiene in ogni caso prematura e foriera di lacerazioni e dispute che possono avere solo effetti negativi per la coalizione.
La linea della maggioranza di IU, interpretata da Anguita, è di dura polemica nei confronti dei socialisti. Viene lanciata la formula delle “due rive del fiume”, da un lato stanno PSOE e PP dall’altro IU, che si propone di interpretare interessi sociali del tutto alternativi a quelli dell’élite dominante. Fra PSOE e IU i rapporti si fanno molto tesi e lasciano poco spazio a prospettive unitarie. D’altra parte i socialisti guardano con ostilità ad una forza che riesce a conquistarsi uno spazio importante e a mettere in discussione la loro aspirazione a monopolizzare, almeno elettoralmente, la sinistra.
Con Anguita arrivano gli anni della speranza del “sorpasso”
Izquierda Unida raggiunge risultati superiori al 10% nella prima metà degli anni ’90 e diventa anche punto di riferimento nella costituzione di alcune strutture transnazionali della sinistra radicale come il Forum della Nuova Sinistra Europea e il Gruppo della Sinistra Unitaria Europea all’Europarlamento. Sono gli anni in cui si parla del “sorpasso”, riprendendo il vocabolo italiano, perché IU intravede (con qualche eccessivo ottimismo) la possibilità di scavalcare i socialisti e di diventare il primo partito della sinistra.
La seconda metà degli anni ’90 si avvia con una doppia crisi parallela, dei socialisti logorati dall’esperienza di governo e della stessa Izquierda Unida. Molte energie sono dedicate al conflitto interno che vede formarsi nel 1992 una corrente di minoranza che assume la denominazione di “Nueva Izquierda”. Questa componente, che raccoglie gran parte di coloro che si erano battuti per lo scioglimento del PCE, è favorevole al trattato di Maastricht e alla ricerca dell’alleanza con il PSOE. La corrente diventerà poi un vero e proprio partito, il Partito Democratico della Nuova Sinistra, che trova ispirazione nel percorso dei post-comunisti italiani.
Lo scontro tra il PDNI e la maggioranza di Izquierda Unida si fa sempre più duro e porta alla fuoriuscita del partito dalla coalizione. Il tentativo di conquistarsi uno spazio tra socialisti e sinistra radicale però non ha successo. Tranne qualche isolata elezione locale, il PDNI non si presenta mai al giudizio degli elettori, ma vi partecipa in alleanza con il PSOE. Un’alleanza del tutto subalterna data l’evidente sproporzione delle forze. La parabola del Partito finisce rapidamente e nel 2001 viene decisa la confluenza nel PSOE, senza che si riscontrino influenze di un qualche significato sulla politica dei socialisti.
L’accordo del 2000 tra IU e PSOE non viene premiato dagli elettori
Nel 2000 si vota con la destra al governo che sembra in condizioni di confermare il proprio vantaggio. Izquierda Unida è stata oggetto di polemiche infinite sulla cosiddetta pinza, ovvero l’esistenza di accordi sotto banco con la destra, in alcune regioni, in funzione anti-socialista. La realtà di questi accordi viene negata ma la sinistra – si ragiona in IU– non può considerare automatica alleanza col PSOE ma deve basarla su un’effettiva concordanza di politiche. Quelle del PSOE ,si accusa da sinistra, sono effettivamente molto moderate e subalterne alla egemonia liberista. La polemica comunque pesa e costringe IU a correggere il tiro. Nelle elezioni politiche del 2000, Francisco Frutos subentrato ad Anguita, ritiratosi per ragioni di salute, alla guida del PCE e di IU sottoscrive un accordo pre-elettorale con il PSOE finalizzato alla costruzione di un governo comune delle sinistre.
Questa intesa non dà però esito elettorale positivo a conferma che non basta invocare l’unità per spostare settori di elettorato tradizionalmente di sinistra ma ora disillusi. La destra mantiene la maggioranza e Izquierda Unida esce fortemente ridimensionata dal voto.
La coalizione resta attraversata da molte divisioni non sempre facili da ricomporre, benché i primi anni del nuovo millennio offrano l’occasione positiva di misurarsi con il movimento che critica la globalizzazione capitalistica.
La linea “accomodante” di Gaspar Llamazares
Alla guida di IU subentra Gaspar Llamazares che si muove lungo due direttrici. Sul piano ideologico accentua il profilo ecosocialista e più verde che rosso, post-materialista, che per una parte importante di IU, soprattutto quella ancora organizzata nel PCE, da cui pure Llamazares proviene, viene considerata un abbandono di una visione classicamente marxista e anticapitalista.
