La fine del Ramadan, il digiuno che nel mondo musulmano si è tenuti ad osservare, è legato alle fasi lunari, cambia quindi a seconda del paese in cui si vive. In Italia, quest’anno, il giorno fatidico cade oggi, 10 aprile, sarà capitato a molte e a molti scorgere uomini e donne recarsi alla moschea più vicina o al centro islamico, per la preghiera del mattino, indossando capi di abbigliamento che rimandano alla propria tradizione, incrociare sguardi di gioia, scambiarsi il tradizionale Eid Mubarak (festa benedetta), un augurio carico di speranza e di felicità. Oggi ci si scambiano regali, si vanno a trovare i parenti, si mangia finalmente in maniera conviviale non soltanto quando il sole è calato o, svegliandosi, prima che il sole sorga, come da precetto. La presenza in Italia di quasi 2 milioni di persone di religione musulmana, alcuni anche italiani convertiti, nonostante continui a creare diffidenza e timori, sta entrando lentamente fra gli aspetti consueti di un paese pluriculturale nei fatti da decine di anni. Le lamentele per l’apertura di centri di preghiera e di ritrovo non trovano più forte consenso, al massimo ci si scandalizza perché il giorno di festa comincia ad essere celebrato anche in alcuni istituti scolastici.
Due le ragioni, fra loro correlate, che ci dovrebbero portare, in questo giorno a riflettere. Le nostre piazze, dal 7 ottobre, si sono riempite di cortei in molte città grandi e piccole, piene di ragazze e ragazzi che protestavano contro il genocidio a Gaza e l’occupazione in Palestina. Al di là dei giudizi, rispetto ad alcuni slogan che hanno risuonato, ad interventi estremamente radicali, è significativa la presenza, insieme, di seconde generazioni provenienti soprattutto da paesi nordafricani, magari nati in Italia, animati da una profonda indignazione e di ragazze e ragazzi che ne comprendono in maniera empatica la rabbia e il desiderio di giustizia, di rivolta. Piazze in cui più volte, la repressione polizia si è accanita con ingiustificata cattiveria, quasi a voler prevenire qualcosa di cui non si colgono ancora le dimensioni. Cosa anima queste piazze meticce? Secondo alcuni la sola disperazione. E se invece ci si sbagliasse? Se la determinazione con cui nelle scuole, nelle università, anche nelle piccole città stesse salendo una sorta di identificazione in questo sprazzo di rivolta in cui, ribaltando l’interpretazione biblica, il “Davide” è il popolo palestinese mentre Golia è incarnato nell’immenso strapotere bellico e politico dell’esercito di Tel Aviv? È presto per parlare di solidarietà internazionalista e per dare una conformazione stabile a questo filo rosso che attraversa non solo l’Italia e che sta creando non propri problemi, non solo d’immagine, al paese occupante.
Ma c’è un secondo aspetto che rimanda invece alle righe iniziali di questo testo. Chi può augurarsi oggi Eid Mubarak? E qui il discorso si complica perché oppressi ed oppressori fanno parte di un mosaico più ampio. Cosa si può festeggiare fra le case distrutte di Khan Younis, mentre incombe la minaccia dell’invasione di Rafah e i raid continuano sugli ospedali, nei campi profughi, immutati dal 1948 di Jiabaliya, Shati, uccidendo quasi esclusivamente civili? Difficile gioire al confine fra Libano e Israele, come non guardare il cielo a Damasco o ad Aleppo senza tremare, cosa si prova nella costa sud dello Yemen, fra gli houthi.
Ma fin qui si può già immaginare da quale punto del pianeta possono arrivare gli ordigni di morte. Il silenzio è quasi caduto sulle zone curde in Iraq e Turchia. Dopo le elezioni amministrative si continua a sparare e ad incarcerare i sindaci curdi eletti nonostante i brogli e le minacce. Il nemico stavolta ha la stessa religione ma dimostra, con le proprie azioni, di quanto questa non basti per impedire le violenze. E il silenzio è divenuto notte profonda in Afghanistan, paese profondamente musulmano, dove l’interpretazione talebana, nata nelle madrase pakistane, impone una interpretazione orrenda della sharia. È di pochi giorni fa la notizia della decisione presa dal regime talebano, che ha ripreso il potere dopo le sciagurate scelte Usa e Nato, di cui anche l’Italia è stata corresponsabile, di tornare a praticare la lapidazione in pubblico delle donne accusate di adulterio. L’Eid Mubarak ci sarà stato anche in quelle case, in uno dei paesi che senza aiuti internazionali è condannato alla fame. Non una parola esagerata. La fame quella vera, quella che si vive quando il 72% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, in cui la sola merce disponibile e a basso costo per sopportare la vita è l’oppio – c’è il 10% di persone tossicodipendenti – in cui, come diceva una compagna oggi esule “l’Urss ci ha insegnato a non credere al socialismo e l’occidente alla democrazia”. In un paese in cui gli Usa, prima di lasciare il campo, hanno sperimentato la MOAB l’ordigno convenzionale più potente mai fabbricato, 11 tonnellate di tritolo, sganciato per distruggere i tunnel dei terroristi e che ha fatto divenire sorde oltre 800 persone. Effetti collaterali, come al solito. L’Afghanistan dimenticato dove il potere talebano è messo in discussione dall’ISIS – K, quello che, secondo quanto sappiamo ad oggi, ha ucciso oltre 140 persone a Mosca. Ma guai a tornare al timore del terrore islamista come sono tentati di fare i miseri governi europei. Certo utile alla propaganda elettorale, come annunciare in grandi conferenze stampe l’arresto di un “islamista tagiko”, che era entrato regolarmente a Roma, in aereo, senza armi e già annoverato fra coloro che riproveranno a distruggere la libertà dell’occidente.
C’è invece una tragica specularità fra le azioni criminali e genocide attuate da Israele e l’oppressione sistematica, che a volte si traduce anche in feroci repressioni praticate nelle cosiddette repubbliche islamiche in cui musulmani uccidono altri musulmani. Una verità semplice, le vittime sono i popoli, i carnefici chi decide che le vite umane sono merce da mettere sul piatto del cinismo della geopolitica dei diversi disegni imperiali. A questi popoli l’augurio, malgrado tutto, di Eid Mubarak è solo la speranza di un futuro radicalmente diverso da quello attuale.
Stefano Galieni