intersezioni femministe

Femminismo islamico

di P. Guazzo,
N. Pirotta

Nell’odierno numero della rubrica “Intersezioni femministe” pubblichiamo alcuni testi che ragionano su un argomento particolarmente complesso: il “femminismo islamico”.
A molte e molti, occidentali e non, il binomio “femminismo islamico” sembra un vero e proprio ossimoro, termini inconciliabili che presuppongono mondi e contesti per i quali non è pensabile una dimensione unica. Forse anche una trappola o un’impostura che in ultima istanza consente il consolidamento dei regimi teocratici.
Per altre ed altri invece è una dato di realtà non perché esista in sé un femminismo islamico ma perché vi sono donne islamiche, specie se giovani, che dichiarano apertamente di  essere femministe. Un’affermazione che nasce in risposta ai codici di una legge, la sharia, fortemente patriarcale volta a relegare la donna in un cono d’ombra sotto la dominazione maschile, ma che si sostanzia anche nell’opposizione all’occidentalizzazione di valori e diritti. Un occidente vissuto, comprensibilmente, come colonizzatore. Non a caso le attiviste che lottano per i diritti delle donne nel mondo islamico ritengono che le occidentali fatichino a comprendere ed accettare forme di ribellione o emancipazione diverse da quelle che hanno segnato la storia emancipativa  delle donne in occidente.

Quel che è certo è che tutto il mondo islamico visto con occhi occidentali suscita domande, perplessità, dubbi, timori e persino paure. Probabilmente ciò è dovuto in gran parte ad una narrazione mediatica che fa di tutta l’erba un fascio e non rappresenta la complessa realtà dei paesi di religione musulmana (che non sono solo arabi).
Dentro questa complessità la condizione della donna si presenta molto differenziata specie per quanto riguarda i livelli di scolarizzazione, di occupazione e di partecipazione alla sfera pubblica. Differenze che trovano spiegazione nello specifico contesto storico, politico, sociale, legislativo e religioso delle singole realtà nazionali.

Nonostante le insidie che il tema porta con sé ci è sembrato che valesse la pena inserirlo fra i temi della rubrica che abbiamo voluto chiamare  “intersezioni femministe” proprio per dare conto delle tante tendenze, posizioni, storie, pratiche che segnano e caratterizzano il femminismo nel suo divenire.
Inoltre abbiamo voluto pubblicare testi sul tema del “femminismo islamico” nel numero che precede il 25 aprile, cioè la giornata in cui nel nostro Paese si festeggia la liberazione dal regime tirannico e dispotico del fascismo, perché ci sembrava utile ricordare l’esistenza di altre resistenze e lotte di liberazione che, in tempi e modi differenti, ancora si stanno caparbiamente compiendo. In particolare quelle che riguardano le donne i cui percorsi di liberazione sono ancora ben lungi dall’essersi compiuti, non solo nei paesi di religione musulmana.

Abbiamo scelto di pubblicare i link a due interviste a due intellettuali femministe1, profonde conoscitrici del mondo islamico, non solo arabo, che esprimono posizioni in parte differenti,  per dare conto della complessità della questione e stimolare ulteriori approfondimenti.
Dell’intervista rilasciata da Chala Chafiq a Charlie Hebdo, per completezza, pubblichiamo di seguito la traduzione in italiano a cura di Nicoletta Pirotta per transform!italia.

Storia ed evoluzione del femminismo islamico: Intervista a Renata Pepicelli – Intersezionale
La condizione delle donne nell’Afghanistan dei Talebani: intervista a Renata Pepicelli – Scienza & Pace Magazine (unipi.it)
charliehebdo.fr/2011/04/societe/feminisme/chahla-chafiq-le-feminisme-islamique-est-une-invention-occidentale/
Donne, Iran e islamismo: l’analisi di Chala Chafiq – Transform! Italia (transform-italia.it)

Le curatrici

Il femminismo islamico è un’invenzione occidentale. Intervista di Charlie Hebdo a Chala Chafiq
(Traduzione dal francese di Nicoletta Pirotta)

Chala Chafiq è arrivata in Italia nel 1981, dopo due anni di lotta clandestina contro il regime degli ayatollah in Iran. Scrittrice e sociologa, lavora sull’islamismo e sui rapporti sociali fra sessi. Il suo ultimo libro Islam politique, sexe e genre è stato inserito fra i testi universitari francesi.

