L’Occidente moderno trae le sue origini dalla Grecia e da Roma, società che a loro volta erano debitrici delle culture che le avevano precedute e circondate. La Grecia classica e Roma avevano un enorme debito culturale (che riconoscevano) con le società che le avevano precedute e circondate. Pertanto, le nozioni che queste culture siano le uniche e dirette progenitrici antiche dell’Occidente moderno sono ottuse. C’era bisogno di un nuovo tipo di storia antica e di storia incentrata sulle connessioni. E ora l’abbiamo. Una nuova storia radicale del mondo antico che sfida il pregiudizio moderno e che ci dice che la storia dell’Occidente non è esattamente quella che abbiamo imparato a scuola.
Josephine Quinn, professoressa di storia antica ad Oxford, ha scritto un capolavoro affascinante, “Occidente. Un racconto lungo 4000 anni”, Feltrinelli, Milano 2024. Ripercorrendo 4.000 anni di storia prevalentemente europea, Quinn smantella il paradigma del “pensiero di civiltà” (“civilisational thinking”) per sottolineare la permeabilità dell’Occidente. Il suo scopo è quello di detronizzare la “connessione privilegiata” tra gli antichi Greci e Romani (riscoperti nell’Italia rinascimentale) e l’Occidente moderno1, e concentrarsi invece sui millenni di interazione con altre culture (dall’Età del Bronzo all’Età delle Esplorazioni, quando gli Stati marittimi dell’estremo ovest dell’Europa cominciarono a creare un nuovo mondo atlantico sotto il potere della cristianità). Greci e Romani fecero sempre parte di una rete più ampia di culture e raramente furono esempi di valori che noi oggi identificheremmo come occidentali2. In ogni caso, i cosiddetti valori occidentali – democrazia, libertà, razionalità, giustizia, tolleranza, progresso, scienza – non sono solo o originariamente occidentali, suggerisce Quinn, ma “l’Occidente stesso è in gran parte un prodotto di legami di lunga data con una rete di società molto più ampia”. “Non c’è mai stata una singola, pura cultura occidentale o europea”, scrive Quinn, e la storia dell’antichità classica è in effetti una rete di molteplici lingue e culture. Molti dei risultati solitamente attribuiti a individui o periodi particolari erano in realtà il risultato di prestiti e scambi di lunga data. Per cui, le radici dell’Occidente moderno sono individuabili in ogni campo, dai codici di legge di Babilonia, all’irrigazione assira e all’arte fenicia della vela, alla scultura egiziana, all’alfabeto della città di Ugarit nel Levante (le terre comprese tra l’Eufrate e il Mediterraneo), alla letteratura indiana, all’erudizione araba (sia letteraria sia matematica) e ai cavalieri metallurgici della steppa, per citare solo alcuni esempi.
A proposito del suo libro Quinn ha affermato: “Vorrei solo che le persone capissero che c’è un mondo più grande là fuori, e che la Grecia e Roma sono così interessanti, ma come parte di un mondo più grande. Quindi, per molto tempo ho pensato di voler scrivere un libro che fosse — non tanto decentrare la Grecia e Roma quanto contestualizzarle — inserirle nel contesto più ampio della storia antica e medievale e mostrare che un mondo immenso di connessioni e contatti e incontri e così via, guerre, esplorazioni, pellegrinaggi, tutte queste cose, ha contribuito allo scambio di idee tra le persone che hanno costituito nuove società, in particolare la società occidentale. Non sono i popoli a fare la storia, ma le persone e le connessioni che si creano tra loro”.
Come sfida al “pensiero di civiltà”, Quinn ha scritto una storia ambiziosa e in rapida evoluzione del mondo premoderno che contestualizza deliberatamente Grecia e Roma e getta luce su una serie di altri popoli e lingue. Non c’è cultura senza contatto, come dimostra. I principali protagonisti della sua storia sono commercianti e viaggiatori, non imperatori o generali. Quinn ci ricorda che coloro che vagavano e si smarrivano (marinai, soldati, mercanti, artigiani, artisti e intellettuali) hanno fatto la storia in primo luogo.
Come testimonia qualsiasi breve osservazione delle antichità museali di Atene, Roma o Berlino, un apprezzamento delle relazioni tra le culture del Mediterraneo orientale e occidentale, o l’insediamento umano attraverso il Levante e il Nord Africa, o i flussi commerciali tra l’Europa settentrionale e la penisola iberica e tra questa e le città levantine, non è una rivelazione sorprendente. Pochi resoconti pubblici del passato oggi sottoscrivono gli ideali dell’età vittoriana di un’eredità classica immacolata3. Tuttavia, Quinn persegue questa affermazione con un’impressionante esibizione di rigorosa erudizione e competenza, che copre con successo un’enorme quantità di materiale documentario (testi antichi e ritrovamenti archeologici).