Quando il PSOE torna al governo con Zapatero, IU offre il suo appoggio La sua rappresentanza parlamentare è assai inferiore al suo peso elettorale per effetto del sistema di ripartizione dei seggi che applica il criterio proporzionale all’interno dei singoli collegi, senza recupero nazionale dei resti, e quindi favorisce i partiti maggiori e o con un insediamento territoriale molto concentrato, come i vari gruppi nazionalisti. E questa è la seconda direttrice che caratterizza la leadership di Llamazares.
La politica di Zapatero è avanzata su alcuni temi attinenti i diritti civili, ma lo è assai meno sulle questioni economico-sociali, proseguendo in questo la linea centrista di Felipe Gonzales. Il sostegno offerto da IU non paga elettoralmente, al punto che la coalizione vede la sua presenza alle Cortes ridotta ad un solo deputato, lo stesso Llamazares, che convive nello stesso gruppo con l’eletto catalano di ICV, partito autonomo che si muove in questa fase dentro lo stesso orizzonte politico della maggioranza di IU.
Un altro effetto della linea di sostegno al PSOE, accusata all’interno di subalternità, porta all’allontanamento da IU di alcune delle correnti più radicali. Quella più consistente, guidata da Angeles Maestro, dà vita a Corriente Roja che dopo una disputa interna con la componente trotskista finisce nell’irrilevanza. L’altro gruppo, anch’esso di tradizione trotskista ma legato ad una diversa corrente internazionale, è quello guidato da Jaime Pastor, che decide nel 2008 di dar vita ad un proprio soggetto politico Izquierda Anticapitalista, ispirata all’NPA francese di Olivier Besancenot. I risultati elettorali ottenuti da IA sono del tutto marginali, ma l’organizzazione partecipa poi alla nascita di Podemos, a cui fornisce in una prima fase un minimo di struttura militante organizzata.
La sua influenza è forte soprattutto in Andalusia, dove in vista delle elezioni politiche del 10 novembre aveva discusso della possibilità di trasformare la locale coalizione di sinistra Adelante Andalucia in partito separato da Unidas Podemos, finalizzato alla costruzione di un proprio gruppo parlamentare. Questa componente, che attualmente anima Anticapitalistas all’interno di Podemos, resta ostile ad accordi di governo col PSOE, proponendo invece una forma di sostegno esterno contrattato su alcuni punti, mantenendosi poi le mani libere su tutto il resto.
Arriva la crisi economica e IU riprende forza e una maggiore autonomia
La crisi elettorale di IU si sovrappone alla crisi economica del 2008 e all’emergere di nuovi movimenti di contestazione sociale che verranno poi definiti degli Indignados. L’effetto sulla coalizione è la sconfitta della componente che sostiene Llamazares e lo spostamento degli equilibri verso sinistra, con la nuova leadership di Cayo Lara che cerca di rimettersi in sintonia con il malumore sociale. La contestazione dal basso si rivolge tanto ai socialisti che gestiscono il passaggio alle politiche di austerità che contro la destra.
Izquierda Unida riesce a recuperare consenso elettorale ed è presente nel movimento anche se questo assume spesso un orientamento ostile a tutte le forze politiche, anche quelle come IU, che pure è stata sempre all’opposizione delle politiche liberiste. La polemica nei confronti del PSOE diventa più dura ed è ampiamente condivisa nell’elettorato di sinistra.
Con le elezioni europee del 2004, nelle quali IU si aspetta un ulteriore espansione elettorale, dato che i sondaggi la danno oltre il 10% ed il clima è decisamente più favorevole ad una ricezione positiva delle sue parole d’ordine, la situazione cambia inaspettatamente.
Per Podemos il PSOE fa parte della “casta”
Si ha infatti l’avvio dell’iniziativa da cui nasce Podemos. Il nuovo soggetto politico nasce dalla confluenza tra un gruppo di intellettuali e una struttura militante in cui prevale all’inizio la presenza di Izquierda Anticapitalista, ma trova subito un’eco molto più ampia. Per i promotori di Podemos, Izquierda Unida è troppo ancorata a schemi organizzativi e politici che si sono dimostrati inefficaci ad intercettare la protesta partita dal basso.
Il partito (o partito-movimento secondo alcuni analisti) guidato da Pablo Iglesias rielabora la prospettiva del “populismo di sinistra” nel quale confluiscono non solo le elaborazioni teoriche di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, ma le esperienze della sinistra latinoamericana insieme a quelle del movimento altermondialista. Dal punto di vista dei rapporti col PSOE, Podemos non è certamente più morbido di Izquierda Unida, al contrario. La polemica è molto dura ma inserita in un contesto argomentativo che non è quello classico della sinistra radicale nei confronti del moderatismo socialdemocratico, bensì in quello della frattura popolo/casta.