Esiste in Iran un movimento femminista strutturato?

Chala Chafiq: L’Iran è fra i paesi detti “musulmani” – ho un problema ad usare queste etichette identitarie- quello che occupa un posto particolare per quanto concerne i movimenti delle donne. Si può dire che il movimento femminista si è palesato nella società iraniana all’inizio del XX secolo. Molto prima della rivoluzione islamica vi è stata una rivoluzione democratica che ha prodotto una Costituzione che si è opposta al dispotismo monarchico propendendo nettamente per la democrazia. In seguito vi è stata la dittatura della dinastia Pahlavi che ha curato le istituzioni svuotandole al contempo del loro significato. È quel che io chiamo la “modernità mutilata”: si accetta che le istituzioni si modernizzino, che l’industrializzazione del Paese si diffonda ma non si accetta la modernità politica e ciò che essa comporta in termini di autonomia personale e collettiva. È la stessa cosa con gli islamisti: essi utilizzano tutti gli strumenti della modernità – la tecnica, l’atomo, le scienze…- ma quando si parla di autonomia personale, che è il cuore della democrazia, la risposta e “no”.

Che ruolo hanno giocato le donne nella rivoluzione del 1979?

L’Iran ha avuto la sfortuna di avere avuto una rivoluzione islamica dopo quella costituzionale. L’arrivo degli islamisti è avvenuta con la complicità della sinistra, tanto quella di matrice marxista che quella terzomondista, che hanno considerato le infrastrutture democratiche come espressioni borghesi ed imperialiste. Si è dunque sviluppata, all’interno della società iraniana, ciò che io chiamo l'”utopia islamista”: l’islamismo come utopia sociale. Questo pensiero islamista, si è voluto considerare rivoluzionario cioè come un’alternativa sia alla democrazia “occidentale” sia al modello comunista. Non sono stati Khomeyni e i tradizionalisti islamici, contrariamente a quanto si crede, ad essere le avanguardie ma il pensiero islamista moderato. E ciò ha incancrenito la situazione. A quel tempo, fra l’intellettualità, le donne sono state molto presenti. Mi ricordo bene, allora ero una studente di sinistra, di aver visto crescere poco alla volta, all’interno delle manifestazioni, militanti islamisti che ci venivano a dire: “sorelle perché non vi separate dagli uomini quando manifestate, perché non portate il velo?” Si pensava, sottovalutando questo fatto, che era un periodo così e che tanto non avrebbero vinto… Ed invece è avvenuto esattamente il contrario. A differenza della dittatura dello shah, quando il terrore serviva a tacitare l’opposizione, il terrore è diventato il centro e la misura del potere. Un terrore contro la formazione collettiva ed individuale per creare una società islamica. E le donne divennero il centro di questo progetto.

In che modo?

La particolarità del totalitarismo islamico è la repressione sessista, che consente la repressione generalizzata. Con la gerarchizzazione sessista dei rapporti sociali si sottomettono le donne per sottomettere la società intera. L’obbligo di portare il velo e il costante controllo nelle strade e nella vita pubblica hanno consentito di perseguire le donne che non rispettano questo obbligo, cioè la “legge”, ma al tempo stesso hanno consentito di sottomettere tutta la società. Si è costruito un sistema poliziesco che ruota intorno alla sessualità delle donne e ai rapporti fra uomini e donne. All’epoca, il 30% delle donne frequentava l’università. Evidentemente lo sviluppo non era stato omogeneo, la situazione nelle città e nei paesi era ben differente. Ma, nello spazio urbano, le donne avevano oltrepassato l’appartenenza di genere. La strategia degli islamisti fu quella di appellarsi alle donne di Hezbollah – alle donne, cioè, del “partito di Dio” -per mobilitarle nella costruzione della società. Poiché questa costruzione si sarebbe dovuta fare attraverso la repressione di altre donne ci furono quelle che rifiutarono il modello islamista. Le donne furono le prime, al di fuori del popolo Kurdo, a ribellarsi e ad opporsi al regime. L’obbligo del velo nei posti di lavoro, emanato il mese successivo alla presa del potere, ha fatto scendere in piazza migliaia di donne l’8 marzo 1979.
L’iniziativa del “velo cattivo” – messo di traverso o non completamente per fare uscire ciocche di capelli – è cominciata fin da subito. È divenuto la prima forma di opposizione politica ed oggi è ancora così.

