Vista la situazione generale sempre più preoccupante, su “Intersezioni femministe” di oggi pubblichiamo una riflessione su “femminismo e guerra” che prende lo spunto da un articolo di Renata Pepicelli, “Non il genere femminile, ma il femminismo è contro la guerra” pubblicato su il manifesto del marzo 2022.
Da femminista contro la guerra: riflessioni sul tema
Soffiano venti di guerra. Sempre più insistenti, sempre più potenti.
Non è il caso di sottolineare ulteriormente quanto siano preoccupanti le dichiarazioni di Ursula von der Leyen sulla possibilità di una guerra in Europa (non imminente dice la Presidente della Commissione Europea, ma neppure impossibile) o quelle di Macron che propone l’invio di soldati in Ucraina (oltre alle enormi risorse economiche stanziate dalla UE e dagli Stati membri per sostenere lo sforzo bellico del Paese).
Dichiarazioni e proposte che sono speculari a quelle di Putin, che non pago di aver causato la guerra invadendo l’Ucraina, tende ad alzare costantemente il livello dello scontro.
Così come preoccupante è la situazione in Medio-oriente con il genocidio della popolazione palestinese di Gaza ad opera del governo israeliano a cui nessuno vuole fermare la mano.
Situazione che ora è resa più inquietante dalla risposta iraniana al raid del governo israeliano su Damasco.
La guerra dunque, dentro i conflitti intercapitalisti volti a ridisegnare poteri e supremazie mondiali, torna a divenire prepotentemente un mezzo di risoluzione dei conflitti, forse addirittura l’unico come taluni auspicherebbero.
Non solo, essa diviene paradigma delle relazioni sociali e fondamento di scelte economiche volte a privilegiare la produzione, l’acquisto e la vendita di armamenti. L’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) rivela che la spesa militare mondiale è aumentata del 3,7 per cento in termini reali (al netto dell’inflazione) nel 2022, raggiungendo i 2.240 miliardi di dollari, un nuovo massimo storico.
Il governo di italica stirpe, per non essere da meno, nel Patto di stabilità ha escluso gli investimenti per la difesa dal calcolo dal rapporto fra deficit e Pil. Ogni commento è superfluo.
Dentro questo scenario così complesso c’è un elemento che trovo fastidioso, benchè abbia una valenza più simbolica che materiale.
Di nuovo e contro ogni evidenza storica, sento sostenere da più parti, anche in ambienti a me vicini, che le sole che possono cambiare il corso delle cose sono le donne perché intrinsecamente contro la guerra. Un’affermazione quantomeno bizzarra in un frangente storico nel quale molte donne al potere sostengono il contrario.
Nel ragionare fra me e me sulla questione mi sono imbattuta in un un ottimo articolo di Renata Pepicelli, ricercatrice e docente in Storia dei paesi islamici e islamisti presso l’Università di Pisa, pubblicato su il manifesto di due anni fa.
Un articolo che affronta la questione in un modo nel quale mi riconosco.
Nell’articolo Pepicelli scriveva: “Mi sembra che ci siano diversi esempi a noi vicini che vanno infatti in altra direzione (quella di dimostrare che le donne non siano, per natura, contro la guerra, ndr). Si pensi all’atteggiamento muscolare della vicepresidente dell’Ucraina, Iryna Vereshchuk, che ha mostrato un’inflessibile volontà di continuare il conflitto, così come alle molte donne che in Russia – in opposizione alle tante voci femminili e femministe russe dissidenti – sostengono la necessità e la giustezza del conflitto armato. Marta Serafini su Il Corriere della Sera del 21 marzo (del 2022 ndr) pubblicava un’intervista con il caporale della legione straniera in Ucraina: secondo Damien Magru il 3% dei cosiddetti foreign fighters arrivati nel paese per combattere contro la Russia sarebbero donne.
Nella storia contemporanea donne di potere come Golda Meir, Margaret Thatcher, Condoleeza Rice, Hillary Clinton hanno sostenuto la necessità della guerra e della sua violenza.
