L’Europa si sta riscaldando più velocemente di qualsiasi altro continente, ma la sua politica non tiene il passo. Il tempo sta davvero per scadere come ci dicono tanti rapporti dell’IPCC; i politici progressisti e di sinistra devono riscoprire il coraggio delle loro convinzioni e un senso di urgenza perché è ormai evidente che quelli delle forze politiche di centro-destra e di destra ci condannano ad una sostanziale inazione condita da tanta vuota retorica e molto greenwhasing.
Lo scorso mercoledì (12 luglio) il Parlamento Europeo, dopo un acceso dibattito, ha respinto una risoluzione tesa a non adottare il regolamento sul ripristino della natura e approvato la legge sul ripristino degli ecosistemi degradati europei (Nature Restoration Law) con due votazioni sul filo del rasoio: con 324 voti contrari, 312 favorevoli e 12 astenuti nel primo caso e con 336 voti a favore, 300 contrari e 13 astenuti nel secondo. Il regolamento impone misure di recupero sul 20% della terra e del mare dell’UE entro il 2050, un intervento che è ritenuto centrale per cercare di raggiungere gli obiettivi del Green Deal – ed in particolare della Strategia per la biodiversità per il 2030 (che è una strategia concordata in sede globale nel dicembre 2022) -, il piano lanciato dalla Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, nel giugno 2021 (ma annunciato già nel 2019). (Su questi temi si veda il nostro articolo qui.). I risultati delle votazioni hanno evidenziato la fragilità della maggioranza a favore dell’agenda verde dell’unione Europea e fa presagire lotte più serrate in futuro sui temi ambientali e della lotta al cambiamento climatico. Mentre l’Europa sta virando a destra, con i partiti contadini populisti che minacciano di sottrarre voti ai conservatori tradizionali in Paesi come i Paesi Bassi, ci sono segnali che i margini a favore di leggi di vasta portata del Green Deal si stanno assottigliando.
In ogni caso, con queste due votazioni è stato respinto il tentativo dei deputati conservatori di centro-destra e di destra di cercare di affondare il Green Deal. Per mesi il leader del Partito Popolare Europeo (PPE) Manfred Weber ha tramato per assicurarsi che il Parlamento avrebbe silurato le proposte, sostenendo – contro scienziati, organizzazioni non governative, oltre 1 milione di cittadini europei firmatari di una petizione e la Commissione – che avrebbero distrutto i mezzi di sussistenza degli agricoltori (in un momento in cui stanno già lottando con l’aumento dei costi e le conseguenze della guerra in Ucraina), tolto terra alla produzione, messo a rischio la sicurezza alimentare del continente e bloccato nuovi progetti di energia rinnovabile.
Il disegno di legge è arrivato indebolito alla votazione in plenaria al Parlamento di Strasburgo, avendo fallito tre votazioni nelle commissioni (pesca, agricoltura e ambiente) ed essendo stato annacquato prima della votazione con notevoli modifiche (un emendamento del gruppo Renew Europe ha reso i vincoli più flessibili) rispetto alla proposta originaria, con tagli ed esenzioni delle terre destinate ad essere ripristinate e con l’aggiunta di una condizionalità tesa a ritardare l’implementazione del regolamento, per cui la sua attuazione avverrà solo dopo che sarà svolta una valutazione formale dei dati sulla sicurezza alimentare dell’Europa.
Il PPE non è stato in grado di raccogliere la maggioranza dei voti, nonostante il sostegno dei Conservatori e Riformisti Europei, dell’estrema destra Identità e Democrazia e di alcuni membri del gruppo liberale Renew Europe (per lo più deputati olandesi, nordici e tedeschi), oltre che di gruppi di pressione che rappresentano i settori dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca (gli agricoltori hanno organizzato delle manifestazioni di protesta a Bruxelles). “Meno terra per gli agricoltori, meno mare per i pescatori, meno attività per le imprese e meno prodotti e posti di lavoro europei per i nostri cittadini. Queste sono le pesanti ripercussioni delle proposte contenute in un regolamento permeato di ideologia e controproducente per la natura stessa“, ha affermato Rosanna Conte, eurodeputata italiana della Lega (Gruppo Identità e Democrazia), durante il dibattito.
