Cosa hanno in comune Togliatti e Mitterrand, il primo comunista e il secondo socialista?
Per me l’essere due figure che nel contesto e nel percorso storico in cui erano iscritte riuscirono a dare al soggetto politico da loro rappresentato, il Partito comunista italiano e quello socialista francese, gli strumenti teorici, la cassetta degli attrezzi e la forza organizzata per esercitare una egemonia storica. Mitterrand fino a diventare presidente della Repubblica e Togliatti nella realtà politica e sociale che pure gli impediva per ragioni internazionali di farlo dal governo.
Accompagno queste brevi riflessioni con due testi che aiutano a capire. Uno scritto di Luigi Pintor del 1969 che ha il pregio di guardare a Togliatti già con l’occhio del 1968/’69 e il discorso di Mitterrand ad Epinay, quando dalla diaspora socialista nasce il Partito socialista francese.
Dunque due testi non di ortodossia comunista ma che mi servono a trattare il tema che sento urgente.
Quello di ricostruire in Italia un “prevalente” di cui i comunisti siano protagonisti e che ridia loro respiro teorico e rappresentanza di massa.
Togliatti dopo 18 anni di esilio torna in Italia nel 1944 e a Salerno, in un contesto cui partecipano altre forze dell’antifascismo italiano, delinea i tratti di quello che sarà chiamato il partito nuovo.
Mitterrand nel 1971 rimette insieme la diaspora socialista, lancia una sfida egemonica allo stesso Pcf (cui questo partito faticò a rispondere).
Non mancano nella storiografia coloro che considerano questi atti come revisionisti.
Quello di Togliatti come rinuncia alla Rivoluzione.
Quello di Mitterrand come una anticipazione craxiana.
Io non concordo minimamente. Penso, al contrario, che furono passaggi esemplari di come si determina un’evoluzione di un organismo politico opposta alle sue mutazioni genetiche.
Quelle che abbiamo conosciute con lo scioglimento del PCI e il percorso che ha portato al PD.
Quelle che da Craxi portano al berlusconismo.
Non a caso oggi c’è in Italia una restaurazione nelle forme di una moderna rivoluzione conservatrice che vede negli eredi della destra pre liberazione antifascista gli interpreti non solo del governo del Paese ma della fase europea e neo atlantica col compromesso tra establishment e nuovi nazionalismi. Cioè egemoni.
Togliatti, al contrario di Occhetto, non scioglie il partito ma lo rende nuovo.
Il PCI passa dalle poche migliaia di iscritti del 1943 ai due milioni della 1948.
Certo è finita la clandestinità e la repressione fascista.
Ma dal protagonismo resistenziale Togliatti trae non un’idea militare ma quella gramsciana di un protagonismo di massa capace di perseguire conflitto ed egemonia nel nuovo quadro dato.
Che è certo pesantemente condizionato dalla spartizione delle influenze.
Ma in cui temi come la via italiana al socialismo, le riforme di struttura, la democrazia progressiva forniscono una cassetta degli attrezzi e di rapporto tra società ed istituzioni che fa egemonia.
Né settarismo, né diaspora, né abiura.
Interessante è lo scritto di Pintor perché, come dicevo, legge tutto questo con gli occhi del ’68/’69 e di chi vuole innovare profondamente ma riconosce un percorso fatto anche attraverso la destalinizzazione.
Un percorso vincente per quello che si poteva vincere e cioè migliorare radicalmente la vita delle masse popolari ed avere solide radici nel Paese Reale.
Mitterrand fa l’opposto di Craxi. Sceglie l’ancoraggio a sinistra per l’autonomia socialista, sfidando Pcf e movimenti sessantottini contro i liberali e per il socialismo.
Anche qui i giudizi possono essere critici ma di certo la Francia di oggi, anche grazie a Mitterrand, socialmente e politicamente non è ridotta come l’Italia.
Ecco, l’Italia, è il luogo delle mie angosce che sono grandi ormai anche per età.
Faccio parte, così mi sento, di una generazione che non è stata all’altezza.
Di cosa?
Di fare la Rifondazione comunista, dico per la mia parte.
In generale, di contrastare un processo di dissoluzione di una Storia poderosa, di pesantissimi arretramenti sociali, di sradicamento, di affermazione di tutte le versioni delle destre, da quelle neoliberali, che hanno cooptato ampi parti di “sinistra” trasformate in establishment, e neo nazionaliste e culturalmente reazionarie.
Certo lo scioglimento del PCI ha consentito tutto questo.
Pure una ampia resistenza e un tentativo di ricostruzione ci sono stati. Rifondazione comunista in primis, cercando precisamente di mantenere un prevalente dei comunisti e tra i comunisti.
Ma poi grandi movimenti sociali come i social forum, il pacifismo, il femminismo.
Peggio è andata col sindacato a causa della concertazione.
Maastricht e la concertazione sono stati dirompenti.
Poi il berlusconismo, con l’uso straripante del potere massmediatico quando le casematte del Paese nel Paese che il PCI aveva costruito erano state smantellate.
La resistenza del Prc, l’ho scritto altre volte, ha fatto errori ma, soprattutto, è stata sconfitta dal peso degli avversari.
Lo si vede ora anche in altri Paesi quanto sia difficile reggere nell’Europa reale.
Noi, per altro, eravamo meno che gli eredi di un partito che purtroppo nella sua maggioranza si era sciolto.
Le radici erano più fragili e anche innestate da piante diverse. Meritavano una cura che non abbiamo saputo avere.
Anche qui non parlo di colpe ma di inadeguatezza.
La diaspora di Rifondazione è simile a quella dei socialisti francesi prima di Epinay.
Mancando un prevalente si va dalle scorciatoie elettorali, alle resistenze movimentiste, agli assemblaggi ricorrenti e variegati, al riautonomizzarsi di molti filoni minoritari o anche restauratori di forme retrograde.
Io non mi chiamo fuori da tutto questo.
Anzi mi chiamo in causa.
Ho partecipato alle diaspora.
Ho scelto poi la testimonianza come resistenza democratica.
Però la politica non è pensata per me, che per altro sto finendo.
Serve all’emancipazione della Storia e delle Persone.
Per questo, certo anche per il mio bilancio personale, sognerei che tornasse per il comunismo organizzato in Italia una stagione politicamente, socialmente ed elettoralmente di massa.
Roberto Musacchio