La storia dell’espansionismo statunitense è incentrata sui territori e possedimenti d’oltremare che gli Stati Uniti, nel corso degli anni, hanno colonizzato, controllato e cercato di nascondere a se stessi e agli altri. I resoconti trionfalistici dell’ascesa degli Stati Uniti allo status di superpotenza di solito iniziano con la Seconda guerra mondiale: Pearl Harbor risvegliò il gigante dormiente per salvare il mondo dal fascismo. Ma se gli Stati Uniti avevano dormito, si trattava solo di un breve pisolino dopo un vigoroso allenamento. Dall’inizio del XIX secolo fino al XX, gli Stati Uniti crearono un vasto impero d’oltremare, che crebbe fino a includere Filippine, Porto Rico, Guam, Hawaii, Alaska, la Zona del Canale di Panama, le Isole Vergini americane e le Samoa americane, comprendendo milioni di sudditi coloniali. Il dominio imperiale degli Stati Uniti è stato caratterizzato in vari momenti da negligenza, razzismo paternalistico e brutali campagne militari. Un libro recente cerca di disvelare e spiegare, più che condannare, l’impero. E così facendo, ci aiuta a comprendere meglio la politica estera e militare statunitense nel passato, nel presente e nel futuro.
Durante un recente viaggio a New York motivato dal desiderio di passare un po’ di giorni insieme a mio figlio, sua moglie, i due nipotini e la compagna della mia vita che ormai da anni vivono, studiano e lavorano lì, ho passato una (piccola) parte del mio tempo in alcune grandi librerie, come Strand e Barnes & Noble, alla ricerca di libri da leggere in questi mesi primaverili. Girando con calma tra gli scaffali, il mio occhio è caduto sulla copertina di un libro che mi sembrava particolarmente promettente e interessante: “How to hide an empire. A history of the greater United States” (“Come nascondere un impero. Una storia dei più ampi Stati Uniti”), pubblicato in paperback dalla casa editrice Picador (New York, 2020 (2019), $23), scritto dal professore di storia della Northwestern University di Chicago, Daniel Immerwahr. Ora, avendo letto il libro (400 pagine di testo, più 85 di note) posso dire che il libro ha mantenuto la promessa e l’interesse che gli avevo attribuito ad una prima occhiata. Immerwahr ha il merito di aver tracciato una storia ampia e accessibile dell’espansione americana dall’epoca coloniale ai giorni nostri. Gli americani sono abituati a pensare al loro passato in termini della mappa della terraferma che comprende i 48 Stati continentali contigui: “se il paese avesse un logo”, scrive Immerwahr, “questa sarebbe la sua forma” (in realtà questi sono stati i confini del paese solo per tre anni dell’intera storia degli USA, dato che dal 1857 gli Stati Uniti iniziarono a rivendicare territori d’oltremare sotto forma di isole disabitate1). Ma anche quando gli Stati Uniti si espansero verso ovest per completare il “logo” nel XIX e all’inizio del XX secolo, rivendicarono territori lontani, tra cui decine di isole disabitate nel Pacifico e nei Caraibi (le cosiddette “isole del guano”2), così come le Hawaii (annesse nel 1898), Alaska (comprata dalla Russia nel 1867), Porto Rico (dal 1899), le Filippine (dal 1899), Guam (dal 1899), le Isole Vergini (comprate dalla Danimarca nel 1917), le Isole della Samoa (dal 1900/1904), la zona del Canale di Panama 3, fino ad arrivare ad oggi con le sue quasi 800 basi militari sparse in tutto il mondo4.
La parola “impero” occupa un posto particolare nel lessico americano: facilmente applicabile ad altri paesi, ma raramente, se non mai, agli Stati Uniti stessi, visti come uno Stato-nazione che è la più grande democrazia del mondo. “Una delle caratteristiche veramente distintive dell’impero degli Stati Uniti è quanto sia stato persistentemente ignorato”, scrive Immerwahr nell’introduzione. Persino nella primavera del 2003, quando le forze americane occupavano l’Iraq e l’Afghanistan e i funzionari governativi scrivevano memorandum sulla tortura, il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld sembrò quasi offeso quando un giornalista gli chiese se gli Stati Uniti fossero impegnati in qualcosa di simile alla “costruzione di un impero”. “Non siamo imperialisti”, insistette Rumsfeld. “Non lo siamo mai stati. Non riesco a immaginare perché lei si ponga questa domanda”. Il tono di offesa incredulità potrebbe essere stato un po’ esagerato, ma il sentimento di Rumsfeld era perfettamente in linea con il modo in cui molti americani preferiscono vedere il loro paese – come una repubblica nata da una rivoluzione contro il dominio dell’impero britannico e pertanto necessariamente ostile al dominio imperiale5. Quindi, il libro di Immerwahr esamina una parte della storia degli Stati Uniti spesso trascurata e nascosta ai più (sia agli stessi statunitensi continentali sia al resto del mondo): “In epoche diverse, gli abitanti dell’impero americano sono stati fucilati, bombardati, affamati, internati, espropriati, torturati e sottoposti a esperimenti [medici e militari]. Ciò che non sono stati, in generale, è essere visti”. Quindi, il suo obiettivo è cercare di raccontare la storia degli Stati Uniti includendo tutto il territorio considerato periferico come parte della storia. Gli Stati Uniti vengono regolarmente accusati dei loro “peccati originali” di schiavitù e genocidio (come Immerwahr puntualmente sottolinea) ma, come chiarisce questo libro, ci sono molti altri peccati ancora da affrontare6.
Un paese con una vocazione e una storia imperiale
Immerwahr sostiene che la questione della creazione di un impero statunitense non è iniziata quando la maggior parte degli storici ne parla, con la guerra ispano-americana del 1898, ma fin dai suoi inizi con la colonizzazione verso Ovest. I “padri fondatori” immaginavano gli Stati Uniti come un impero destinato ad espandersi al di là degli originari 13 Stati orientali, nonostante gli inizi rivoluzionari del paese. “Sono convinto che nessuna costituzione sia mai stata così ben calcolata come la nostra per un vasto impero e l’autogoverno”, scrisse Thomas Jefferson nell’aprile 1809.
Il paese si espanse verso ovest acquisendo territori, che erano governati dal governo federale con autorità assoluta, proprio come colonie. Gli abitanti di questi territori – nativi americani, cattolici, neri liberi e abusivi indisciplinati (“banditti”) – erano visti come una minaccia aliena per l’utopia bianca e protestante che i “padri fondatori” aspiravano a creare. L’idea era che il governo orchestrasse l’ordinato insediamento dei territori prima che diventassero Stati, ma questo piano, secondo il racconto di Immerwhar, fu travolto dalla rapida crescita demografica, che spinse i coloni a riversarsi sui Monti Appalachi e oltre a metà del XIX secolo. Mentre i coloni correvano letteralmente a cavallo per conquistare la terra a colpi di pistola e fucile, i nativi che già vivevano lì furono spinti in territori e riserve sempre più piccoli.