Queste forze politiche hanno deciso di presentarsi come i difensori degli interessi degli agricoltori alle prossime elezioni europee del 2024. “Abbiamo lottato per le nostre convinzioni e ci siamo andati molto vicini”, ha detto Weber in una conferenza stampa, cercando di minimizzare la sconfitta, che ha visto 15 dei 176 membri del PPE rompere le fila rifiutandosi di bocciare il disegno di legge, mentre poi in 21 hanno votato a favore della sua approvazione (nessuno di Forza Italia). Con la sua campagna, Weber si è scontrato anche con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, membro del PPE e architetto originale del Green Deal che dovrebbe essere sostenuto da tutti i partiti della “coalizione Ursula”. Il cambio di rotta del centrodestra sul Green Deal segnala che quella coalizione si sta sgretolando. La stessa Von der Leyen ha attirato le critiche degli eurodeputati di sinistra per non aver difeso pubblicamente la sua proposta ambientale di punta, ma ha tenuto incontri privati con gli eurodeputati prima della votazione.
Una coalizione di eurodeputati dei gruppi Socialisti e Democratici, Sinistra, Verdi e Renew Europe si è mobilitata a sostegno delle proposte ed è risultata vincente, insieme alle associazioni ambientaliste e anche ad alcune aziende dei settori agroalimentare (incluse multinazionali come Nestlé, Danone, Coca-Cola e Unilever), tessile e delle rinnovabili. Il loro argomento principale è stato che la protezione e il ripristino della vitalità della natura (con interventi di vero e proprio “restauro” delle condizioni ecologico-ambientali degli habitat naturali), insieme alla riduzione dell’uso di prodotti agrochimici e inquinanti, sono essenziali per mantenere la produzione agricola ed ittica a lungo termine (sostenibilità) e assicurare la sicurezza alimentare. Ripristinare la terra non significa che l’attività economica non possa svolgersi lì; non è la stessa cosa che istituire una riserva naturale; non sarebbe possibile raggiungere la neutralità climatica o garantire la produzione alimentare, i mezzi di sussistenza degli agricoltori e una prospera bioeconomia se non viene ripristinato un equilibrio ecologico naturale. Uno degli obiettivi della legislazione è quello di aumentare la quota di vegetazione sui terreni agricoli – come siepi, stagni o fossati, che sostengono la biodiversità – per coprire il 10% del territorio agricolo dell’UE entro il 2030, rispetto all’attuale 7%. Questo non significa che queste aree debbano diventare necessariamente terreni improduttivi dato che, ad esempio, possono includere frutteti. Le forze politiche a favore hanno insistito sul fatto che la legislazione ha lo scopo di aiutare gli agricoltori nel lungo periodo, poiché mira a migliorare la qualità del suolo e dell’acqua, nonché a costruire la resilienza contro i disastri naturali come inondazioni, siccità e incendi.
Ora il Parlamento potrà avviare negoziati interistituzionali (il cosiddetto trilogo) con i Paesi dell’UE (a giugno il Consiglio aveva approvato un testo molto simile a quello del Parlamento, con 21 Paesi a favore, mentre avevano votato contro Italia, Polonia, Belgio, Paesi Bassi, Austria e Svezia) e la Commissione per trovare un compromesso su un testo definitivo che dovrà essere approvato dal Parlamento. La presidenza spagnola del Consiglio ha già segnalato che il dossier sarà una delle sue priorità (ma se il 23 luglio il governo perde le elezioni questa spinta verrà meno). Il responsabile del Green Deal dell’UE, il socialdemocratico Frans Timmermans, ha detto ai giornalisti di essere “ottimista” sul fatto che il testo possa essere finalizzato “entro un paio di mesi“. “È stato un voto ravvicinato, ma questa è democrazia. La mia missione nei prossimi due mesi è convincere anche molti di coloro che oggi hanno votato contro che questa è una legge che aiuterà davvero la natura europea a riprendersi“, ha detto Timmermans (il quale potrebbe tornare alla politica olandese per le elezioni generali di novembre).
La necessità di andare avanti nella battaglia contro il cambiamento climatico
Legislatori e attivisti hanno sottolineato che la vittoria dell’alleanza di sinistra ha avuto un costo elevato: eliminare l’ambizione dalla proposta UE. L’attivista svedese per il clima Greta Thunberg non è rimasta entusiasta. “Penso che questa sia una vittoria agrodolce. È assurdo che dobbiamo lottare per il minimo indispensabile. Ovviamente è positivo che la legge sia passata, ma ora è così indebolita e senza natura non c’è futuro.”