I socialisti vengono considerati integralmente parte di un establishment politico ed economico che ha difeso i propri interessi, abbandonando a se stessi i ceti popolari colpiti duramente dalle conseguenze della crisi economica. PSOE e PP vengono attaccati come parte di un unico sistema di potere. Dopo le euroepee, Podemos ha goduto di una improvvisa esplosione di consensi, al punto che i sondaggi lo hanno collocato per diversi mesi come primo partito del Paese, mentre andavano crollando quelli dei socialisti.
La prospettiva iniziale di Podemos era quella da un lato di rifiutare la “macedonia delle sigle”, ovvero l’unità dei vari gruppi della sinistra, dall’altro di respingere una strategia di tipo frontista, per conquistare un nuova centralità politica, in grado di dialogare con i ceti popolari a prescindere dalla loro precedente collocazione elettorale. Si torna a parlare come a metà degli anni ’90 di un possibile “sorpasso” a sinistra e stavolta effettivamente l’ipotesi diventa più realistica perché la crisi economica sconvolge i tradizionali allineamenti elettorali.
Dopo quattro elezioni si apre la strada dell’accordo a sinistra
All’inizio del ciclo delle quattro prove elettorali spagnole, terminate con quella del 10 novembre, Podemos si presenta separatamente da Izquierda Unida e supera il 20% collocandosi non molto dietro ai socialisti. Da parte sua Izquierda Unida si ritrova messa all’angolo, con un pessimo risultato elettorale, ma continua a mantenere una presenza organizzata e istituzionale non disprezzabile. Nelle seconde elezioni, Podemos corregge e il tiro e anche dentro Izquierda Unida, nella quale i critici acerrimi del populismo di Iglesias non mancano, con l’ascesa di Alberto Garzon alla guida, prevalgono i favorevoli all’alleanza.
Si forma così Unidos Podemos, che riesce a raccogliere anche altre realtà locali, a partire dalla Catalogna dove primeggia la sindaca di Barcellona, Ada Colau, alleata ma non sempre in piena sintonia con la direzione di Iglesias. La confluenza è politicamente positiva, ma elettoralmente non funziona pienamente. Una parte degli elettori tradizionali di Izquierda Unida non si trovano a loro agio con lo stile mediatico di Iglesias. E una parte di elettori di Podemos affascinati da un discorso che inizialmente sembrava sfuggire alla classificazione destra/sinistra non si riconoscono in un’alleanza che si trova inequivocabilmente collocata sul lato sinistro dello spettro politico.
Per quanto riguarda i rapporti col PSOE, Unidos Podemos si caratterizza, al di là di qualche eccesso polemico di Iglesias, per i quali lo stesso farà poi autocritica, per la convinzione che per ottenere un cambiamento di politico occorre modificare nettamente i rapporti di forza con i socialisti, altrimenti la strada sarà inevitabilmente segnata dalla subalternità e dal consecutivo fallimento.
Per lo stesso motivo i socialisti sono inizialmente indisponibili all’accordo al punto che in Parlamento danno il via libera ad un governo di minoranza dei Popolari. Contro questa scelta si schiera Pedro Sanchez che in questo modo riuscirà a conquistare la leadership del partito contro l’alleanza dei baroni locali (prima di tutto l’andalusa Susana Diaz) con i “padri nobili” del partito, Gonzales, ma anche Zapatero.
Lo spostamento a sinistra punta a recuperare consensi nell’elettorato di Podemos e a riconquistare centralità politica in una logica bipolare. L’operazione riesce in parte nelle elezioni dell’aprile 2019, nelle quali il PSOE recupera diversi punti percentuali a spese di Unidos Podemos (che poi in risposta al forte movimento femminista che cresce nel paese diventa Unidas Podemos). Dopo aprile si apre la trattativa tra PSOE e sinistra. Ma Sanchez, che si dimostra più manovriero e meno abile di quanto era sembrato, traccheggia e alza continuamente l’asticella della trattativa. Prima mette il veto sull’ingresso di Iglesias, poi si dimostra impermeabile alla ragionevole richiesta di formare un governo di coalizione. Vorrebbe da Unidas Podemos un appoggio senza partecipazione diretta, una soluzione che ha funzionato fino ad un certo punto in Portogallo, dove i socialisti recuperati voti grazie ad una pur limitata svolta a sinistra e in grado di reggere da soli il governo hanno dichiarato chiusa l’esperienza.