L’espansione continentale fornì una giustificazione materiale e ideologica all’espansione oltremare. Per sfamare la popolazione ancora in forte espansione sul continente, gli Stati Uniti annetterono i loro primi territori d’oltremare nel 1857: 94 piccole isole coperte di guano, una preziosa fonte di fertilizzante all’epoca. Allo stesso tempo, la colonizzazione dell’ovest americano portò alla romanticizzazione della frontiera. Laddove i fondatori si erano preoccupati per i primi coloni, temendo che potessero scatenare guerre con i nativi o violare i diritti di proprietà (George Washington possedeva considerevoli terreni nei territori), il “pioniere” Daniel Boone fu salvato dall’oscurità e trasformato in un eroe nazionale entro la metà del XIX secolo.
Alla fine del XIX secolo, l’ammiraglio Alfred Thayer Mahan pubblicò il suo classico, “L’influenza della potenza marittima sulla storia” (1890), mentre lo storico Frederick Jackson Turner sostenne notoriamente che la lotta per colonizzare la frontiera aveva plasmato il carattere nazionale in un individualismo intraprendente, che gettò le basi per la stessa democrazia americana. Turner aveva proclamato che la frontiera era “chiusa” nel suo famoso discorso del 1893, ma Mahan aveva già dichiarato che “i mari erano aperti”.
Immerwahr nota che la Costituzione non ha molto da dire su ciò che accade ai territori che non sono Stati7, a parte la clausola territoriale (per cui erano sotto il potere del Congresso, ma senza una rappresentanza). Fu l’Ordinanza del Nord-Ovest del 1787 a stabilire un modello in base al quale i territori potevano essere promossi e diventare Stati. Ma due erano le condizioni per seguire quel modello:
- i territori dovevano essere popolati in maggioranza da bianchi, da qui l’idea che le popolazioni non bianche al loro interno non avrebbero avuto un reale valore fino a quando i territori sarebbero stati sufficientemente popolati da bianchi (e generalmente dopo la rimozione, l’eliminazione e la soppressione dei precedenti abitanti) e quindi sarebbero stati accettati come Stati8;
- è il Congresso che può fare ciò che vuole e ha fatto ciò che ha voluto. Ha tenuto lontani alcuni territori dallo status di Stato, spesso per decenni. L’Oklahoma ha impiegato più di un secolo prima di diventare uno Stato nel 19079. E ne ha promossi altri rapidamente allo status di Stato, di solito solo per definire i confini del paese, per decidere chi ne facesse parte e chi no.
Dopo che gli Stati Uniti, in una sorta di shopping imperiale, acquisirono diversi territori di grandi dimensioni e popolosi – Filippine, Porto Rico, Hawaii, Guam (oltre 8 milioni di popolazione, pari a circa il 10% della popolazione degli USA) –, questi territori vengono chiamati in modo davvero schietto “colonie” dai leader degli Stati Uniti, persone come Theodore Roosevelt10 e Woodrow Wilson. Perché ovviamente è quello che sono state. Questi uomini sono stati schietti difensori dell’impero e sono stati molto orgogliosi e felici di chiamare i possedimenti d’oltremare degli Stati Uniti “colonie”. Con la vittoria sugli spagnoli nel 1898 e la successiva acquisizione di Filippine, Porto Rico e Guam, le colonie presero il posto della frontiera occidentale come spazio vuoto su cui proiettare le ambizioni americane di plasmare un mondo nuovo. La colonizzazione oltremare era la successiva fase del “destino manifesto”11. Ma questo non durò a lungo. Intorno al 1910, si vedono i funzionari governativi diventare molto nervosi per la parola che inizia con la C e cercare di sostituirla con un eufemismo come “territorio”, un termine generico e consonante con la storia e struttura degli Stati Uniti. L’Arkansas e il Montana sono stati dei territori e poi sono divenuti degli Stati. Quindi, negli Stati Uniti, fin dall’inizio del XX secolo, si è diffusa la consuetudine di riferirsi alle regioni d’oltremare degli Stati Uniti come “territori” piuttosto che come “colonie”. Ciononostante, i leader degli Stati Uniti come Trump hanno ancora la netta sensazione che tali luoghi non siano realmente adatti al Paese o ne facciano realmente parte.
L’intera questione di quali territori diventassero Stati e quali fossero considerati territori o diventassero Stati indipendenti ruotava attorno a un gruppo di decisioni della Corte Suprema molto poco conosciute, i Casi Insulari del 1901, che stabilivano quali territori fossero e potessero essere “incorporati” e quali no. La Corte Suprema dovette capire dove si collocassero questi luoghi all’interno del tessuto nazionale. Fanno parte degli Stati Uniti, ma questo significa che i filippini possono votare per il presidente? Significa che sono tutelati dalla Costituzione? Non era chiaro, e ci furono molte discussioni al riguardo. Quindi, alla fine, la Corte Suprema concluse che la Costituzione si applica agli Stati Uniti. È la legge del Paese. Ma alcuni dei territori, in particolare quelli acquisiti dalla Spagna – quindi Porto Rico, Guam, Filippine – e questo si sarebbe esteso anche alle Samoa Americane e, in seguito, alle Isole Vergini americane e ad altri luoghi – non facevano parte del Paese. Quindi, la Costituzione si applica ad un territorio, ma questo non fa parte degli Stati Uniti in senso costituzionale e, pertanto, è posseduto dagli Stati Uniti, che lo comprendono entro i propri confini, ma la sua Costituzione non si estende completamente a esso. Alcuni territori – Hawaii e Alaska, che ospitavano una popolazione di coloni bianchi più numerosa – furono considerati “incorporati”, il che significava che la Costituzione si sarebbe estesa anche a loro. E questo sembrò renderli più idonei a diventare Stati. Ma anche in quei casi, all’inizio del XX secolo non era del tutto chiaro se le Hawaii o l’Alaska sarebbero mai diventate Stati. E, in effetti, negli Stati Uniti continentali c’era molta resistenza razzista all’idea che i cittadini delle Hawaii potessero votare sulle leggi federali.
Se parliamo di Porto Rico, inizialmente una “colonia” e poi un territorio che non è mai diventato uno Stato, ancora oggi qui non si applica la Costituzione (come nella base militare e carceraria di Guantanamo a Cuba). Chi ci nasce è cittadino statunitense (dal 1917) ma non ha il diritto ad un processo con una giuria popolare e non ha ancora diritto di voto alle elezioni nazionali/presidenziali. Dopo che gli uragani Irma e Maria danneggiarono Porto Rico nel 2017, Trump (nel corso del suo primo mandato) ha dovuto parlarne, facendo una cosa straordinaria: si rivolse a Porto Rico, riferendosi ad esso in seconda persona. “Mi dispiace dirtelo, Porto Rico, ma hai mandato a rotoli il nostro bilancio”. Porto Rico fa parte degli Stati Uniti e i portoricani sono cittadini da oltre un secolo, ciononostante, nella mente di Trump, è chiarissimo che esiste una patria, che è il tipo di posto attorno al quale si può costruire un muro, gli Stati Uniti contigui, e poi ci sono queste altre parti degli Stati Uniti, che gli sembrano straniere.