È assai probabile che il PPE non si fermerà alla legge sul ripristino della natura (Weber ha lasciato aperta la possibilità che il suo gruppo possa ancora tentare di vanificare la legge nei prossimi mesi mentre passa attraverso i negoziati con il Consiglio), ma prima delle elezioni del prossimo anno cercherà di sabotare altri elementi della legislazione chiave del Green Deal, come una legge per ridurre l’uso di pesticidi. Ma Timmermans ha affermato che i risultati delle votazioni sono stati una lezione per il PPE sul flirtare con l’estrema destra. “La mia sincera speranza è che l’esperienza di oggi dimostri che per il centrodestra essere al centro e lavorare con noi è politicamente migliore nel lungo periodo.”
La natura è in cattive condizioni in tutta l’Unione Europea: più del 60% dei suoi suoli sono malsani e oltre l’80% degli habitat in cattive condizioni (nella pianura Padana il 100%). Uno studio recente ha rilevato che il numero di uccelli nei terreni agricoli si è dimezzato negli ultimi 40 anni.
Ecosistemi sani danno un contributo essenziale alla sicurezza della produzione alimentare, alla protezione da eventi meteorologici estremi e alla riduzione delle emissioni. Ecco perché invertire il degrado della natura – come la deforestazione, l’impoverimento di materia organica nei suoli, la desertificazione o l’inquinamento idrico – è una parte importante della lotta al cambiamento climatico e alla perdita di biodiversità.
La legge sul ripristino della natura è il grande piano della Commissione per riparare le aree naturali danneggiate dell’UE. La proposta prevede il ripristino di almeno il 20% delle terre e dei mari degradati dell’UE entro il 2030 e di tutte le aree che necessitano di ripristino entro il 2050. Tra gli obiettivi prioritari c’è quello di proteggere torbiere, zone umide, praterie marine, ecosistemi con il maggior potenziale di rimozione e stoccaggio del carbonio. Infatti, almeno nella versione della Commissione, il regolamento stabilisce obiettivi a livello dell’UE per riabilitare alcuni ecosistemi, tra cui la riumidificazione del 30% delle torbiere prosciugate entro il 2030, per arrivare al 70% entro il 2050 (questi obiettivi sono stati completamente demoliti nel testo approvato dal Parlamento), il ripristino di 25.000 chilometri di fiumi a scorrimento libero entro il 2030 (rimuovendo ostacoli come dighe e altre barriere), la lotta al declino degli impollinatori e l’aumento degli spazi verdi nelle città (almeno il 10% di copertura arborea entro il 2050).
La Commissione afferma che è impossibile raggiungere l’obiettivo di neutralità climatica legalmente vincolante dell’UE entro il 2050, che si basa in parte sullo stoccaggio di CO2 nei suoli, nelle foreste e in altri pozzi di carbonio naturali, senza queste misure. Il regolamento ha anche lo scopo di sancire nel diritto dell’UE gli impegni assunti dal blocco al vertice sulla biodiversità COP15 dello scorso anno, che includono il ripristino del 30% delle aree degradate del mondo entro il 2030.
Cresce l’opposizione al Green Deal europeo mentre la catastrofe climatica ci avvolge
Agricoltori e pescatori affermano che la legge richiede troppo e non ha chiarito chi pagherà (ossia se ci saranno sussidi e incentivi economici). L’UE vuole che i pescatori decarbonizzino la flotta e proteggano l’ambiente utilizzando i finanziamenti esistenti, ha affermato Daniel Voces de Onaíndi, il capo del gruppo di lobby della pesca Europêche. “Vogliamo implementarlo in modo equo nell’UE, e non con un martello ambientale“. Il Copa Cogeca, la lobby agricola delle associazioni che rappresentano circa 22 milioni di agricoltori europei, ha elogiato le modifiche dell’ultimo minuto alla parte agricola della proposta, ma ha affermato che la legge è rimasta “fondamentalmente mal preparata, manca di un bilancio e rimarrà inapplicabile per agricoltori e proprietari di foreste“. Il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti ha affermato che: “Occorre imboccare una strada diversa da quella proposta dalla Commissione per una maggiore sostenibilità ambientale e una più rigorosa protezione delle risorse naturali”. Gli obiettivi “sono fuori discussione, ma non possono essere perseguiti secondo le indicazioni della Commissione basate su vincoli e divieti, senza considerare inoltre le differenze degli assetti produttivi a livello nazionale”.
