“Nessun Paese europeo ha norme sulla prescrizione come quelle italiane”: l’abbiamo sentito dire fino alla nausea nell’ultimo periodo. È, almeno in parte, vero, nel senso che le norme relative alla prescrizione del reato (cioè l’impossibilità di perseguirlo a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo) non sono uguali nei diversi Paesi. E dunque? Perché dovrebbe esserci un’unica norma per Paesi con storia e cultura giuridica diversa? E perché dovrebbe essere il nostro ordinamento a uniformarsi a quello di altri Paesi? E di quale, in particolare? Meglio l’ordinamento francese, spagnolo o tedesco? E cosa, in particolare, dovremmo “cogliere” dagli altri ordinamenti? Perché di questo si tratterebbe: scegliere da un altro sistema giudiziario il “pezzo” che di volta in volta ci piace di più (quello meno garantista, di questi tempi) per innestarlo nel nostro, ignorando le differenze esistenti tra i diversi codici penali e di procedura penale, i tassi di incarcerazione, i budget per la giustizia ecc. Ma facciamo pure finta che queste differenze non contino e vediamo cosa prevedono in proposito i sistemi di alcuni Paesi europei, come illustrati dallo studio della Camera dei deputati del 2015[1] (La prescrizione del reato e della pena nei principali Paesi europei) su Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, iniziando con il dire che la scelta dei sistemi penali analizzati risulta non troppo felice: l’ordinamento britannico non contempla l’istituto della prescrizione e in Francia esiste una distinzione tra crimini, delitti e contravvenzioni (con termini di prescrizione uguali per ciascuna qualificazione giuridica, indipendentemente dalle pene previste) che non rende confrontabile punto per punto quel sistema penale con gli altri in ordine alla prescrizione del reato, il cui termine massimo è comunque stabilito in 10 anni (con l’eccezione dei reati connessi al traffico di stupefacenti, al terrorismo, all’eugenismo, alla clonazione e ai reati sessuali contro i minori). In Germania e Spagna vigono ordinamenti più simili a quello italiano, poiché i termini di prescrizione sono basati sui massimi edittali per i diversi reati, con differenze nella quantificazione. A puro titolo esemplificativo: in Germania si prescrivono in 20 anni i reati per i quali la pena massima erogabile è superiore ai 10, in Spagna nello stesso tempo quelli per i quali la pena edittale è pari o superiore a 15 anni, in Italia i termini di prescrizione coincidono ordinariamente con la pena edittale (sono raddoppiati, invece, per alcuni reati, come l’omicidio colposo plurimo, l’omicidio stradale, i delitti contro l’ambiente). In Germania, però, a differenza dell’Italia, è previsto un termine di prescrizione della perseguibililtà (30 anni) anche per i reati per i quali il codice penale prevede l’ergastolo.
Alcuni reati sono imprescrittibili nei 3 sistemi continentali esaminati: i crimini contro l’umanità e alcuni reati militari in Francia; il genocidio e l’omicidio in Germania; i delitti contro l’umanità, il genocidio, i reati commessi contro persone e beni protetti in caso di conflitto armato, i delitti di terrorismo qualora abbiano causato la morte di una persona in Spagna; in Italia – come già detto – sono imprescrittibili tutti i reati che prevedono la pena dell’ergastolo: la lista è lunghissima e include, oltre al genocidio, ai crimini contro l’umanità, alla strage e all’omicidio, la violenza sessuale reiterata, recidiva e aggravata, l’attentato contro il Presidente della Repubblica o contro capi di Stato esteri, il traffico di esseri umani con circostanze aggravanti (come violenza sessuale, riduzione in schiavitù ecc.) e tutti i reati per i quali era prevista la pena di morte prima del 1944. Nel nostro sistema della prescrizione, in sostanza, non ci sono facili vie di fuga a garantire l’impunità.
Non è perciò una singolare coincidenza che contro la cosiddetta riforma della prescrizione o riforma Bonafede (contenuta nella legge 3/2019, “Spazza-corrotti”, che prevede la sospensione dei termini dopo la sentenza di primo grado, sia di condanna sia di assoluzione) si siano pronunciati magistrati (il Procuratore generale di Milano, per esempio, ha dichiarato che appare irragionevole quanto agli scopi, incoerente rispetto al sistema e confliggente con valori costituzionali) e avvocati (all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Napoli, si sono presentati in manette al Maschio Angioino).