Anche all’interno del campo della sinistra vi sono state spinte favorevoli a trovare comunque un accordo anche a costo di rinunciare alla presenza nel governo. In tal senso sembra essersi orientata Ada Colau. Ma è ragionevole pensare che la speranza dei socialisti di attivare la dinamica del cosiddetto voto utile sia verso gli elettori di Podemos sia verso la parte più liberale dei sostenitori di Ciudadanos e quindi di puntare su nuove elezioni, avrebbe reso inutile eliminare i paletti posti dalla sinistra.
Il mancato accordo e la decisione di Iglesias di collocare senza ambiguità argomentative il partito a sinistra ha aperto una crisi con il numero due di Podemos Inigo Errejon, legato alla teorizzazione di un populismo che si sottrae alla frattura destra/sinistra. Ma Errejon, che ha dato vita ad un nuovo partito Mas Pais, dopo aver partecipato alla rottura madrilena tra la sindaca Manuela Carmena e una parte della sinistra, con esiti per altro negativi, puntava anche ad offrire una maggiore disponibilità all’alleanza col PSOE.
La delusione di Mais Pais che si avvicina troppo al PSOE
Il risultato di Mas Pais è stato molto deludente collocandosi appena sopra il 2%. I 3 seggi ottenuti si riducono di fatto a 2, dato che il terzo appartiene al partito valenziano Compromis, che era già entrato in Parlamento come alleato di Podemos. A parte Madrid, dove il partito di Errejon, sostenuto da Manuela Carmena ottiene un apprezzabile 5% e si guadagna gli unici due eletti, Mas Pais resta del tutto marginale. Viene però accusato con qualche fondamento di avere solo disperso voti che, rimasti a Podemos avrebbero consentito ad un governo progressista di partire con una maggioranza più solida.
I sondaggi sembravano garantire al partito di Errejon un consenso più ampio e un bottino di eletti più significativo (alcuni ne prevedevano fino a 15), ma sembrava che parte di questo risultato fosse dovuto non allo spostamento di elettori di Podemos bensì a sostenitori del PSOE delusi per la rigidità del loro partito nella trattativa per il governo. Sembra probabile che siano proprio questi alla fine ad avere scelto di puntare su un cavallo più sicuro, ovvero Pedro Sanchez, e di abbandonare Mas Pais.
Conclusioni: tra alleanza subalterna e chiusura settaria la strada è sempre tortuosa
Il risultato elettorale complessivo benché, o proprio perché meno positivo di quello di aprile, ma soprattutto condizionato dal raddoppio di Vox, ha portato a chiudere rapidamente l’accordo tra Sanchez e Iglesias, consapevoli che non sarebbe stato compreso un ulteriore lungo periodo di trattative, con tutti i pericoli di sfilacciamento conseguenti e con il fiato sul collo ai socialisti da parte delle organizzazioni padronali che vedono l’ingresso di Unidas Podemos al governo come il fumo negli occhi.
Per la sinistra partecipare al governo col PSOE presenta ovviamente delle opportunità e dei rischi come si è potuto verificare in tutte le esperienze di collaborazione governativa tra partiti della sinistra radicale e partiti di centro-sinistra. Il suo esito, se effettivamente il governo potrà insediarsi, dovrà essere valutato con due parametri: la capacità di introdurre cambiamenti nel paradigma socio-economico liberista e nella tenuta del consenso elettorale di Unidas Podemos.
Si è visto dalla ricostruzione storica che si è cercato di delineare che il dilemma della sinistra oscilla sempre fra i due poli estremi della alleanza a tutti i costi, con il rischio evidente di risultare subalterni, e quello della chiusura a qualsiasi tipo di collaborazione che presenta l’altro estremo di essere considerati alla fine irrilevanti nel dare soluzione ai problemi quotidiani delle persone. Le tendenze politiche che non hanno definito una identità chiaramente indipendente dai socialisti si sono tarpate le ali nell’esperienza come dimostrano le vicende di Carrillo, del PDNI, in parte anche di Llamazares e di Errejon. Le posizioni di contrasto radicale sulla base dell’equiparazione tra centro-sinistra e centro-destra hanno fatto crescere il consenso nei momenti di crisi acuta di credibilità della socialdemocrazia, ma non hanno retto facilmente al mutamento di fase politica (come dimostrano i successi iniziali di IU con Anguita e anche la prima fase di Podemos). La strategia politica corretta non si può trovare nei manuali ma richiede abilità, capacità di innovazione quando necessario mantenendo sempre credibilità nella difesa dei principi di fondo.