Le preoccupazioni per la sicurezza energetica hanno rafforzato la causa delle energie rinnovabili lo scorso anno, ma l’aumento dei costi sta spingendo alcuni a chiedere un ritmo più lento sulla legislazione sul clima o a emulare l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti con i suoi sostanziosi sussidi piuttosto che aggiungere nuove regole. Mentre il PPE insiste che vuole ancora sostenere il Green Deal, il gruppo ha chiesto una “moratoria” sulla regolamentazione del clima e ha lanciato una campagna aggressiva contro diverse leggi ambientali. Diversi leader dell’UE, inclusi centristi come Emmanuel Macron, hanno raccolto l’appello del PPE per una “pausa” normativa. Tali appelli si sono intensificati in primavera, quando un partito di agricoltori (BBB) ha vinto le elezioni provinciali olandesi tra le proteste contro le nuove norme sulle emissioni (di azoto).
Pertanto, negli ultimi mesi si sono moltiplicate le difficoltà incontrate dalle misure introdotte (o che dovrebbero essere introdotte) nell’ambito del Green Deal, il piano che dovrebbe consentire all’Europa di raggiungere la neutralità climatica nel 2050. Dall’annacquamento del regolamento sul Ripristino degli ecosistemi, alle restrizioni previste dalla revisione della direttiva sulla qualità dell’aria contro cui si è schierato “il blocco padano”, nonostante l’Italia sia stata condannata dalla Corte Europea di Giustizia per il superamento dei limiti imposti dalla legge e abbia ancora una procedura di infrazione aperta, al tentativo, soprattutto da parte di Germania e Italia, di fermare il regolamento che impone il divieto alla vendita di veicoli nuovi a benzina e diesel dal 2035, con Berlino che è riuscita a strappare un accordo e far passare il via libera per i veicoli e-fuel, carburanti sintetici prodotti dall’anidride carbonica presente nell’atmosfera, alla revisione da parte del Parlamento della proposta di direttiva sulle emissioni industriali della Commissione (10 luglio), che stabilisce quali siano i criteri perché un impianto, allevamenti industriali compresi, debba essere ritenuto altamente inquinante e, quindi, rispettare obblighi e vincoli più stringenti, che ha affossato ogni obbligo e vincolo per gli allevamenti intensivi di bovini che non sono considerati industrie inquinanti, nonostante questi impianti siano responsabili di ingenti emissioni di ammoniaca, ossidi di azoto, metano e polveri sottili con il settore che produce il 24% delle emissioni globali, cioè più delle emissioni globali del settore dei trasporti (restano nel campo di applicazione della normativa solo gli allevamenti di suini con più di 2mila capi o 750 scrofe e quelli di pollame con più di 40mila capi, come già avveniva)1.
In sostanza, la politica europea mostra allarmanti segnali di deriva. Le conseguenze della pandemia, la guerra in Ucraina, la crisi energetica e lo spettro della recessione economica si stanno combinando per sottrarre slancio agli obiettivi net zero. In settori chiave per raggiungere la neutralità climatica, come i trasporti, gli stili di vita e l’agricoltura, i progressi sono troppo lenti. Di fatto, secondo il primo rapporto dell’Osservatorio europeo sulla neutralità climatica, valutando settori chiave come industria e mobilità, le misure fin qui adottate non sono sufficienti per raggiungere i target climatici.
Insomma, il percorso delle politiche ambientali europee rimane ancora molto accidentato ed incerto dal momento che le resistenze delle forze politiche conservatrici e delle lobby degli interessi economici consolidati rimangono molto forti e si dimostrano pronte a tentare colpi di mano non appena si presenta l’occasione. Dall’Austria all’Italia, dalla Svezia alla Spagna, dalla Finlandia alla Germania, dalla Danimarca all’Olanda l’estrema destra anti-cambiamento climatico, anti-immigrati, anti-LGBTQ+, anti-femminista, nazionalista, suprematista, razzista e anti-democratica sta guadagnando terreno (ed è già consolidata al potere con “democrazie illiberali” in Polonia, Ungheria e Paesi Baltici). La destra nazionalista radicale sta trasformando con successo l’agenda verde in un campo di battaglia per le sue guerre culturali. Se alle elezioni europee del 2024 vinceranno le forze politiche di centro-destra e di destra – dimostrando quanto siano compatibili le politiche neoliberiste e di austerità dei liberalconservatori con quelle di estrema destra – è assai probabile che il Green Deal verrà cestinato e la conversione ecologica europea tesa a ridurre le emissioni di gas serra il più rapidamente possibile subirà un deciso rallentamento se non un vero e proprio stop.