Nel discorso pubblico, invece, la “riforma” è stata spinta pesantemente proprio dall’associazione con l’idea di una diffusa impunità e con i “trucchi” che gli avvocati metterebbero in campo per dilatare i tempi del processo allo scopo di evitare la condanna dei loro clienti.
Quest’idea dell’avvocato “complice” degli imputati riaffiora di tanto in tanto e non sempre sotto traccia: venivano guardati con sospetto quando assumevano la difesa degli imputati nei cosiddetti processi per terrorismo nei primi anni ’80 e addirittura invitati a non difendere “i mafiosi” (cioè gli imputati presunti innocenti) appena qualche anno dopo. Ma l’“alleanza” del difensore con l’accusato è nello statuto della professione: l’assistenza legale è prestata nell’interesse dell’imputato, che è una delle parti del processo insieme alla pubblica accusa, quindi l’avvocato è di parte. Tuttavia è falso che siano i “trucchi” degli avvocati ad allungare i processi: in caso di rinvio delle udienze su richiesta dell’imputato i termini di prescrizione sono sospesi (art. 159 cp) e non per effetto della “riforma Bonafede”. È ampiamente noto, però, che la maggioranza delle prescrizioni interviene prima che il processo abbia inizio, cioè in fase istruttoria. I fan della prescrizione zero, però, non arrivano a sostenere che dovrebbe essere abolita anche in questa fase iniziale, con l’argormentazione che questo intaserebbe ulteriormente gli uffici giudiziari, di fatto bloccando l’azione penale.
Ed ecco allora emergere un altro coniglio dal cilindro (non codificato in una proposta sul tavolo, ma ampiamente evocato nei dibattiti televisivi): far decorrere la prescrizione non dalla data di commissione del reato ma da quella del suo accertamento (a questo proposito, i sostenitori del sistema francese dimenticano di dire che anche oltralpe i termini di prescrizione decorrono dalla commissione del reato). In questo modo, si dice, si eviterà la prescrizione per i reati fiscali e per quelli ambientali, che vengono “scoperti” ad anni di distanza dal momento in cui sono stati commessi. Però, viene da dire, se ci fossero i necessari controlli ambientali, per esempio, le “scoperte” potrebbero verificarsi prima. Si dà invece per scontato che l’inquinamento di un territorio rimanga una sorta di segreto ben custodito per anni, per essere poi rivelato quando è troppo tardi per accertare le responsabilità penali, l’ambiente è già pesantemente danneggiato e la salute di chi vive in quel territorio ne ha fortemente risentito. Ma poiché l’ambiente viene utile in questo discorso solo per sostenere la necessità di prendere tempo prima che inizi a decorrere la prescrizione, strizzando l’occhio alla maggiore diffusa sensibilità al tema ecologico, di un monitoraggio sistematico delle fonti di inquinamento non si sente parlare. Eppure esistono migliaia di comitati di cittadini e di associazioni che sanno esattamente cosa accade in ogni singolo territorio: non c’è segreto meno gelosamente custodito…
A chi è contrario alla “riforma Bonafede” della prescrizione viene spesso opposto anche un altro argomento, di tipo apparentemente egualitario: nel processo civile la prescrizione non c’è, quindi sarebbe giusto abolirla del tutto anche nel processo penale. Quest’idea che applicare le stesse norme a procedimenti diversi sia uno strumento di giustizia perché mette tutti sullo stesso piano (fingendo che siano uguali), è insensata anche se, a forza di ripeterla, sembra diventare di buon senso. Nello specifico, tanto per iniziare, com’è noto, il procedimento civile è generalmente iniziato da un soggetto privato che chiede il riconoscimento di un diritto che gli è stato negato da un altro soggetto privato o da un ente pubblico. Nel processo penale, invece, è lo Stato a perseguire una persona la cui condotta è considerata meritevole di sanzione penale, generalmente accompagnata da una forma di restrizione della libertà. Il convenuto, cioè il soggetto nei cui confronti è intentata l’azione civile, e l’imputato nel processo penale non sono uguali ed è pretestuoso e irragionevole sostenere che la prescrizione sia un privilegio degli imputati, trattandosi invece di un limite che lo Stato si autoimpone qualora non sia riuscito a garantire il rispetto del diritto di ogni cittadino alla durata ragionevole di indagini e processi penali[2]. La previsione della prescrizione, inoltre, si basa sul presupposto che la pretesa punitiva dello Stato venga meno quando sia decorso un determinato periodo di tempo e che la finalità rieducativa della pena non possa essere perseguita quando il periodo di tempo trascorso dalla commissione del reato all’esecuzione della condanna sia troppo lungo. La collettività, in sostanza, non ha interesse né a vedere pronunciata una sentenza né a veder eseguita una pena a molti anni di distanza dai fatti.