Le donne di Hezbollah hanno partecipato alla repressione senza alcun imbarazzo?

Possiamo dire che, poco alla volta, hanno cominciato a dirsi che vi erano aspetti della charia che non condividevano, come per esempio la poligamia, il ripudio, ecc.
Queste donne islamiste si opposero alle leggi che le reprimevano in quanto donne.
Inoltre, la parte laica e secolarizzata della società, sostenuta dall’intellettualità, non ha mai smesso di esprimersi, in modo non diretto, per esempio attraverso la traduzione di libri e testi stranieri.
Alcune donne laiche e alcune femministe hanno approfittato di questo stratagemma contro il regime da parte delle donne islamiste, per scrivere articoli sui loro giornali. E poco alla volta questi giornali hanno cambiato tono. Cosa che ha fatto sì che all’esterno del Paese alcuni esuli e ricercatori occidentali hanno cominciato a diffondere un concetto aberrante: il femminismo islamico. Un femminismo cioè che cerca una via all’interno dell’islam. Mentre queste donne volevano ottenere soltanto una riforma della charia. Esse non si consideravano affatto femministe. Anzi assimilavano il femminismo all’imperialismo occidentale.

Ma dunque il femminismo islamico è una pura invenzione occidentale?

Si, un’invenzione dettata certamente da buona volontà da parte di chi, in buona fede, ha intravisto un femminismo anticoloniale. Ma è un’etichetta identitaria che imprigiona l’idea di universalismo. Così come la “democrazia islamica” o i “diritti dell’uomo islamico”. A quel tempo non avevo immaginato che questo concetto avrebbe contaminato la società francese come al contrario è stato… Ma in Iran si è visto subito l’impatto di questo “femminismo”. Il governo, considerandosi come l’emanazione di Dio, si è completamente fottuto delle rivendicazione delle donne. A quelle che chiedevano una riforma della charia ha risposto “chi siete voi per contestare la parola di Dio? La legge islamica è una legge divina, dunque tacete!”. Parole che hanno fatto sì che una grande parte di donne islamiste ha preso le distanze dal regime, alcune di loro sono addirittura divenute laiche… Intendiamoci vi sono ancora molte donne che stanno dalla parte del regime, sia perché sono direttamente legate al potere, sia per i vantaggi materiali che ne traggono.

Si può dire che le donne, oggi, costituiscono la prima forza di opposizione al regime?

Sì, in larga parte, in ogni caso nei centri urbani le donne sono fra coloro che danno vita alle manifestazioni attuali. Esse sono molto presenti. Ed oggi c’è davvero un femminismo vero. L’espressione “secondo sesso” è molta diffusa nei blogs, nelle riunioni… C’è un innamoramento, anche fra gli uomini, per questo tipo di pensiero egualitario che tende all’universalismo. Nel 2006 una petizione che si intitolava “Cambiamento per l’eguaglianza” lanciata da giovani femministe ha raccolto milioni di firme. L’idea era che, avendo l’Iran sottoscritto le convenzioni internazionali per i diritti delle donne e non avendo ancora ritirato la firma, si sarebbero dovuti rispettare i contenuti di tali convenzioni e cancellare ogni discriminazione sessista. Evidentemente, il movimento è stato duramente represso e molte donne sono finite in prigione. L’ufficio dei Pasdaran ha dichiarato che il femminismo è il “demonio sociale”.
Ora si sta entrando in un’altra fase nella quale la parola d’ordine è: sbarazziamoci dell’interno sistema. E la condizione delle donne è al centro di questa lotta per la democrazia. Perché il regime islamita ha certamente lusingato gli uomini dando loro ogni potere sulle donne ma al contempo li ha privati di qualsiasi diritto di cittadinanza. Dunque, i più emancipati, i più intelligenti, i più istruiti fra loro stanno comprendendo che questo sistema patriarcale è una prigione dorata.
Essi non hanno alcun potere sociale e politico, il solo potere loro consegnato è il potere di dominare le donne. Esso sono i capi famiglia assoluti ma non possono avere potere al di fuori di quella. Non resta loro niente altro che la frustrazione accumulata. E sempre più le donne resistono….