Negli ultimi anni i movimenti conservatori in Europa hanno saputo esprimere una leadership femminile (si vedano figure come quelle di Marine Le Pen o Giorgia Meloni) che hanno sposato politiche a favore degli interventi armati e ferree logiche della contrapposizione noi/loro.”
Opportunamente, il ragionamento di Renata Pepicelli fa un’ulteriore specificazione sostenendo che “le donne non necessariamente rifiutano la violenza e la lotta armata in quanto elementi per combattere l’ingiustizia, la sopraffazione, la violenza. La storia è piena di donne che hanno partecipato a movimenti di resistenza e di liberazione. Dall’Europa al Nord Africa al Medio Oriente passando per le Americhe e l’Africa subsahariana abbiamo esempi di donne che hanno abbracciato la lotta armata come forma di resistenza antifascista, anticoloniale, antirazzista.”
Ergo, non è tanto l’essere donna dal punto di vista biologico che fa rifiutare la guerra. Semmai è la posizione che si occupa nella società e lo sguardo con cui si osserva, si analizza e si percepisce la realtà. Parafrasando una canzone di qualche anno fa, “tutto dipende da quale parte si guarda il mondo.”
Proprio per questo è più corretto affermare che è il femminismo ad essere contro la guerra, non il genere femminile.
Perché, come scrive Lea Melandri, è proprio il femminismo che, nella sua intuizione più radicale, ha saputo svelare e contrastare la violenza maschile in quanto espressione di un dominio che deve il suo radicamento e la sua durata alla colonizzazione del pensiero, oltre che del corpo, delle donne. Un dominio che è uno dei paradigmi delle relazioni sociali e quindi del modello di società che contempla il ricorso alla guerra come modalità di risoluzione dei conflitti.
Eppure sul contrasto al bellicismo anche l’elaborazione femminista,come intreccio di pensieri e pratiche ai margini del potere, non è scevra di contraddizioni.
Sottolinea, infatti, Pepicelli “c’è anche un certo tipo di femminismo, quello che Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser nel libro Il femminismo per il 99%. Un manifesto (Laterza, 2019), chiamerebbero ‘il femminismo dell’1%’, che è parte delle pratiche di potere e ne condivide le idee, anche quelle che sostengono la necessità della guerra.”
Nella rubrica “Intersezioni femministe” abbiamo pubblicato materiali sul “femminismo nero” che sottolineano quanto siano ineludibile, per un femminismo del 99% che vuole rivolgersi a tutte le donne specie quelle impoverite e/o razzializzate, uno sguardo e una pratica intersezionale.
Come sta facendo l’attuale ondata femminista e transfemminista di “non una di meno” quasi in continuità, potrei dire, con il “black feminism”.
A questo proposito Renata Pepicelli nel suo articolo ricorda che “In Il femminismo è per tutti Bell Hooks afferma un concetto analogo quando dice: ‘Le donne bianche riformiste dotate di un privilegio di classe erano fin dall’inizio ben consapevoli che il potere e la libertà che volevano erano il potere e la libertà di cui vedevano godere gli uomini della loro classe’ (Tamu, 2021, p. 85).”
Tutto ciò detto, mi pare che si possa affermare, in sintonia con l’articolo citato, che sostenere o contrastare il ricorso alla guerra ha “a che vedere con l’esercizio del potere e con il proprio posizionamento nella società”. Posizionamento che è il frutto di un intreccio dinamico e costante fra classe, genere, “razza”. Non sono tanto le donne, genericamente intese, ad opporsi alla guerra quanto le pratiche femministe intersezionali, spesso complesse, ma ineludibili, per tutte e tutti.
Nicoletta Pirotta
Per leggere l’articolo di Renata Pepicelli:
Non il genere femminile, ma il femminismo è contro la guerra | il manifesto
2 Commenti. Nuovo commento
Brava Nicoletta, anche io ho più volte citato questo articolo di Renata; illuminante contro le banalizzazioni ancora purtroppo presenti del rappresentare il rapporto donne-guerra
Grazie Pasqualina, il tuo commento mi fa molto piacere.