editoriali

Guerra chiama guerra

di Stefano
Galieni

L’intervento di ieri alla Camera dei deputati, presenti anche senatrici e senatori, del premier ucraino Volodymyr Zelensky, in videoconferenza, va analizzato sotto diversi e contraddittori aspetti. Nonostante la grande attesa, l’immenso battage pubblicitario raramente riservato a chi oggi rappresenta un Paese sottoposto ad una feroce invasione e ad una devastazione che lascerà cicatrici profonde, sono stati almeno 350 i rappresentanti delle istituzioni, sui 945 aventi diritto, a risultare assenti. Impegni presi precedentemente; imbarazzo o dissenso, disinteresse. Alla fine dell’intervento, inevitabile la standing ovation per quello che viene presentato anche dai tanti camerati, fino a pochi giorni fa fedeli di Putin, come un difensore dei valori occidentali. L’intervento di Zelensky è apparso diverso dai precedenti effettuati in altri Parlamenti europei. Certo ci sono state le richieste d’aiuto, l’accorato appello per il destino di una città come Mariupol che ha paragonato a Genova, per le dimensioni, il suo affacciarsi sul mare e per toccare le sensibilità italiane. Ma a differenza che in passato, non ha reiterato la richiesta della No fly zone, non ha premuto l’acceleratore sulla necessità di un intervento militare esterno per fermare i russi, non è sembrato intenzionato voler continuare a puntare sull’estensione del conflitto per rafforzare la resistenza. Ha chiesto invece con forza l’aumento delle sanzioni contro Mosca, come unico strumento per aprire un reale tavolo di trattative. Molti commentatori hanno definito il suo discorso più “sentimentale” che politico. Per fortuna – sempre a detta degli adoratori della guerra da tastiera – a riportare la discussione sui binari propri dell’atlantismo più sfrenato ci ha pensato il Presidente del Consiglio Mario Draghi. In sintesi nella sua replica ha accuratamente evitato di parlare delle sanzioni ma ha garantito solidarietà ed accoglienza per i profughi (giusto) e disponibilità ulteriore ad armare l’esercito e i civili ucraini. Viva la guerra quindi, tanto si svolge a casa d’altri, ma non possiamo certo rinunciare al petrolio e al gas che si continua a comprare da Putin e dai suoi tanto vituperati oligarchi. Vogliamo forse fermare le fabbriche o ridurre di qualche grado il calore emanato dai nostri termosifoni? Già la Germania ha dichiarato tranquillamente di non voler fare a meno di queste fonti energetiche e l’Italia non è da meno, altro che la tanto decantata unità d’Europa.

Ed è sull’intervento di Draghi che si sono giustamente concentrate le reazioni dei pochi, anzi soprattutto delle poche, indisponibili a mettersi l’elmetto seppur virtuale, ed a usare un linguaggio di pace.

Esemplari, positivamente, le 4 deputate della nuova componente nel Gruppo misto denominatasi ManifestA e che rappresenta Potere al Popolo e il Partito della Rifondazione Comunista–Sinistra Europea. Le 4 (Silvia Benedetti, Yana Ehm, Doriana Sarli e Simona Suriano), prima ancora dell’inizio dell’incontro hanno dichiarato di sentirsi in un teatro, con un copione e con l’esito già noto.