Un altro ottimo esempio di questo modo di vedere le cose si è verificato dopo che un giudice federale alle Hawaii (uno Stato dei 50) aveva bloccato il divieto di viaggio per i musulmani imposto da Trump. Il Segretario alla Giustizia Jeff Sessions ha espresso stupore per il fatto che un giudice che siede su un’isola del Pacifico possa aver bloccato il presidente. Naturalmente, ciò ha a che fare con l’idea che le Hawaii non facciano realmente parte degli Stati Uniti.
Il trilemma dell’impero
Secondo Immerwahr, storicamente, il fatto che gli Stati Uniti siano stati un impero che non voleva essere un impero, era dovuto al fatto che si trovavano di fronte a un “trilemma”. Potevano avere al massimo due delle seguenti tre cose: repubblicanesimo (ovvero, un governo costituzionale rappresentativo), supremazia bianca e espansione all’estero.
L’espansione all’estero significava inevitabilmente acquisire popolazioni non bianche. Il repubblicanesimo richiedeva che queste persone fossero cittadini con uguali diritti e potere. E la supremazia bianca esigeva che le persone non bianche non avessero diritti e potere. Quindi non si potevano avere tutte e tre, qualcosa doveva cedere.
Si sarebbero potute avere colonie non bianche senza diritti (supremazia bianca, espansione all’estero), un impero puro (alla Theodore Roosevelt). Questo sarebbe avvenuto a scapito del repubblicanesimo: le colonie sarebbero state popolate da persone soggette con pochi o nessun diritto di cittadino, un’offesa al significato originario degli Stati Uniti.
Si sarebbe potuto avere repubblicanesimo e supremazia bianca, e rifuggire le colonie straniere (alla maniera dell’anti-imperialismo populista del candidato presidenziale William Jennings Bryan nel 1896 e 1900). Questa era una forma di isolazionismo, che manteneva l’America una repubblica di bianchi. Quest’America non poteva essere una potenza mondiale.
Storicamente, gli imperialisti hanno vinto questa discussione, dando vita agli Stati Uniti a due livelli: la terraferma (repubblicana) e i possedimenti territoriali (sudditi, non bianchi). In una sentenza del 1901, la Corte Suprema stabilì che la Costituzione non si applicava pienamente ai territori d’oltremare. I loro residenti non avevano gli stessi diritti degli americani continentali.
Naturalmente, esisteva una terza possibilità: si potevano incorporare territori non bianchi come territori e Stati con pieni diritti (repubblicanesimo e espansione). Questo era un anatema per i suprematisti bianchi, e generalmente non era contemplato. È stato fatto solo una volta, quando l’Alaska e le Hawaii sono state ammesse come Stati, entrambe al di fuori della “terraferma” continentale, e ciascuna con maggioranze di popolazioni non bianche. Il modello non è stato più seguito nei successivi sei decenni (sebbene molte parti degli Stati Uniti continentali stiano diventando a maggioranza non bianca, con grandi conseguenze politiche).
Le Filippine parte degli Stati Uniti
Sebbene gli Stati Uniti avessero facilmente sconfitto gli spagnoli nel 1898, si impantanarono presto in una guerra contro il loro ex alleato nelle Filippine, il nazionalista Emilio Aguinaldo, che era stato indotto a credere che sarebbe stato riconosciuto come leader di una nazione indipendente dopo aver aiutato gli Stati Uniti a sconfiggere la Spagna. Sfortunatamente per Aguinaldo, quando un ambivalente presidente William McKinley chiese a Dio cosa fare delle isole, Dio gli rispose di tenersele e di “educare i filippini, elevarli, civilizzarli e cristianizzarli”, come raccontò McKinley in un discorso. Aguinaldo si rivoltò contro il suo nuovo padrone imperiale.
La guerra filippino-americana, durata 14 anni, fu condotta in un arcipelago di oltre settemila isole, con la stessa strategia irregolare di violenza gratuita e goffi tentativi di fare pace con i nativi che avrebbe definito le future campagne di contro-insurrezione. Quando non erano impegnati a costruire strade o a migliorare le condizioni igienico-sanitarie nelle aree da loro controllate, i soldati statunitensi rasero al suolo villaggi e terreni agricoli, praticarono il waterboarding (la “cura dell’acqua”) sui prigionieri e rastrellarono in “campi di riconcentramento” la popolazione dei villaggi rurali sospettata di ospitare gli insorti guerriglieri (una tattica già usata dalla Spagna contro gli insorti cubani e dagli inglesi contro i boeri sudafricani). Si stima che la guerra abbia ucciso 4.196 soldati statunitensi e 775mila filippini, un bilancio incredibilmente sbilanciato che tradisce la tendenza statunitense a infliggere distruzioni di massa sia ai civili che ai combattenti.
Dopo che gli insorti uccisero 45 soldati statunitensi in un’imboscata nella città di Balangiga, sull’isola meridionale di Samar, i soldati statunitensi compirono il loro peggior massacro mai perpetrato (a Bud Dajo furono massacrati quasi mille musulmani filippini), imperversarono nelle campagne, bruciando riso ed edifici per vendetta. “L’entroterra di Samar deve essere trasformato in un deserto ululante”, disse il generale Jacob H. Smith delle forze di occupazione. “Non voglio prigionieri. Desidero che uccidiate e bruciate, più ucciderete e brucerete, più mi farete piacere”.
Le atrocità scatenarono l’indignazione in patria, alimentando un crescente movimento antimperialista. Un secolo prima che la guerra in Iraq risvegliasse molti americani all’ipocrisia di conquistare un popolo per liberarlo, Mark Twain ne smascherò la contraddizione con commenti taglienti e divenne il più importante anti-imperialista degli Stati Uniti continentali. “Devono esserci due Americhe”, scrisse, “una che libera il prigioniero e una che gli toglie la nuova libertà e che attacca con lui una lite senza fondamento; poi lo uccide per ottenere la sua terra”.
Oggi, la guerra filippino-americana è stata in gran parte dimenticata. Leggendola, ci si chiede perché non venga ricordata meglio, tra i tanti altri casi in cui i valori americani sono stati palesemente indeboliti dalla condotta degli statunitensi che lavoravano nel loro nome. Il ricordo della guerra filippino-americana non è poi così dimenticato nelle Filippine, dove un recente film biografico di successo su Antonio Luna, uno dei giovani generali dell’esercito nazionalista di Aguinaldo, ha descritto i suoi avversari statunitensi come “pomposi xenofobi”.