L’interesse collettivo si persegue più efficacemente e con maggiore giustizia riducendo il numero dei procedimenti penali attraverso la depenalizzazione (innanzitutto dei reati legati agli stupefacenti), potenziando gli strumenti di prevenzione e stanziando maggiori risorse per l’assunzione di personale piuttosto che sospendendo – in tutto o in parte, per i soli condannati o anche per gli assolti – i termini di prescrizione.
A leggere il comunicato stampa del governo a seguito dell’approvazione nel Consiglio dei ministri del 13 febbraio delle “Deleghe al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti d’appello”[3] questa misura non è contemplata in alcuna forma. Si fa invece riferimento a “norme volte a ridurre il numero di processi che giungono alla fase dibattimentale, con criteri più stringenti in relazione alla regola di giudizio a cui il pubblico ministero e il giudice dell’udienza preliminare devono attenersi per l’esercizio dell’azione penale o l’accoglimento della richiesta di rinvio a giudizio”; si prevede che “nello stilare il programma organizzativo della Procura della Repubblica, il Procuratore indichi i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, da concordare con il Procuratore generale e con il Presidente del Tribunale, sulla base della specifica realtà criminale e territoriale e delle risorse umane, finanziarie e tecnologiche a disposizione dell’ufficio”; si estende la “possibilità del patteggiamento a tutte le ipotesi di reato alle quali sia applicabile complessivamente una pena inferiore agli otto anni, rispetto agli attuali cinque, riequilibrata da un ampliamento dell’elenco dei reati che escludono a priori il patteggiamento”. Per velocizzazione i processi in corso in Corte d’appello, si estende inoltre la possibilità di impiegare i giudici onorari ausiliari anche nel settore penale, aumentandone l’organico di 500 unità (da 350 a 850) e “si autorizza l’assunzione, con contratto a tempo determinato di 24 mesi, anche in soprannumero, di 1.000 unità di personale amministrativo”.
Su queste previsioni il 17 febbraio l’Unione delle camere penali ha scritto, in conclusione di un articolato esame: “Nel tempo dei giustizialisti al potere, prima l’idiosincrasia nei confronti della funzione dei riti alternativi, con il loro corollario di premialità e poi, con la nuova maggioranza di Governo, nuove storture ed erosioni delle garanzie difensive, l’attacco al giudizio di appello hanno accompagnato la deriva populista che vuole realizzare il processo infinito ed individua nel carcere l’unico trattamento sanzionatorio possibile”.
[1] Lo studio è stato realizzato nello stesso anno in cui è stato approvato il ddl 4368, “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”, la cosiddetta riforma Orlando, che interviene, tra l’altro, a modificare la c.d. ex-Cirielli (5 dicembre 2005, n. 251), allungando i termini della prescrizione non solo rispetto a quella legge ma anche rispetto al regime precedentemente vigente e introducendo nuove cause di sospensione. Nell’arco di 13 anni il legislatore è intervenuto (includendo la c.d. riforma Bonafede) ben 3 volte sul tema della prescrizione.
[2] Tale diritto è sancito dall’art. 111 della Costituzione, dall’art. 6 della Convenzione europea per i diritti umani e dall’art. 47 della Carta dei diritti dell’Unione Europea.
[3] Al cui interno è stato introdotto il cosiddetto lodo Conte bis sulla prescrizione del reato, introduce, rispetto alla riforma Bonafede, una distinzione tra assolti e condannati, prevedendo che la prescrizione sia sospesa dopo la sentenza di primo grado solo per i condannati ma riprenda a decorrere in caso di assoluzione in appello (recuperando anche i termini intercorsi tra primo e secondo grado). Rimarrebbe bloccata, quindi, solo in caso di doppia condanna.
Maria Pia Calemme