Si può dunque dire che gli attivisti iraniani democratici considerano il femminismo come una delle vie verso la democrazia?

Possiamo dire che i veri attivisti per la democrazia hanno ben assimilato il femminismo. C’è una forte presa di coscienza da parte della società civile e degli studenti della centralità delle questioni che riguardano i diritti delle donne. Ciò è acquisito. Ma se noi parliamo dei riformisti islamici che sono stati spinti all’opposizione e che lavorano per la caduta del regime, non credo che essi siano sulla stessa lunghezza d’onda. Quello che è certo è che fra i giovani, la parola “femminismo”non fa più paura. Si sta cominciando ad avere un vero confronto sulle scelte sessuali. E più marginalmente, anche sull’omosessualità. Ma per chi è omosessualità la realtà è difficile… Cominciano ad uscire dall’ombra ma il loro orientamento sessuale resta un tabù…

Forse è perché al di là del regime c’entra anche la società. Nel giugno del 2008 in un articolo comparsa su “Liberation” (quotidiano francese, ndr) intitolato “Il corpo delle donne, luoghi comuni” avete citato una frase che vostro padre, ginecologo, vi aveva detto nel 1968 ” Vedi, figlia mia, essere donna in questo paese non è un buon affare”. Eppure in quel tempo gli ayatollah erano ben lontani.

C’è un problema culturale ma anche politico. Al tempo dello shah quella modernità mutilata, di cui ho parlato poco fa, aveva come conseguenza che, anche quando il regime faceva qualcosa a favore delle donne, ciò restava dietro le quinte perché si aveva paura della reazione del “popolo”. L’assenza di democrazia è anche questo: si possono anche attuare delle riforme ma se non sono accompagnate da pratiche pedagogiche, da percorsi di educazione popolare, da una corretta informazione, esse finiscono per restare lettera morta. Il programma sulla contraccezione, per esempio, è stato un disastro totale, A quel tempo frequentavo la scuola pubblica dove si imparavano molte cose ma il tema dell’educazione sessuale, per esempio, rappresentava ancora un tabù poiché il regime non voleva contrastare tradizioni consolidate. Poiché la moderna classe media non aveva alcuno spazio nei luoghi del potere, tutto avveniva senza mediazione fra il despota e il popolo. Popolo che, secondo lui, era necessario proteggere.

Nel medesimo articolo avete scritto: “Il corpo delle donne nel sistema patriarcale, perde ogni sua particolarità per non divenire altro che un luogo comune: l’onore di un gruppo”.

È esattamente così. È l’onore del gruppo ad essere protetto in tutti i sistemi. La verginità è un tabù che attraversa tutte le classi sociali, non solamente quelle più popolari. Ed è ancora così, perché alla situazione che esisteva all’epoca dello shah vanno aggiunti trent’anni di propaganda religiosa e misogina. Nei contesti socialmente ed economicamente arretrati i delitti d’onore esistono ancora, sono quasi un’affermazione identitaria. Nel Kurdistan, per esempio, prima dell’arrivo al potere degli islamisti, le circoncisioni sono enormemente aumentate e come al solito le vittime sono state le donne.

Che posizione avete sul dibattito in Francia riguardo al velo e al burqa?

Io penso che il dibattito sia falsato. Prima di tutto io faccio una distinzione fra velo e burqa. Il dibattito sul velo è, io penso, un braccio di ferro fra islamisti e laici e questo fatto è stato mal interpretato nei quartieri. Successivamente il dibattito è velocemente divenuto astratto, disquisendo sul senso del velo, sulla dimensione identitaria, e, soprattutto, sulla tipologia del velo: il velo attuale non è quello tradizionale, è una scelta che le giovani donne fanno… Può essere. Ma non ci si è interrogati sul contenuto e sulle conseguenze di questa scelta. Che le donne facciano qualcosa da sé non significa necessariamente che facciamo qualcosa di buono per tutte le altre donne. Siamo nella stessa situazione, o quasi, del “femminismo islamico”: in Iran alcune donne hanno deciso di fare parte di Hezbollah, questo non significa che questo sia un bene per tutte le iraniane o per la società. Questa ovvietà è assolutamente assente dal dibattito. C’è al contempo una mitizzazione e una mistificazione del concetto di “scelta”. Nella nostra società individualista si parla spesso di autonomia e spesso si pensa che l’autonomia si riduca al potere di scelta. Ora, quando si va al supermercato e si riempie il carrello di prodotti di marca li si è scelti ma dov’è il nesso con l’autonomia? La burqa è una scelta, effettivamente: la giovane donna va in televisione. si è convertita – come un terzo di chi porta la burqa in Francia- ma questo non vuol dire che la sua scelta sia una scelta consapevole, socialmente vantaggiosa. Qui la libertà è interpretata come una libertà piuttosto strana. Torniamo al supermercato, dove ognuno è libero di scegliere una marca, e il burqa è una marca…