La storia di Cornelius Rhoads, un “eroe” del colonialismo statunitense
Gli americani che si fecero carico del “fardello dell’uomo bianco” (come lo definiva Rudyard Kipling nella sua poesia pubblicata nel 189912) spesso sfruttarono lo status di seconda classe delle colonie/territori per realizzare progetti ambiziosi, liberi dalle normative e dal controllo pubblico della terraferma. Una delle persone su cui Immerwahr concentra l’attenzione per parlare del colonialismo statunitense è Cornelius P. Rhoads, un medico formatosi ad Harvard ricercatore sul cancro che lavorava per il Rockefeller Institute, che andò a San Juan, Porto Rico, per fare ricerche sull’anemia negli anni ’30. Allora, molti portoricani soffrivano di anemia a causa dell’anchilostomiasi13. Arrivato a San Juan, Rhoads diventò un medico diverso. Considerò la sua posizione, trovarsi a Porto Rico, come una sorta di licenza per fare ciò che voleva, come voleva. Prima di tutto, si rifiutò di curare alcuni dei suoi pazienti, solo per vedere cosa sarebbe successo. Cercò di indurre la malattia in altri, ancora una volta, per vedere cosa sarebbe successo, limitando la loro dieta. Si riferiva ai suoi pazienti, con i suoi colleghi, come a cavie da laboratorio. E poi scrisse una lettera a un collega di Boston piena di razzismo e di sarcasmo, in cui diceva: “Porto Rico è bellissima. Il clima è incredibile. Adoro l’isola. Tuttavia, il problema sono i portoricani. Sono orribili. Rubano. Sono sporchi. E la cosa da fare, in realtà, è sterminare completamente la popolazione”. E poi scrisse: “E ho iniziato io. Ho ucciso otto dei miei pazienti e ho cercato di trapiantare il cancro in altri 13. Spero che tu stia bene a Boston. Cordiali saluti”, e si congedò. Lo sappiamo perché poi lasciò la lettera su un tavolo e fu scoperta dal personale portoricano dell’ospedale in cui lavorava. Il fatto divenne uno scandalo nazionale. I portoricani avevano sentito il disprezzo dei continentali. Avevano sentito parlare del problema della sovrappopolazione portoricana e di come i continentali la disapprovassero. Ma qui videro quello che interpretarono come l’intento omicida, razzista e omicida del medico che in realtà aveva ucciso otto persone.
Cornelius Rhoads se ne andò da Porto Rico. È semplicemente fuggito dall’isola, sperando, presumibilmente, che ciò che era accaduto a San Juan rimanesse a San Juan. Il governo avviò un’indagine. Scoprì un’altra lettera, che il governatore dell’isola ritenne peggiore della prima. Ma il governatore, che era stato nominato (non eletto), era un continentale bianco, soppresse quella lettera e concluse che Cornelius Rhoads non aveva ucciso otto dei suoi pazienti. Probabilmente, nella lettera stava solo scherzando o qualcosa del genere. Così, Cornelius Rhoads non ha mai affrontato un’udienza in tribunale. Non solo, non è nemmeno stato licenziato.
È tornato a New York e ha continuato il suo lavoro. Rapidamente è diventato vicepresidente della New York Academy of Medicine. Poi, durante la Seconda guerra mondiale, è diventato colonnello dell’esercito e ha ricoperto il ruolo di ufficiale medico capo nel Chemical Warfare Service. Il Servizio per la guerra chimica stava preparando gli Stati Uniti ad entrare in una guerra con il gas come arma. Sotto la direzione di Rhoads, il Servizio ha testato tutti i tipi di gas velenosi, prima sugli animali – preferibilmente le capre – ma infine su soggetti umani, su uomini in uniforme – almeno 60mila, molti dei quali portoricani e afro-americani -, che, senza un consenso informato, vennero trattati con iprite sulla pelle per vedere come si formavano le vesciche, vennero messi in camere a gas con maschere antigas per vedere quanto a lungo potevano rimanerci dentro – vennero rinchiusi lì finché non cedevano – oppure, in molti casi, c’era un’isola che gli Stati Uniti usavano al largo di Panama, l’isola di San José. E gli uomini venivano mandati sul campo e veniva chiesto loro di inscenare finte battaglie. Ma mentre lo facevano, venivano gassati dall’alto per vedere come venivano influenzati. E molti di loro ne subirono effetti debilitanti: enfisema, danni oculari, cicatrici genitali, danni psicologici.
Dopo aver supervisionato questi esperimenti medici con il gas, Rhoads si rese conto, così come altri medici, della possibilità che gli agenti a base di iprite potessero essere usati per curare il cancro. Raccolse parte delle scorte eccedenti di armi chimiche statunitensi dopo la guerra e divenne il primo direttore dello Sloan Kettering Institute di New York. Sfruttò questa sua posizione per lanciare la chemioterapia e provò una sostanza chimica dopo l’altra per combattere il cancro. La cosa incredibile è che, all’interno della comunità medica statunitense, è per questo che è stato ricordato. È apparso sulla copertina della rivista Time. C’è stato un premio conferito dall’American Association of Cancer Research (AACR) in suo onore, e quel premio è stato assegnato per oltre 20 anni fino al 2003, prima che un ricercatore oncologo portoricano facesse notare all’AACR i trascorsi di Rhoads a Porto Rico. Immerwahr nota amaramente che la segregazione informativa era stata così straordinaria che ci vollero 23 anni prima che la comunità medica continentale si rendesse conto che l’uomo che avevano celebrato con entusiasmo aveva almeno dichiarato in una lettera di aver ucciso otto dei suoi pazienti. E la sua statua all’angolo tra la 103esima strada e la 5th Avenue a New York City, appena fuori dalla New York Academy of Medicine, fu rimossa.
L’attacco giapponese a Pearl Harbor
Il libro inizia con il bombardamento di Pearl Harbor (7 dicembre 1941), uno dei momenti più familiari della storia degli Stati Uniti. Quando la maggior parte degli statunitensi pensa a Pearl Harbor, pensa all’attacco del Giappone agli Stati Uniti (l’unica volta in cui sono stati attaccati direttamente da un altro Stato) che li fece entrare nella Seconda guerra mondiale. Come nota Immerwahr, quello che accadde in realtà fu che il Giappone non stava attaccando solo le Hawaii ma stava lanciando un attacco quasi simultaneo (7/8 dicembre) contro i territori del Pacifico degli Stati Uniti, della Gran Bretagna (Malesia, Singapore e Hong Kong) e dell’Olanda (Indonesia), oltre ad invadere la Thailandia. Nel giro di poche ore i giapponesi attaccarono le Filippine, Guam, l’Isola di Wake e le Hawaii. E l’attacco alle Filippine, militarmente, fu altrettanto grave di quello alle Hawaii. Per questo motivo, inizialmente non era chiaro ai giornalisti come raccontare l’accaduto. Se si guardano i primi giornali, alcuni dicevano: “I giapponesi attaccano Filippine e Guam”. Altri dicevano: “I giapponesi attaccano Filippine e Hawaii”. L’idea che Filippine e Hawaii fossero obiettivi davvero importanti da sottolineare, è così che appare nel primo discorso di Eleanor Roosevelt. È così che appare in una bozza del discorso di Pearl Harbor scritta dal sottosegretario di Stato di FDR. Ed è così che appariva nella prima bozza del discorso dell’”Infamia” di FDR stesso, che enfatizzava entrambi gli obiettivi. Ma la cosa sorprendente è che si può vedere FDR riflettere su questo, sulle implicazioni del tentativo di spiegare al paese che le Filippine erano state attaccate e che questo era motivo di guerra per gli Stati Uniti. Era chiaramente a disagio con questa implicazione, preoccupato se un attacco alle Filippine sarebbe davvero stato considerato una causa di guerra negli Stati Uniti. D’altra parte, molti sondaggi d’opinione dell’epoca suggerivano che la maggior parte delle persone che vivevano negli Stati Uniti continentali non voleva vedere l’esercito statunitense intervenire in difesa dei territori (non Stati) più occidentali degli Stati Uniti, come le Filippine e Guam.
