Mi è capitato spesso di difendere il movimento dagli “intellettuali di sinistra” che appena convintisi e convinti che il Tav è “moderno” e va più veloce e quindi è “progresso”, subito sposano la causa e si sorprendono delle mie posizioni. Ma io non considero “moderno” e “progressista” necessariamente cose giuste e -quanto alla velocità- sono per rallentare molti ritmi di vita, quasi tutti i ritmi di lavoro, certo i ritmi di apprendimento…
(Lidia Menapace a un’assemblea del movimento anti TAV, 2012)
un anticapitalismo efficace deve essere un rivale del Capitale, non una reazione a esso
(Alain Badiou, riletto da Mark Fisher)
Lo Stato non può essere che l’insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. È questa la sola forma statale che possa avviare a soluzione contemporanea i tre aspetti interdipendenti del problema meridionale; che possa permettere la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l’una opprima l’altra, né l’altra gravi sull’una; che consenta, nei limiti del possibile, le condizioni migliori per liberarsi della miseria; e che infine, attraverso l’abolizione di ogni potere e funzione sia dei grandi proprietari che della piccola borghesia locale, consenta al popolo contadino di vivere, per sé e per tutti. Ma l’autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l’autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città, di tutte le forme di vita sociale.
(Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli
Un nuovo paradigma politico e sociale deve imporsi, in una formazione di classe, anzi di classi subalterne, nell’affrontare la questione del Mezzogiorno. Esso deve aggiornare il linguaggio, gli strumenti e gli obbiettivi; individuare la nuova composizione di classe, precisarla e perfezionarla con lo sguardo dell’inchiesta; muoversi in direzione ostinata e contraria non solo rispetto al pensiero e alla brutale prassi capitalistica (e se si vuole capitalistico-mafiosa), ma anche rispetto agli automatismi intellettuali, ai riflessi pavloviani che una lunga tradizione ha imposto al pensiero (ma dovremmo dire meglio: soprattutto alla prassi) dei partiti e delle organizzazioni politiche che si rifanno movimento operaio: e qui il lavoro è semplificato, poiché oggi il quadro di tali organizzazioni è tutto da riempire. Le citazioni poste in epigrafe vanno tutte nella medesima direzione, se si guarda bene. Il conflitto come cultura politica da praticare e diffondere, la “lentezza” come strategia< non sono in contrapposizione: al contrario, e in particolare per il Mezzogiorno d’Italia, per tutti i “mezzogiorno” mondiali, sono l’unica sintesi possibile di un’azione di costruzione politico-sociale che potremo chiamare “rivoluzionaria” .
Per dirla in sintesi: alle lotte diffuse (per tutto quello che sappiamo e abbiamo fatto) e all’organizzazione vanno affiancate rinnovate forme di socialità, nuove-vecchie culture gregarie (ossia aggreganti e “di vicinato” e fondate sui diritti e non sul cosiddetto “merito”; occorrerà ritornare su questo concetto), proposta e pratica di modelli di vita conflittuale che, per riprendere la frase di Badiou, si pongano in alternativa e in posizione di sfida e rivalità col piano del capitale e con la sua cultura; che, per riprendere stavolta le belle frasi di Lidia Menapace, ripropongano una pratica della vita come rallentamento dei ritmi e come approfondimento delle relazioni e del legame fra gruppi umani, in radicale opposizione all’atomizzazione individualistica e alla idolatria per il “progresso” e la velocità; e infine, per riprendere Carlo Levi (e assumendo nel suo senso storico il richiamo ai “contadini” e al Comune rurale: ossia in quello di iniziativa dal basso), che vivano l’autonomia, ossia la differenza e la compresenza di mondi e modi di vita, del presente e del passato, che debbono convivere e innestarsi gli uni negli altri (tanto più, oggi, in una prospettiva euromediterranea). Si tratta di posizioni che vanno nella direzione opposta a quella auspicata a suo tempo da Giuseppe Conte, all’indomani della “vittoria” nella lunga e estenuante trattativa europea del luglio 2020, quando fu varata il miracoloso progetto «Next Generatio EU», altrimenti noto come Recovery Fund e diventato in Italia (defenestrato Conte con una congiura di palazzo i cui contorni e le cui logiche ci sembrano oggi ben più chiari di ieri) il PNRR, draghiano e turboliberista: che è, lo sappiamo ma non dimentichiamolo, il nostro primo nemico. Certo, innanzi tutto le lotte. Esse sono una necessaria e spesso indifferibile risposta a ogni attacco ai diritti, alla dignità, alla salute e al benessere collettivo. Ma vogliamo pensare a selezionare qualche campo in cui le lotte non siano solo una risposta, ma anche un germe di progetto? In cui l’inchiesta sia conoscenza e azione, ridisegno del campo del conflitto e momento di aggregazione? Le une e l’altra fondazione di casematte? In breve, a titolo di esempio: combattere i licenziamenti, ma anche proporre e praticare modi produttivi diversi e differenti, che producano modi di vita diversi e differenti, o che da questi risultino.