Il paradosso è che tutto questo sta avvenendo mentre il cambiamento climatico non è più un problema futuro. È qui e gli effetti sono ovunque. Condizioni meteorologiche sempre più estreme attanagliano il globo e imperversano ondate di caldo estremo e di inondazioni e incendi devastanti in tutto l’emisfero settentrionale, dall’America del Nord all’Europa e alla Cina (anche se le regioni in assoluto più colpite negativamente dai cambiamenti climatici sono quelle tropicali). L’Europa è il continente che si riscalda più rapidamente al mondo e ora l’Europa meridionale è investita da una seconda ondata di calore estremo in una settimana, con Italia, Balcani e Spagna, insieme a Marocco e altri Paesi del Mediterraneo, che battono i record di temperatura più calda.
La crisi climatica causata dall’uomo sta sovraccaricando le condizioni meteorologiche estreme in tutto il mondo, causando disastri più frequenti e più mortali, dalle ondate di calore alle inondazioni agli incendi. Lunedì, l’Organizzazione meteorologica mondiale ha dichiarato che il pianeta ha vissuto i giorni più caldi mai registrati nei primi giorni di luglio, dopo un giugno che è stato il più caldo mai registrato secondo l’Agenzia Spaziale Europea (ESA). Uno studio recentemente pubblicato su Nature Medicine ha affermato che più di 61.000 persone sono morte a causa delle ondate di caldo estive dello scorso anno in tutta Europa, con i più alti tassi di mortalità osservati in Italia, Grecia, Spagna e Portogallo.
Le temperature a Roma, che è piena di turisti, sono salite a 42-43°C. Ventitré città italiane, tra cui Roma, Torino, Firenze, Bologna, Bari, Cagliari, Catania e Palermo, sono state messe in “allerta rossa” dal ministero della salute, il che significa che il caldo è così intenso da rappresentare una minaccia per la salute dell’intera popolazione (non solo per bambini e anziani). Le temperature notturne rimangono sopra i 20°C, rendendo difficile il sonno delle persone. L’Italia è uno dei Paesi europei più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, con eventi meteorologici estremi negli ultimi 13 mesi responsabili di oltre 50 morti.
Luca Mercalli, presidente della Società meteorologica italiana, ha affermato che “non ci sono dubbi” che le ondate di caldo siano collegate al riscaldamento globale. “È molto più facile collegare un’ondata di caldo al riscaldamento globale rispetto, ad esempio, alle inondazioni“, ha aggiunto. “Le alluvioni hanno una componente legata al cambiamento climatico ma non sappiamo in che misura, quindi è più delicato dire che un alluvione è causata [dalla crisi climatica]. Invece sul caldo non ci sono dubbi, è il fenomeno più diretto che possiamo percepire.”
Gli eventi meteorologici estremi di oggi sono solo un’anteprima della sofferenza che attende l’umanità nei prossimi decenni, quasi indipendentemente dalla velocità con cui riusciremo a decarbonizzare l’economia quest’anno o il prossimo. Già quest’anno o il prossimo anno, affermano alcuni scienziati, le temperature globali potrebbero superare la soglia di 1,5° C stabilita dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). La perdita di vite umane, le migrazioni di massa, le perdite dei raccolti e l’aumento dei prezzi del cibo a causa di condizioni meteorologiche estreme sono già una nuova e cruda realtà. Il peggio deve quasi certamente venire.
È bene ricordare che sempre il 12 luglio il Senato italiano ha votato il ddl n. 693, “Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici e modifiche agli articoli 635 e 639 del codice penale”. Un testo proposto dal ministro Sangiuliano al quale l’esame in Commissione aveva aggiunto l’inasprimento delle pene per l’imbrattamento di “teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali”, attraverso una modifica all’art. 639 del codice penale: a queste ipotesi si applicherà la pena della reclusione da uno a sei mesi o della multa da 300 a 1.000 euro (attualmente è prevista una multa di 103 euro). È implicito che il provvedimento sia stato adottato per punire le manifestazioni degli attivisti per il clima, a cominciare da quelli di Ultima Generazione che protestano contro gli interessi delle global corporation dei combustibili fossili che emettono più gas serra, si fanno interpreti dell’urgenza del cambiamento necessario (“non c’è un pianeta B” e “non c’è un piano B”) e spingono, attraverso mobilitazioni, provocazioni e narrazioni, ad intervenire e adottare tutte le misure necessarie per salvare la vita umana, imboccando anche la strada della decrescita attraverso una trasformazione del sistema economico-produttivo e degli stili di vita, per passare dal consumismo ad una sobrietà che possa sostenere la riproduzione sia sociale sia naturale.