Quindi, Immerwahr ricostruisce che FDR fece due cose. Innanzitutto, cancellò dal testo i riferimenti principali alle Filippine e si concentrò solo sulle Hawaii. Anche le Hawaii erano un territorio, non uno Stato, ma avevano una popolazione bianca significativamente più numerosa (sebbene i tre quarti degli abitanti fossero asiatici e polinesiani) ed erano più vicine alla terraferma. Anche così, sembra che si sentisse un po’ incerto sul fatto che le Hawaii potessero essere considerate Stati Uniti, allo scopo di far entrare la nazione nella guerra. In effetti, i sondaggi d’opinione suggerivano che solo il 55% del paese riteneva che l’esercito statunitense avrebbe dovuto difendere il territorio delle Hawaii in caso di guerra. Quindi, inserì la parola “americano” nel suo descrittore, per cui non si trattava solo del bombardamento giapponese, come inizialmente detto nel suo discorso, sull’isola di Oahu, ma che avevano bombardato “l’isola americana di Oahu”. FDR ha cercato di ricondurre le Hawaii al termine americano. Le Filippine e Guam le considera, in un certo senso, troppo lontane, e le toglie dai riferimenti principali del discorso, relegandole in fondo.
Immerwahr pensa che questo abbia molto a che fare con il motivo per cui molte persone negli Stati Uniti oggi non si rendono conto che quell’attacco non ha riguardato solo le Hawaii. Infatti, dopo l’attacco a Pearl Harbor, i giapponesi non sono mai tornati alle Hawaii (non sono state invase e vennero trasformate in un’enorme base militare statunitense sotto corte marziale fino al 1946), mentre questo non è accaduto alle Filippine, Guam, l’Isola di Wake o alcune delle isole Auleutine dell’Alaska che sono state tutte conquistate. Le popolazioni sono state internate (così come 112mila residenti giapponesi e cittadini giapponesi-americani degli Stati occidentali dal febbraio 1942). L’occupazione delle Filippine da parte del Giappone è stata una vicenda assolutamente brutale. L’occupazione giapponese e la successiva riconquista delle Filippine da parte degli Stati Uniti si stima siano costate la vita ad un milione e mezzo di persone (il doppio delle persone morte nella Guerra Civile), con la città di Manila quasi interamente rasa al suolo. Si tratta dell’evento più sanguinoso mai accaduto sul suolo americano, e non compare quasi mai nei libri di storia americani.
La lingua è un virus
Immerwahr ha scritto un capitolo del libro intitolato “La lingua è un virus”. Ovviamente, quando un paese conquista altri popoli che parlano lingue diverse, si pone il problema di cosa succede alla lingua e alla cultura di questi popoli, sia conquistati che assorbiti. E nel suo libro Immerwahr parla molto della questione della lingua inglese e di come – con l’assorbimento, prima dei francofoni in Louisiana, poi dei nativi, dei portoricani e delle Filippine – si sia iniziato ad affrontare la questione linguistica.
È importante riconoscere che una delle cose che fanno gli imperi è cercare di imporre una sorta di omogeneità. Cercano di esportare gli standard della madrepatria nelle colonie. E spesso si tratta di un processo violento e difficile. Certamente questo è stato vero negli Stati Uniti e nei suoi territori, dove si è cercato di esportare e far rispettare l’inglese. Uno degli esempi più drammatici è Guam, dove ci sono resoconti di un ufficiale di marina che andava in giro a bruciare tutti i dizionari inglese-chamorro nel tentativo di estirpare la lingua locale e far rispettare l’inglese. E ci sono racconti di ogni genere di migliaia di bambini sudditi coloniali (indiani d’America) trasferiti forzatamente in scuole esclusivamente in lingua inglese, puniti fisicamente se parlavano la loro lingua madre invece dell’inglese.
Ciò che è davvero interessante, tuttavia, non è solo il modo in cui gli Stati Uniti hanno cercato, come hanno fatto molti imperi (a cominciare da quello britannico), di imporre la propria lingua nelle colonie, ma che, in realtà, gli Stati Uniti hanno avuto un notevole successo nell’imporre la propria lingua anche al di fuori delle colonie, dopo la Seconda guerra mondiale. Immerwahr fa l’esempio di come il dominio americano nel settore aereo abbia portato alla diffusione virale dell’inglese in tutto il mondo attraverso il vettore dei piloti e dei controllori del traffico aereo internazionale. Altri gruppi sono stati gli scienziati, i manager delle imprese e i figli delle élite di altri paesi che hanno studiato nelle università statunitensi, seguiti più di recente dagli utilizzatori di Internet. La storia degli ultimi 80 anni ha dato origine a una notevole diffusione della lingua inglese, non solo in luoghi fisicamente controllati dagli Stati Uniti, ma anche in luoghi molto lontani che non hanno controllato direttamente. Oltre all’uso globale della lingua inglese, altri vantaggi di soft power, come la standardizzazione della produzione secondo gli standard statunitensi (dalle dimensioni e filature delle viti al design dei cartelli stradali) e le tecniche di gestione organizzativa e manageriale, hanno contribuito a che gli USA continuassero a regnare sovrani come unica potenza imperiale.
Un impero puntiforme o puntinista
La storia imperiale americana è stata fortemente censurata durante la Guerra Fredda, quando l’idea che gli Stati Uniti potessero essere tutt’altro che paladini della democrazia fu sostenuta quasi esclusivamente a livello nazionale dai critici di sinistra della politica estera statunitense. Non fu difficile per molti immaginare la costruzione di un impero come un evento breve e insignificante nella storia del paese. Dopotutto, l’impero territoriale formale fu in gran parte dissolto dopo la Seconda guerra mondiale, nell’ambito di un più ampio processo di decolonizzazione in Asia, Africa, Caraibi e Medio Oriente. Le Filippine, che erano state occupate dai giapponesi e avevano subito orribili distruzioni, ottennero l’indipendenza nel 1946. Porto Rico ottenne la semi-autonomia come Commonwealth nel 1952 (soluzioni analoghe vennero trovate per Guam, Samoa e Isole Vergini). L’Alaska e le Hawaii divennero Stati nel 1959.