«Zelensky non è un leader pacifico – hanno dichiarato –, usa metodi che non condividiamo, sia interni che esterni al suo Paese […] le sue sono Dichiarazioni pericolose, senza diritto di replica, ascoltate da settimane. Il popolo ucraino è stato mandato al macello in una guerra di interesse ben più ampio. Una guerra che, se non fermata subito, rischia di protrarsi per molti anni, e non saranno le nostre armi a difenderli. La guerra chiama guerra, le armi chiamano altre armi, solo pace chiama pace». Hanno osato affermare che «il nostro Paese deve mediare per un cessate il fuoco immediato e spingere per intraprendere vie diplomatiche. In una discussione totalmente appiattita dall’informazione che tende a polarizzare le posizioni e seguire solo il mainstream, la nostra posizione, terza, può dare adito ad attacchi e fraintendimenti. Deve essere chiaro, quindi, che condanniamo senza riserve l’invasione di Putin e una guerra che non è del popolo russo. Chiedere la pace e la diplomazia non significa essere insensibili al massacro degli ucraini cui assistiamo tutti i giorni. Siamo assolutamente certe, però, che la via intrapresa dal nostro Governo alimenta solo la guerra e non sederà in alcun modo questa escalation». Sono poi intervenute avendo ascoltato l’intervento di replica di Draghi: «Ci ha sorpreso molto negativamente il suo intervento che ha rincarato la dose con le sue accuse contro l’intera Russia e ponendo come fondamentale l’aumento del sostegno militare all’Ucraina. Come ManifestA continuiamo ad affermare che tale sostegno non rappresenti affatto uno strumento utile a realizzare l’obiettivo fondamentale per chi sta pagando l’invasione, ovvero un immediato “cessate il fuoco”. Il dovere di ogni Paese, in questo momento è certamente quello di accogliere chi fugge ma contemporaneamente di mettere al primo posto di ogni agenda, l’apertura di un reale tavolo di trattativa che porti ad una pace duratura. E le armi non saranno mai strumento di pacificazione». Altrettanto netta la senatrice del gruppo misto Paola Nugnes: «Oggi, di fronte alla furia omicida di Putin non possiamo ipotizzare cosa farà e cosa farebbe, dobbiamo pensare a tutte le possibilità e pesare tutte le opzioni sul campo, per arrivare alla Pace, essere mediatori di Pace, e sul campo abbiamo ancora una possibilità. Se le cose in questa guerra disgraziata non ci sono definitivamente sfuggite di mano, se non sono andate troppo oltre, se la follia imperialista, la brama di potere non è andata oltre ogni ipotesi di vita, se c’è ancora la possibilità di contrattare la Pace, lo dobbiamo fare. Al folle nemico sanguinario niente potremo mai perdonare, non una delle morti degli ucraini, civili, e militari, dei militari improvvisati tra i civili costretti ad armarsi per difendersi, né degli 8.000 militari russi mandati a morire, ma se la trattativa è ancora sul tavolo deve essere VALUTATA e contrattata. Ogni ritardo ci rende colpevoli, ogni morte non può vederci che corresponsabili, per NON aver agito in tempo per la Pace, per non aver lavorato per la Pace. Il Presidente Zelensky va ridimensionato e portato alla ragione, fatto scendere dai palchi del suo personale show, non va incitato ed esaltato, quello che dobbiamo celebrare è il popolo ucraino, i popoli, tutti i popoli incolpevoli sotto le bombe delle guerre che non sono mai le loro guerre ma sempre le guerre degli altri». Imbarazzante il plauso dei leader del Pd, di Leu, della Lega e di FdI, di Conte e di Di Maio, a dimostrazione di come una classe politica possa essere distante tanto dalla realtà quanto dagli interessi, non solo della pace ma anche del proprio Paese. Inascoltate le parole del Papa, considerate esempio di altro tradimento quelle degli intellettuali non allineati, silenziata la voce di Rifondazione Comunista che definisce per bocca del suo segretario, Maurizio Acerbo, Mario Draghi “guerrafondaio” e che rimpiange il passato: «In altri tempi l’Italia avrebbe assunto un’iniziativa di pace invece di mettersi l’elmetto». Ha dichiarato con malcelata nostalgia per un’altra classe dirigente. Per il resto quasi soltanto silenzio ed esaltazione del ruolo dissuasivo delle armi, tanto ad imbracciarle sono altri, spesso costretti dalla legge marziale. Una legge marziale magari anche dovuta in un Paese sotto invasione che però ha permesso di dichiarare fuori legge in Ucraina i partiti di opposizione, di imporre l’arruolamento degli uomini dai 18 ai 60 anni, di far entrare come parte dell’esercito il famigerato Battaglione Azov e altre milizie di chiaro orientamento neonazista. Azioni che giustificano Putin e la sua invasione? Che impongono una equidistanza fra due regimi la cui democraticità è da sempre a dir poco inesistente? Questo è il modo con cui si vorrebbe dipingere l’articolato popolo della pace, quello che invece si schiera dalla parte dei disertori di entrambi gli eserciti. Si sta, peraltro, in maniera scellerata utilizzando anche la questione dei profughi di guerra per imporre una falsa narrazione degli schieramenti. Le persone fuggono dalle città martoriate, si tratta soprattutto di donne e bambini che, per la prima volta, dopo l’emergenza Kosovo, non vengono respinti e tenuti alla larga. Almeno 3 milioni, soprattutto donne, bambini e anziani, che per ora si sono fermati nei paesi confinanti, Polonia, Ungheria, Romania, Moldova, Slovacchia, paesi che non sono mai stati teneri con i fuggitivi. Questa volta è diverso, gli interessi geopolitici, l’appartenenza alla Nato, i 3 mld di euro che, a detta della presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, dovrebbero essere erogati ai Paesi che accolgono, prendendoli dai fondi europei, fanno sì che per ora ci sia maggiore disponibilità nei loro confronti. Ma la Polonia ha già dichiarato di essere in emergenza e, ben presto, anche altri Paesi la seguiranno. In Italia, al 21 marzo, erano giunte circa 60 mila persone di cui oltre 30 mila donne e 24 mila bambini. Ancora non è scattato un piano reale per garantire l’accoglienza nonostante chi arriva dall’Ucraina benefici di una antica direttiva la 55 del 2001, finora mai applicata, che permette di evitare lungaggini burocratiche.