Non c’è anche un problema di essenzializzazione?

Assolutamente. Un giorno ero a un seminario con un sociologo che aveva fatto cinquanta interviste a ragazze velate. E, da queste interviste, ha dedotto che le ragazze velate erano “le migliori” in classe, in famiglia, in questo, in quello… Gli ho chiesto: ti verrebbe in mente di interrogare cinquanta donne contrarie alla contraccezione, il diritto all’aborto o all’abolizione della pena di morte? Ce ne sono però, e sicuramente più di cinquanta. Perché non fai questo tipo di studio basato su questo tipo di argomenti? Perché, quando si tratta di donne musulmane, ti permetti di fare questo? E poi, perché dici che sono “le migliori”? Non esiste forse per caso una fantasia maschile della donna ideale, che si esprime, che è intelligente, ma allo stesso tempo vergine, fedele? Lui mi ha detto: no, non credo… Ma penso al contrario che ci sia effettivamente una fantasia maschile nell’immagine della donna velata. Ho visto anche che gli artisti avevano messo in risalto l’aspetto erotico del velo. Può esserlo, sì, ma non quando viene imposto come simbolo di purezza. Non si tratta di un gioco erotico, parliamo di un destino e di un simbolo imposto come contrassegno della sessualità femminile! Attraverso il velo ti dichiari per prima cosa socialmente femminile. E dopo non si esce più da questo quadro: non devi camminare così, non ridere così, non comportarti così…

Come affrontare, allora, la questione del velo nei quartieri?

Penso che, finché non si lavorerà sui meccanismi che fanno sì che questo tipo di “scelte” siano privilegiate, non si otterrà nulla. Ma nei quartieri, associazioni e attori sociali non hanno mezzi per lavorare sull’autonomia, sulle libertà sessuali, per instaurare un dibattito contro i discorsi dei predicatori e i messaggi trasmessi dalle antenne paraboliche. La democrazia è questa, non si tratta solo di fare leggi per proibire questa o quella cosa. Non basta dire: sarai laico. Quando vai nei quartieri e vedi che la parola “femminismo” è bandita dagli stessi francesi, dai direttori dei centri sociali, che dicono “non è per noi, non è per il nostro pubblico”, è preoccupante… E va anche oltre i quartieri poveri. Nei luoghi più acculturati circolano idee sul femminismo – e sugli omosessuali – che in Francia sono bizzarre… Tuttavia, la questione del femminismo è al centro della democrazia, perché tocca sia l’intimo che l’universale. Dobbiamo lavorare su noi stessi e sugli altri. Identificare il femminismo con le donne è un errore, dobbiamo rendercene conto. E,paradossalmente, penso che in Iran oggi ci siamo. Più che in Francia…
Per me è una gioia vedere cosa succede in Tunisia ed Egitto, perché mi dico: uffa. Ora, a questi ragazzi e ragazze che dicono “non è per noi”, possiamo rispondere: sì, vedete, la realtà è che è per tutti.

  1. Renata Pepicelli, ricercatrice e docente in Storia dei paesi islamici e islamisti presso l’Università di Pisa. La sua ricerca si concentra sul mondo arabo-islamico contemporaneo, e in particolare le questioni di che riguardano le donne, le relazioni tra le due rive del Mediterraneo, e i fenomeni migratori; Chala Chafiq, scrittrice e sociologa iraniana. Attivista di sinistra, nel 1983 abbandona il suo paese per sfuggire alle persecuzioni dal regime di Khomeini. Vive in esilio in Francia, dove ha pubblicato diversi saggi con lo pseudonimo Chahla Chafiq per denunciare l’islamismo ed il potere degli ayatollah in Iran.[]
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