Eppure, secondo Immerwahr, l’impero americano non è scomparso, ma si è trasformato. La parola d’ordine è diventata “dominio senza annessione”. A partire dalla presidenza Truman, gli Stati Uniti hanno “riorganizzato il loro portafoglio imperiale” passando da vaste porzioni di territorio a una serie di basi militari in tutto il mondo, molte delle quali situate in ex possedimenti imperiali statunitensi e britannici. Hanno aspirato a un’egemonia globale fondata sulla potenza tecnologica, sui flussi finanziari, sulla potenza delle multinazionali, sulla supremazia linguistica e su una maggiore presenza militare (aereo-navale). Sono diventati quello che Immerwahr definisce un “impero puntinista” o puntiforme (un “Pointillist Empire”), in cui la potenza militare è proiettata in tutto il mondo da centinaia di piccoli appezzamenti di terreno, piattaforme dove gli Stati Uniti possono muoversi, organizzare le proprie attività, installare ricetrasmittenti, gestire porti e aeroporti militari, immagazzinare beni e armi (comprese quelle nucleari)14. Esistono anche problemi di sovranità in luoghi come Okinawa, le Isole Chagos e la Groenlandia (la base militare artica di Thule), per citarne solo alcuni, dove le popolazioni locali sono escluse dalle loro terre ancestrali a beneficio delle basi militari americane.
Per Immerwahr, questa trasformazione pone l’inquietante domanda del perché, al culmine del loro potere (subito dopo aver vinto la Seconda guerra mondiale, quando disponevano di circa 2mila basi militari e 8 milioni di soldati, occupavano anche parti di Corea, Germania e Austria e tutto il Giappone, con una popolazione d’oltremare sotto la giurisdizione statunitense di 135 milioni di persone, contro i 132 milioni che vivevano nel territorio continentale), gli Stati Uniti abbiano deciso di disfarsi di quasi tutti i loro possedimenti territoriali, tranne che di una piccola parte su cui hanno costruito la loro “baselandia” (seguendo lo “strategic island concept” elaborato formalmente dall’ufficiale navale Stuart Barber nel 1958). Sostiene che l’ascesa del movimento anticoloniale globale all’estero e del movimento per i diritti civili in patria abbiano reso politicamente impossibile governare i sudditi imperiali. Allo stesso tempo, una serie di innovazioni, in gran parte guidate dall’esercito statunitense durante la Seconda guerra mondiale, hanno reso possibile raccogliere molti dei benefici dell’impero senza intraprendere la colonizzazione. Queste “tecnologie che distruggono l’impero” includevano progressi nelle comunicazioni, nella logistica (con le “autostrade” del cielo e del mare intercontinentali che connettono reti di aeroporti e porti), nella produzione industriale sintetica (non dipendente da materie prime tropicali, come la plastica, la gomma e le fibre artificiali) e nei trasporti (intermodalità), che consentirono alle truppe e al commercio degli Stati Uniti di attraversare il mondo come se fosse tutto territorio occupato.
Secondo Immerwahr, queste tecnologie hanno contribuito a creare un mondo in cui la globalizzazione ha sostituito la colonizzazione come “grande processo di coordinamento”. Il dominio del mercato finanziario e commerciale ha accompagnato la potenza militare come fulcro del potere americano. Gli Stati Uniti hanno avuto la meglio perché i vantaggi economici e tecnologici ottenuti nella Seconda guerra mondiale hanno permesso loro di superare la concorrenza di altri paesi. Con l’avvicinarsi del presente, Immerwahr narra una serie di storie interessanti provenienti da remote basi militari statunitensi (ad esempio, che i Beatles furono ispirati dalla musica che ascoltavano dalle truppe statunitensi di stanza a Burtonwood, la più grande base dell’aeronautica militare statunitense in Europa, quindici miglia a ovest di Liverpool), ma il lettore diventa sempre più curioso di sapere perché, in un’epoca di globalizzazione sempre più fluida, gli Stati Uniti abbiano dislocato truppe, aerei, droni e navi in tutto il mondo. L’attenzione eccessiva di Immerwahr sul territorio fisicamente controllato dagli Stati Uniti, che è stata così cruciale nella prima metà del XX secolo, inizia a sembrare miope quando affronta la seconda.
Su questo tema, lo storico Alfred McCoy offre una visione più completa nel suo breve libro “In the shadows of the american century. The rise and decline of US global power” (Haymarket Books, Chicago 2017). L’America mantenne la sua rete di basi militari dopo la Seconda guerra mondiale per combattere la Guerra Fredda, un aspetto appena discusso in “How to Hide an Empire“. La supremazia militare americana fornì la spina dorsale dell’ordine postbellico guidato dagli Stati Uniti, fatto di alleanze come la NATO, trattati economici, organi di governo internazionali, meccanismi di controllo più informali, dalla pressione economica agli interventi di “regime change” della CIA e alle politiche del Fondo Monetario Internazionale, e leader docili (spesso insediati attraverso attività clandestine o invasioni) che gli Stati Uniti costruirono in nome della sconfitta del comunismo e della sicurezza mondiale per il capitalismo democratico15. Lungi dall’essere resa obsoleta, la potenza militare americana garantì le condizioni per la globalizzazione basata sul mercato che, secondo Immerwahr, la sostituì.
Tuttavia, spogliare l’impero fino alle sue radici nel controllo del territorio rivela come, anche se la natura dell’impero cambia, il modo in cui viene nascosto rimanga pressoché lo stesso. Nell’autunno del 1950, i nazionalisti portoricani organizzarono una violenta rivolta per protestare contro il perdurante dominio statunitense sul territorio. Due nazionalisti tentarono di assassinare il presidente Harry Truman mentre dormiva. Mentre l’assalitore sopravvissuto si scagliava contro specifiche ingiustizie dell’imperialismo statunitense sull’isola, il New York Times liquidò la rivolta come “una di quelle folli avventure che non hanno senso per chi è al di fuori”, bollando i nazionalisti portoricani come “fanatici” e “terroristi”. Tale offuscamento ricorda la risposta all’11 settembre (l’”operazione aerei” di al-Qaeda, ossia di “la base”), quando il risentimento di lunga data di Osama Bin Laden16 per la presenza della base militare americana a Dhahran in Arabia Saudita (“le vostre forze occupano i nostri paesi; avete disseminato le vostre basi militari ovunque”, scrisse Bin Laden nel suo messaggio agli statunitensi dopo gli attacchi) fu ampiamente soffocato da un discorso iper-patriottico negli Stati Uniti che lo inquadrava unicamente come un pazzo che odiava l’America “per le nostre libertà”. In entrambi i casi, la realtà dell’impero è stata oscurata per preservare quella che lo storico William Appleman Williams (“Empire as a way of life”, University of Wisconsin, Madison 2007; “The tragedy of american diplomacy”, World Publishing, Cleveland/New York 1959)) definì la “grandi illusione” degli Stati Uniti, secondo cui avrebbero potuto mantenere un impero globale, seppur informale, senza affrontare appieno la contraddizione dell’imperialismo con i valori professati di libertà e autodeterminazione.
