di Pierlugi Sullo
Nel gennaio del 2001, sembra un’era geologica fa, un gruppo di capitalisti ed economisti del Forum economico mondiale di Davos si scontrò per via telematica, in video-conferenza, con un gruppo di partecipanti al Forum sociale mondiale, che inaugurava quell’anno la sua lunga carriera e si chiamava così proprio per contrapporre il “sociale” all'”economico”. Fu una discussione condita, come scrisse il Financial Times, di scontri e insulti personali.
Ma fu soprattutto la constatazione evidente che economisti, capitalisti, finanzieri (tra gli antagonisti del Fsm, in quel dibattito, c’era Soros, oggi incubo di ogni destra fascista o simile, indicato come il finanziatore occulto di movimenti e sinistre: com’è strana la vita) non rappresentavano il pianeta, nel migliore dei casi non avevano capito cosa stavano facendo e perché, e nel peggiore (il più probabile) facevano quel che facevano perché era quel che serviva a tenere alti i profitti della finanza e delle imprese, a prescindere, come diceva Totò, da tutto il resto. Infatti lo stato di salute del mondo, e degli umani che ci vivono, peggiorava proprio grazie alle scelte dementi del neoliberismo, che governava incontrastato, e incontrollato, da oltre vent’annni.
A rappresentare il “sociale”, c’era un bel gruppo di anti-economisti o economisti critici, per così dire, tra cui Bernard Cassen e Walden Bello, e però anche rappresentanti di movimenti contadini, di campagne per la giustizia sociale, contro il debito dei paesi poveri, per la difesa di beni naturali come l’acqua, ecc. C’erano anche le Madri di Plaza de Mayo, per dire.
La cosa buffa (e deprimente insieme) è che quelli di Porto Alegre elencarono quel giorno tutti i disastri che il liberismo e la globalizzazione di quel genere stavano creando, dalla finanza globale senza limiti e controllo (da cui la crisi finanziaria del 2008, dalla quale non si uscirà mai) allo sfruttamento selvaggio, o “estrattivista”, cioè interessato solo a ricavare vantaggi per il capitale, della terra e delle foreste e delle acque e dell’aria (da cui la crisi climatica), le ineguaglianze senza limiti (da cui la povertà crescente ovunque), l’umiliazione o la compravendita degli stati-nazione da parte delle multinazionali (da cui la crisi della politica novecentesca). Per non citare l’immensa economia criminale intrecciata con quella cosiddetta “legale”. E così via. Insomma, avevamo ragione noi, quelli che dicevano, e suonava come uno squillo di novità, “un altro mondo è possibile”. Il Forum di Davos non volle ripetere l’esperienza e tornò a radunare solo potenti dell’economia e governanti rimbecilliti dal dogma della “crescita”, mentre il Forum sociale crebbe enormemente e si moltiplicò ovunque, e dai 16 mila partecipanti del primo, appunto nel 2001, si passò ai centomila del quarto, sempre a Porto Alegre, alle edizioni in tutti i continenti, l’Europa, l’Africa, in India, e di nuovo in Brasile, e vi si manifestarono presto i popoli indigeni, specie quelli dell’America latina, con la loro verità semplice e anti-economica: la Terra è la madre di tutti noi, e dobbiamo rispettarla. E a frenare la diffusione planetaria di movimenti e campagne non servì neppure il fatto che, a pochi mesi dal primo Porto Alegre, una delle molte proteste contro “summit” di potenti della terra e organismi conomici mondiali, costume che era iniziato a Seattle nel ’99, il forum di Genova nel luglio di quell’anno, fosse vittima della “peggiore violazione dei diritti umani in un paese occidentale”, come disse Amnesty International.
Sì, obietterà qualcuno, ma quel “movimento dei movimenti”, come fu definito, è scomparso, mentre Davos è ancora qui. E beh, a parte il fatto che un convegno in un hotel cinque stelle in cima alla Svizzera è più facile da organizzare, se si hanno i soldi e si può contare sulla complicità dei capi delle multinazionali e dei capi dei governi, che non una insorgenza sociale multiforme, siamo proprio sicuri che quel movimento sia scomparso? Non è per caso che quel modo di guardare il mondo e di pensare la democrazia non si possa ritrovare, per tracce e frammenti, nei movimenti successivi, come Occupy Wall Street (negli Usa si tenne un Forum sociale statunitense sorprendente, per l’enorme quantità di iniziative sociali di ogni tipo al di fuori della politica nota, e forse fu una delle premesse per la vittoria di Obama nel 2008), come gli Indignados spagnoli (che hanno creato, più o meno direttamente, un partito come Podemos, che, nel nuovo governo di centrosinistra-sinistra, ha offerto il posto di ministro dell’università a Manuel Castells, uno dei maggiori studiosi mondiali del web e che faceva discorsi sulla democrazia alla “acampada” di Barcellona), come le primavere arabe (e qui ci sarebbe da discutere, mi rendo conto), come, più di recente, l’insurrezione civica (e indigena) del Cile, alla ricerca di una nuova democrazia e che si sostiene su migliaia di “cabildos”, cioè consigli cittadini o femministi o di artisti… E sono solo alcuni esempi. Qualcuno aggiungerebbe i “gilets jaunes”, altri il movimento nato in Gran Bretagna e che si chiama “Extinction rebellion”, e infiniti eccetera.
Aver ragione in anticipo rischia di equivalere ad avere torto, lo so. Ma forse oggi possiamo guardare a Greta per quel che è: una sovversiva climatica nella tana dei distruttori (che peraltro hanno scoperto solo adesso, specie dopo la catastrofe australiana, che la crisi climatica “minaccia” metà del Pil mondiale, e quello è il solo linguaggio che capiscono). El Pais, il giornale spagnolo, ha raccontato qualche giorno fa che gli ultimi Neanderthal, in Europa, si rifugiarono nel sud della Spagna. Ecco, quando guardo Trump e Greta, che appunto si affrontano a Davos, penso a uno degli ultimi uomini di Neanderthal alle prese con una minuscola rappresentante dell'”homo sapiens”. Il primo pensa di sopravvivere rubacchiando frutti dagli alberi e ammazzando animali, la seconda crede invece che la frutta vada coltivata, rispettando le piante, e gli animali allevati. E certo il bianco non è così separato dal nero: noi tutti, come sappiamo rechiamo tracce del DNA dei Neanderthal, circa il 12 per cento, se non ricordo male, e questo spiega, per metafora e con tutto il rispetto dei veri Neanderthal, perché la teoria economica, quella che riduce l’umanità e la natura a un calcolo economico truffaldino (mai che si conteggino nel Pil i danni sociali e ambientali della produzione, come fossero riserve infinite), è così dura a morire. Anche a sinistra.