Per queste ragioni occorre costruire, pezzo a pezzo, ma con unità di visione, una rinnovata socialità e una nuova cultura politica, fondata non solo sul conflitto (chi lo metterebbe in discussione, fra noi?) ma anche sulla sua connessione con la “lentezza”: che non vuol dire arrivare tardi o essere inefficienti, ma camminare tutti assieme e rifiutare la logica della performance, del primeggiare e del merito, dell’accumulare e consumare e del combattere le culture che ne derivano e che, al tempo stesso, ne fondano le logiche. E, per cominciare, a) superare l’idea di una monoliticità della “classe” che deriva dalla tradizione fondata sull’operaismo, riconoscere, prima ancora che le mille differenze spesso proposte assunte e propagandate surrettiziamente (fino all’individualismo sfrenato e alla stessa scomposizione dell’individuo in istanze contraddittorie), le varie composizioni di classe, la pluralità dei proletariati, le molteplici – vecchie e nuove – forme di sfruttamento subalternità e spossessamento che la storia di varie fasi del capitalismo ci ha consegnato in molteplici ondate di pauperizzazione (ne cito alcune, fra le più note: le enclosures nel primo Cinquecento, le migrazioni interne agli stati all’indomani della Guerra dei Trent’anni, nel 1648, la poor law del 1834) e che la cronaca di oggi, che si fa a sua volta storia, continua a proporci in forme apparentemente nuove; e, b) sforzarsi di non limitare le nostre iniziative a una reazione a quel che il potere propone o progetta o suggerisce, ma ricercare, mettere in evidenza, praticare, ri-usare esperienze di vita e socialità distrutte o rimosse, e quelle ancora di là da venire, ma pensabili: utopiche, se si vuole. Chi condivida questa prospettiva dovrebbe riflettere con lucidità sulla trasformazione sociale che si vive nell’era della globalizzazione, e riconoscerne le specificità del Mezzogiorno d’Italia: luogo non certo d’idillio campestre, se mai sia stato tale, ma di gravi squilibri sociali, di nevrosi e spreco di tempo e di energie, di inefficienza e di carenza di spirito pubblico, ben prima che di cultura aziendale. La lentezza significa, ad esempio, far prevalere la prevenzione sull’emergenza (ogni estate viene ripetuta la litania degli incendi boschivi, delle condutture fuori uso, degli invasi senza allacciamenti, come se si trattasse di una piaga d’Egitto), ricostruire socialità ed economia cooperativa, valorizzare le risorse locali mettendo in contatto produzioni e iniziative fra realtà diffuse senza visione localistica, contrastare la cultura dell’efficienza e della specializzazione per costruire reti e associazioni territoriali, non cedere alla fascinazione di parole come “progressismo” o come “innovazione” (che mi ricorda la «distruzione creatrice» di cui parlava Schumpeter riprendendo Marx: e non parliamo di “efficienza” e “meritocrazia”!), trovare il bandolo che lega le singole lotte al rifiuto della capacità diabolica che ha il capitale di interferire nelle relazioni fra esseri umani e fra umanità e natura, alterando la percezione, l’etica, le coscienze, i desideri e le pratiche di vita con un unico obbiettivo finalizzato, oggi come ieri, al profitto e al dominio: la rottura del legame sociale, come alleato e presupposto del turboconsumismo, ed elemento decisivo nell’attuale crollo civile e demografico del Mezzogiorno, non solo d’Italia. E, a questo riguardo, mi sembra necessario partire da un necessario pessimismo: non sono le concitate aggregazioni dall’alto, per quanto necessarie, a salvarci; non le “speranze” di una crisi interna al blocco capitalistico, o a una sua resipiscenza parziale; occorre essere chiari: si può contare solo sulle proprie forze sociali, politiche, di intelligenza, cercando, naturalmente e per strada, alleati e aggregazioni. Lotte, progetto, aggregazione, queste dovrebbero essere le nostre idee-guida, da una prospettiva generale che è emersa, o riemersa, da più parti: la radicalità, che è il contrario dell’estremismo, perché significa cogliere alla radice le cause e le diffusioni dei problemi e delle contraddizioni, e non disperdersi nel chiacchiericcio e nel lamento, e non gettare la spugna e cercare (quasi sempre invano) soluzioni individuali nel compromesso, nella fuga. A questo dovrebbero servire iniziative di dibattito collettivo che partano dal basso, dal livello provinciale o interprovinciale, e poi regionale, in una prospettiva generale, che indichi anche un programma politico strategico per i prossimi anni.
Naturalmente, scelta una idea strategica, siamo ancora al punto di partenza: si deve riempire il progetto, costruire o ricostruire (quasi) tutto, e in primo luogo una diffusa soggettività radicalmente antagonista ossia, oggi, quel che più di ogni altra cosa manca. Se c‘è questo, l’intendenza, ossia il programma politico, seguirà. Ma questo è un altro capitolo, uno fra i tanti necessari.
(Felice Rappazzo, circolo Gabriele Centineo, Catania)