Dimostra inoltre che il dilemma dell’impero è oggi tanto pressante quanto lo era ai tempi di Mark Twain. Donald Trump fa molto rumore sulla fine delle guerre e sul ritiro dalle alleanze, ma, visto dai confini più remoti dell’impero puntinista, tutto ciò sembra vuoto quanto la maggior parte degli altri rumori che escono dalla sua bocca. Finora Trump ha mostrato poca inclinazione a smantellare l’apparato militare mondiale che sostiene la supremazia globale (sì, sempre più traballante) degli USA. L’ultimo bilancio dell’amministrazione Biden ha previsto oltre 850 miliardi di dollari nella spesa militare, gran parte dei quali vanno a sostenere le quasi 800 installazioni militari statunitensi mantenute oggi. E lo stesso Trump non sembra essere troppo riluttante a usare la potenza militare statunitense per dettare gli eventi all’estero, minacciando la presa militare del Canale di Panama e di territori come la Groenlandia.
Alessandro Scassellati
- I confini familiari degli Stati Uniti, quelli continentali che si immaginano quando si pensa al paese, furono definitivamente definiti nel 1854 con il trattato o acquisto di Gadsden tra Stati Uniti e Messico, in cui gli Stati Uniti accettarono di pagare al Messico 10 milioni di dollari per una porzione di 29.670 miglia quadrate del Messico che in seguito divenne parte dell’Arizona e del Nuovo Messico.[↩]
- Una sentenza della Corte Suprema sul Guano Islands Act (1856) stabilì un precedente e un fondamento costituzionale per l’imperialismo oceanico. La sentenza legittimò la proprietà di un territorio degli Stati Uniti non contiguo al continente. Furono chiamate isole del guano, perché erano isole su cui gli uccelli atterravano e depositavano, per secoli, escrementi, che si accumulavano sempre più in alto, si seccavano al sole, ed erano una fonte incredibilmente utile di fertilizzante. Quindi, alla ricerca di questo fertilizzante e rompere il monopolio britannico-peruviano, gli Stati Uniti rivendicarono quasi un centinaio di isole del guano, nei Caraibi e nel Pacifico. Nel XIX secolo erano utili per il fertilizzante e non molto altro. Ma nel XX secolo, si è realizzato che le stesse caratteristiche di quelle isole che le rendevano attraenti per gli uccelli, piccole isole in mezzo a un deserto oceanico, ottimi posti per atterrare, le rendevano anche molto utili per gli aerei. Così, gli Stati Uniti hanno riconvertito alcune di quelle isole in basi militari, come luoghi per immagazzinare armi nucleari e per l’atterraggio di aerei. Ad esempio, l’isola di Howland è apparentemente il nulla, un’isola remota nel Pacifico. Ma se si cerca di volare in aereo attraverso il Pacifico, avere l’isola di Howland è davvero importante per fare scalo e rifornirsi di carburante.[↩]
- La zona del Canale di Panama fu ottenuta nel 1904 dopo aver sostenuto i ribelli in quella che oggi è Panama affinché dichiarassero l’indipendenza dalla Colombia in modo che gli Stati Uniti potessero poi concludere un accordo con loro per costruire il canale di Panama.[↩]
- Nel libro, Immerwahr mostra due mappe degli Stati Uniti: una solo degli Stati Uniti continentali, l’altra con tutti i territori inclusi al 1940 (quando quelli d’oltremare rappresentavano circa il 13% della popolazione degli Stati Uniti). Le didascalie recitano: “Ti avevano detto che era questo”, “Ma è questo”, mostrando quanta parte della massa terrestre fisica degli Stati Uniti fosse, a quel tempo, in territori d’oltremare: Alaska, Hawaii, Filippine. Oggi, le parti degli Stati Uniti che non sono Stati occupano molta meno superficie del 1940, ma gli USA controllano centinaia di pezzetti di terra su isole, in paesi stranieri. Se si prende tutta quella terra e la si unisce, probabilmente si ottiene una superficie inferiore a quella del Connecticut. Non è molto spazio. Ma, quanto è importante quell’area, sia per l’esercito statunitense che per tutti i paesi e le persone che vivono proprio intorno a quel territorio e devono fare i conti con le postazioni militari degli Stati Uniti sparse in tutto il mondo. Oggi, gli USA hanno circa 800 basi militari all’estero, Gran Bretagna e Francia hanno 13 basi tra loro, mentre la Russia ne ha nove. La Cina ne ha una (a Gibuti). La maggior parte dei paesi non ne ha nessuna. Oggi, sentiamo parlare molto della Cina che sta cercando di costruire piste di atterraggio su piccole isole al largo della costa cinese, ma gli Stati Uniti lo fanno in tutto il mondo da decenni e decenni.[↩]
- Nei primi anni della guerra in Iraq, l’idea degli Stati Uniti come potenza imperiale fu, per un momento, oggetto di un acceso dibattito. Agli storici di sinistra critici dell’impero, come Noam Chomsky, si unirono allora falchi conservatori come lo storico inglese Niall Ferguson, che concordavano sul fatto che gli Stati Uniti fossero un impero, sebbene le loro opinioni divergessero profondamente sul fatto che questo fosse un bene. Nel 2004, Ferguson ha pubblicato Colossus. Ascesa e declino dell’impero americano (Mondadori, Milano 2006), in cui ha tracciato la storia imperiale degli Stati Uniti, concludendo che il mondo sarebbe un posto migliore se l’America imitasse la Gran Bretagna vittoriana e diventasse un vero e proprio «impero liberale efficace», globalizzando il libero mercato, lo Stato di diritto e il governo rappresentativo attraverso un impegno a lungo termine che riconosca la portata delle responsabilità globali. Infine, nel libro Civilization. The West and the rest (Penguin, New York 2011) Ferguson sostiene che il dominio occidentale è stato un bene. Per spiegare come è successo, Ferguson si basa su sei attributi che definisce «app assassine»: concorrenza, scienza, democrazia, medicina, consumismo ed etica del lavoro. Ogni capitolo esplora come le nazioni occidentali possedessero una di queste «app», mentre altre nazioni non sono riuscite ad acquisirle.[↩]
- Ad esempio, dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti trasformarono le isole Marianne del Nord del Pacifico, affidate alle loro cure dalle Nazioni Unite, in siti per 67 test nucleari a cielo aperto, facendo esplodere ordigni di potenza di gran lunga superiore a quelli che sganciarono sul Giappone. Le persone che vivevano sull’atollo di Bikini e su altre isole Marshall del Pacifico colpite dalle bombe furono sradicate e scaricate altrove. Non abbastanza lontano, però. La pioggia di ricadute nucleari li ricoprì di dosi radioattive, a volte fatali. Immerwahr cita Henry Kissinger che affermava: “Ci sono solo 90mila persone là fuori [in Micronesia] … chi se ne frega?”[↩]
- Il nome del paese fin dall’inizio – dal primo giorno in cui ottennero l’indipendenza dalla Gran Bretagna – era Stati Uniti d’America. Ma non si trattò di un’unione di Stati quanto di una fusione di Stati e territori.[↩]