Le multinazionali dei fossili, le principali responsabili del riscaldamento globale, stanno facendo marcia indietro sui loro impegni climatici e raccolgono sempre più profitti record. Se banche, fondi d’investimento e compagnie d’assicurazione non verranno «indirizzati» dai poteri pubblici verso la conversione ecologica, continueranno a concedere denaro alle fonti fossili, alimentando così la crisi climatica. Lo dimostrano i dati relativi agli ultimi anni. Nel corso dei quali –nonostante i campanelli d’allarme della scienza – la finanza, imperterrita, ha continuato a pompare migliaia di miliardi nei settori di carbone, petrolio e gas. Il problema è anche che i poteri pubblici continuano a fare lo stesso. Uno studio pubblicato ad agosto 2022 da OCSE e IEA ha evidenziato che i fondi che sono stati concessi al settore fossile direttamente da 51 governi occidentali sono quasi raddoppiati nel 2021, raggiungendo i 697,2 miliardi di dollari. Una dinamica in palese e clamoroso contrasto rispetto agli impegni assunti e alle promesse avanzate da quegli stessi governi, a più riprese.
Gli enormi ritardi, le promesse non mantenute dei governi rendono l’inversione di rotta un compito titanico. Secondo l’agenzia ambientale dell’ONU (UNEP), l’unico modo per limitare gli impatti peggiori della crisi climatica è una «rapida trasformazione delle società». Servirebbero rivoluzioni incentrate su una «mentalità sottrattiva» razionale, conveniente e produttiva riferita ai vantaggi a breve termine e una frugalità dei consumi – dalla rinuncia totale del consumo di carne al drastico taglio dei voli aerei, dalla eliminazione delle auto private alla fine del consumo dei prodotti dell’agricoltura industriale – che avrebbero conseguenze pesanti su agricoltura, produzione industriale, turismo, commercio, migrazioni. Certo, sono cresciute la rabbia e la pressione dei giovani di tutto il mondo, mentre governi ed imprese hanno iniziato a prendere impegni più stringenti. Ma una «rapida trasformazione della società» sembra non poter avvenire in un mondo governato dal paradigma del capitalismo neoliberista, in cui il cosa produrre e il come e il costo dei vari beni (anche quelli essenziali alla vita delle persone) sono decisi soprattutto dalle speculazioni finanziarie.
Come ha ammonito papa Francesco nella sua enciclica del 2016, Laudato si’: «Un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare sia il grido della terra sia il grido dei poveri». Purtroppo, considerate le possibili evoluzioni dello scenario politico è assai improbabile che le classi dirigenti tradizionali europee sapranno ascoltare e che diventeranno realmente consapevoli che la sfida del cambiamento climatico ci deve spingere verso un’economia diversa che non eroda più le basi sociali ed ambientali della nostra vita.
Dopo così tanti rapporti dell’IPCC, comunicati dei vertici e dichiarazioni di intenti politici, l’idea che le ondate di caldo possano essere considerate un campanello d’allarme per i governi e le popolazioni europee sembra alquanto oziosa. Cerbero e Caronte, le ondate di caldo che prendono il nome dai mitici abitanti dell’Ade, ci ricordano che l’emergenza climatica non può essere messa in attesa mentre altre crisi (come la disastrosa guerra in Ucraina) vengono affrontate. L’Europa si sta riscaldando più velocemente di qualsiasi altro continente, ma la sua politica non tiene il passo. Il tempo sta davvero per scadere; i politici progressisti e di sinistra devono riscoprire il coraggio delle loro convinzioni e un senso di urgenza perché è ormai evidente che quelli delle forze politiche di centro-destra e di destra ci condannano ad una sostanziale inazione condita da tanta vuota retorica e molto greenwhasing.
Alessandro Scassellati
- La Commissione aveva proposto di estendere la direttiva ad allevamenti bovini di maggiori dimensioni, oltre che ad allevamenti suini, avicoli e altro bestiame con più di 150 “unità di bestiame” (UB), soglia oltre la quale gli allevamenti sarebbero stati definiti “industriali” e quindi sanzionati dalla direttiva. La posizione del Consiglio prevede l’innalzamento della soglia per l’allevamento industriale a 350 UBA per suini e bovini e a 280 UBA per il pollame, un approccio più vicino alla proposta della Commissione, anche se annacqua il testo e riconsidera le ambizioni iniziali.[↩]
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Sono d’accordo, Condivido, ma articolo troppo lungo da leggere su fb