Ben venga l’accoglienza come fattore che permette di garantire salvezza e futuro ma quanto durerà? Per ora prevale la pietas per donne e bambini e risorge il mito degli “italiani brava gente”, popolo che accoglie e solidarizza ma, se come è da temere, la presenza di tante persone si prolungherà nel tempo, se ne arriveranno molti altri come probabile, basterà poco per dimenticare tanto calore.

A maggior ragione, la sola soluzione, sapendo che è complessa da raggiungere, è nell’apertura di un reale tavolo di trattative che coinvolga tutti gli attori in campo. Giungere intanto ad un immediato “cessate il fuoco” e all’elaborazione di una proposta che tenga conto di alcuni fattori. Il mondo è cambiato e l’unipolarismo atlantista fa parte di un cascame del Novecento che non ha più ragion d’essere laddove sono tanti i soggetti a non accettare più forme di dominio che sia esso economico, politico o militare. Il ventunesimo secolo in cui siamo immersi o è plurale o non avrà futuro ed un nuovo ordine va cercato partendo da tale consapevolezza che non offre spazio ad autocrazie. Chi si considera realmente di sinistra e democratico, chi in Italia intende far valere i principi della Costituzione, deve dismettere anche mentalmente, elmetto, divisa e asservimento, non può invocare soluzioni militari in un contesto che mette a rischio la sopravvivenza del pianeta stesso. Devono essere i popoli a veder garantito il proprio diritto al futuro e non i calcoli da interesse a breve termine che realizzano solo nuovi focolai di conflitto. Non si tratta di utopie ma di un percorso politico globale che oggi punta i riflettori sul conflitto in Ucraina ma contemporaneamente non dovrebbe spegnerle in nessuna delle tante aree di crisi umanitaria. Un mondo alla fin fine in cui le ragioni dei Putin, dei Biden, Draghi, Zalensky, Assad, Afawerke, dei leader talebani o sauditi e di tanti altri da elencare, vengano finalmente considerate come inconciliabili con ogni forma di vita civile e democratica.

 

costituzione, guerra
Articolo precedente
Una Jalta 2.0
Articolo successivo
Incontro sull’appello “Il rosso verde non è un ornamento”

1 Commento. Nuovo commento

  • Fabio Sabetta
    24/03/2022 17:16

    E’ da giorni che sostengo queste posizioni e trovo vergognoso che nel parlamento italiano ci siano solo 4 deputate e una senatrice he osano opporsi alla retorica imperante e all’invio di armi. Se si guardano i sondaggi però (2 giorni fa Pagnoncelli) si scopre che il 70% degli italiani ritiene indispensabile una trattativa con la Russia e il 43% pensa che gli ucraini dovrebbero arrendersi. Mobilitiamoci per una grande manifestazione per la pace e contro il riarmo (con l’aumento della spesa militare al 2% del PIL siamo arrivati a 104 milioni al giorno!)

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.