- Nuovi territori fecero domanda di ammissione come Stati nell’Unione: alcuni ottennero l’approvazione, altri – come Lincoln, West Dakota, Deseret, Cimarron, Montezuma e il territorio a maggioranza indiana di Sequoyah – furono respinti. Immerwahr sottolinea che il razzismo ha certamente agito da freno all’espansionismo iniziale. Quando, ad esempio, l’esercito statunitense prevalse nella guerra messicano-americana nel 1848, molti membri del Congresso volevano annettere tutto il Messico. Alla fine, il vincitore limitò il suo bottino alle aree più settentrionali e meno popolate (compresi gli attuali Stati di California, Nevada e Utah) – “tutto il territorio di valore che possiamo ottenere senza prendere la popolazione”, come scrisse un editoriale di un giornale. O come affermò John C. Calhoun, il senatore pro-schiavitù della Carolina del Sud: “Non abbiamo mai sognato di incorporare nella nostra Unione nessuno che non fosse della razza caucasica – la razza libera bianca”.[↩]
- L’idea originale di Thomas Jefferson per l’acquisto della Louisiana dalla Francia nel 1803 era che avrebbe principalmente fornito l’accesso ai porti del sud e che gran parte del territorio rimanente sarebbe stato riservato ai nativi americani, insieme ai neri liberi, ai cattolici e ad altri che egli riteneva non idonei alla cittadinanza. Gran parte delle terre di frontiera erano state riservate alle popolazioni indiane, ma nel 1829 la Georgia decise di volere la terra promessa ai Cherokee dal governo federale in un trattato per far estendere le piantagioni di cotone e l’agricoltura dei coloni bianchi. La Corte Suprema concordò con i Cherokee sul fatto che la terra fosse loro. Il presidente Andrew Jackson disse quindi alla Corte, di fatto, “Tu e l’esercito di chi?”, e inviò le sue forze per far marciare i Cherokee attraverso metà del continente, uccidendone molti lungo il percorso. La destinazione stabilita su questo “Sentiero delle Lacrime” era l’Oklahoma (“terra dell’uomo rosso” in Choctaw), che era stata riservata ai Cherokee e ad altri (Immerwahr documenta che 32 tribù erano state costrette a trasferirsi lì entro il 1879). Il terreno in Oklahoma che in seguito fu aperto ai coloni per l’insediamento era di proprietà del governo federale, che lo aveva acquistato dai Cherokee in una vendita controversa, avvenuta a condizioni inferiori a quelle di mercato. Originariamente, l’Oklahoma era legalmente chiamato Paese Indiano o Territorio Indiano ed era un territorio enorme, il 46% del paese quando fu inizialmente istituito. Poi fu rapidamente ridotto ai confini dell’attuale Oklahoma. E proprio alla fine di questo processo, una sorta di gruppo compresso di varie comunità politiche indiane cercò di creare uno Stato da quello che allora era l’Oklahoma orientale e di chiamarlo Sequoyah (dal nome di colui che aveva trascritto il primo vocabolario della lingua Cherokee). Non sarebbe stato uno Stato interamente indiano o interamente nativo (bianco) americano. Sarebbe stato misto. Ma la loro speranza era di avere almeno una popolazione sufficiente per avere una maggioranza di governo al suo interno. Fecero domanda per diventare uno Stato; la loro richiesta fu respinta e, invece, Sequoyah fu assorbita nello Stato a maggioranza bianca dell’Oklahoma.[↩]
- Il giovane Theodore Roosevelt fu contagiato dalla febbre della frontiera. Era un membro di una famiglia d’élite della costa orientale, ma trascorse gran parte della sua giovinezza a vagabondare nell’ovest, costruendosi il mito di uomo di frontiera attraverso la scrittura di libri con titoli come “Battute di caccia di un allevatore”. Roosevelt era anche un guerrafondaio insaziabile che proclamava con entusiasmo che “la più giusta di tutte le guerre è la guerra contro i selvaggi”. Una foto inclusa nel libro di Immerwahr di un Roosevelt ventenne in posa rigidamente in un abito di pelle di daino con le mani strette attorno a un fucile suggerisce che la sua ossessione per la virilità bellicosa potrebbe essere stata una forma di iper-compensazione. Entro il 1890, la frontiera sul continente era stata chiusa, ma Roosevelt era fortunato, perché l’impero spagnolo in declino stava brutalmente reprimendo una ribellione a Cuba che, insieme all’affondamento della USS Maine, servì da pretesto per la guerra ispano-americana (che era iniziata come una guerra d’indipendenza dalla Spagna da parte delle sue colonie Cuba, Porto Rico e Filippine). Cuba ottenne l’indipendenza tecnica, ma con una sovranità compromessa, poiché gli Stati Uniti insistettero sul diritto di invadere e lo fecero quattro volte. Accordi simili vennero conclusi con Nicaragua, Repubblica Dominicana, Guatemala, Panama, Costa Rica, Messico e Haiti e portarono a una trentina di interventi militari statunitensi tra il 1903 e il 1934.[↩]
- L’impero fu commemorato in canzoni e libri, mentre gli americani appendevano mappe ridisegnate alle pareti e accorrevano in massa alla “First Greater America Colonial Exposition” a Omaha, dove un gruppo di filippini entusiasmò la folla con un’interpretazione di “There’ll Be a Hot Time in the Old Town Tonight”. Il famoso architetto Daniel Burnham, progettista del Flatiron Building di New York, fu incaricato di ridisegnare gli spazi pubblici di Manila e costruì un complesso imperiale in stile neoclassico a Baguio, a 150 miglia dalla capitale, ispirandosi alle stazioni di montagna dove i colonizzatori britannici si rinfrescavano d’estate.[↩]
- Kipling (1865-1936) aveva scritto «The white man’s burden» in occasione del giubileo di diamante (60 anni di regno) della regina Vittoria (1819-1901) nel 1897, ma per questa occasione preferì pubblicare il poema «Recessional», mentre pubblicò «il fardello» nel 1899, adattandolo al tema dell’espansione della colonizzazione americana delle Filippine dopo la guerra ispano-americana del 1898.[↩]
- L’anchilostomiasi è un’infezione che nell’uomo è causata da due specie di vermi uncinati del phylum dei Nematodi, l’Ancylostoma duodenale e il Necator americanus.[↩]
- La Cina sta prendendo spunto da questa strategia. La Cina non ha la stessa estensione territoriale degli Stati Uniti e non ha avuto la stessa storia nel XX secolo, con la rivendicazione della sovranità di centinaia di isole. Quindi, la Cina sta creando delle proprie isole artificiali nel Mar Cinese Meridionale che servono allo stesso scopo, che possono essere utilizzate come piccoli punti, come basi militari, come un modo per la Cina di estendere la propria influenza grazie a questi piccoli puntini di terra.[↩]
- Il potere degli Stati Uniti non può essere compreso senza il Piano Marshall, o il sostegno americano alla rimozione del Primo Ministro Mohammed Mossadegh in Iran nel 1953 e del Presidente Salvador Allende in Cile nel 1973.[↩]
- Immerwahr ricostruisce la storia della famiglia Bin Laden. Mohamed Bin Laden, nato in Yemen, divenne il costruttore preferito del governo saudita negli anni ’50 e lavorò a molti progetti classificati per l’esercito statunitense prima di morire in un incidente aereo nel 1967. Osama era uno dei suoi 54 figli.[↩]