Trenta capitoli estremamente chiari e leggibili, corredati da mappe, illustrazioni a colori e circa un centinaio di pagine di note bibliografiche, costituiscono la trama di un libro di oltre 560 pagine. Il libro di Quinn è un esempio di come scrivere una storia globale che metta l’interazione al centro. Il suo sottotitolo piuttosto imponente, “Una storia lunga 4000 anni”, dà un’idea della sua portata. Si comincia nei pressi di Ur nell’antica Mesopotamia, l’odierno Iraq, nel 2400 a.C., quando ricche tombe si riempiono di pietre esotiche provenienti da luoghi remoti, “lapislazzuli dall’Afghanistan e turchesi dall’Uzbekistan, così come corniola dalla valle dell’Indo”. Poi all’altopiano di Cnosso a Creta, dove nel terzo millennio a.C. gli isolani adottano calici in stile siriano per il vino e importano avorio di ippopotamo e perle blu dall’Egitto. Ci sono le storie dell’antica città di Byblo (nel moderno Libano), dei Minoici a Creta, dei Micenei e di Babilonia. Proseguendo attraverso gli estesi sistemi commerciali del Levante, l’età del bronzo e del ferro, tracciando la storia dei Fenici (con le città marinare di Tiro, Sidone e Cartagine), dei Persiani, delle antiche città dell’Anatolia, dei Greci, degli Etruschi, degli Egizi, dei porti e delle colonie greche in Sicilia e nell’Italia meridionale, e dei Romani fino alla caduta di Roma. Che in realtà non avvenne nel 476 d.C.. Invece, “le cose stavano cambiando nelle province romane occidentali, portando a diversi modi di vita e di governo”, e il luogo dell’impero si stava spostando verso est, a Costantinopoli, dove rimase per oltre mille anni (fino al 1453). L’autrice offre anche brevi resoconti sull’Islam (con gli arabi che unirono il sapere greco alla scienza originaria di Persia, India e Asia centrale), Carlo Magno e i Vichinghi e termina con l’umanesimo rinascimentale e il colonialismo europeo del XV secolo d.C..
Quinn procede veloce oltre la maggior parte dei soliti punti di riferimento, dedicando attenzione a luoghi meno familiari. Non appena avvistiamo la Grecia, torniamo nel Levante per esplorare l’importazione dell’alfabeto dall’antico Vicino Oriente4. Questo è, in ogni modo, un grande libro ricco di dettagli meravigliosi e riesce a far rivivere il mondo preclassico. C’è qualcosa del moderno adolescente nel lamentoso re minore che conclude una lettera al faraone d’Egitto con la frase “Mandami molto oro”. Questa è una delle lettere “Amarna” (XIV secolo a.C.) tra i monarchi d’Egitto, Cipro, Babilonia, Hatti, Mitanni, che Quinn dice “rivelano l’importanza del contatto e della comunicazione tra quelle che sono solitamente considerate antiche culture o civiltà separate”. Compartimentare la storia in un insieme di civiltà distinte ed essenzialmente autonome è una ricerca sbagliata che ha pericolosamente distorto la nostra comprensione del mondo, afferma Quinn: “Non sono i popoli a fare la storia, ma le persone e le connessioni che creano tra loro”.
Quinn utilizza proficuamente le scoperte avanzate nel DNA per affossare antichi miti di civiltà. L’idea di una razza etrusca separata nel IX secolo a.C. viene abbattuta dalle prove del loro profilo genetico molto simile a quello dei loro vicini italiani. Dai siti di sepoltura, ora possiamo anche tracciare l’immigrazione dell’età del ferro dall’antica Cartagine e dal Nord Africa in Sardegna.
Quinn sottolinea ripetutamente l’importanza del cambiamento climatico nell’evoluzione delle civiltà, con il clima mite del “Periodo caldo romano” (dal 250 a.C. al 150 d.C. circa) che ha contribuito alla stabilità e al potere di Roma. È anche affascinata dalla costruzione storica di testi occidentali fondamentali come l’Iliade e l’Eneide, quest’ultima rappresentata in una lettura diversificata e multiculturale, con Virgilio che raffigura “la società romana non solo come aperta ma anche come dipendente dai forestieri”5.
Smantellare i miti del “pensiero di civiltà”
Quinn ha avviato il progetto del libro volendo mettere in discussione il ruolo stereotipato della Grecia e di Roma nelle idee sulla civilizzazione occidentale. L’idea che greci e romani sono le radici della civiltà occidentale6. Soprattutto, perché vedeva una storia più ampia e interessante di quella. Da specialista nella storia classica, vedeva che gli autori greci e romani stessi ammettevano frequentemente il loro debito culturale verso gli egiziani, gli assiri, i levantini, i fenici, i persiani e tanti altri popoli. Presentavano costantemente la propria cultura come il risultato di contatti e scambi. E loro spesso celebravano le connessioni nel presente con altri popoli sia che si trattasse di alleanze esistenti o di inventare delle relazioni e connessioni di familiarità, alberi genealogici per loro stessi, per i loro re o i loro eroi. Qualche volta sono popoli che sono realmente esistiti, come i frigi e i lidi, altre volte sono popoli che, per quanto ne sappiamo oggi, non sono realmente esistiti, come le Amazzoni. Quinn si basa sugli scritti che hanno lasciato con ricche analisi di altre fonti letterarie antiche come l’epopea di Gilgamesh, testi sacri e documenti recentemente scoperti che rivelano dettagli della vita quotidiana. Attinge anche alla cultura materiale dell’epoca nell’arte e nei manufatti, nonché alle scoperte degli ultimi progressi scientifici nella datazione al carbonio e nella genetica umana per sfatare a fondo il mito dell’Occidente moderno come miracolo autoprodotto.
Quinn ha iniziato il suo progetto pensando a queste questioni. Il libro è il frutto di 20 anni di lavoro, di ricerca sui testi e le evidenze archeologiche, di confronti con colleghi e studenti. Ha ritenuto che la persistenza di questa idea dell’origine greco-romana, con o senza la presenza della Bibbia (la tradizione giudaico-cristiana), fosse un sintomo di un più ampio fenomeno, di una questione molto problematica: quella che lei chiama il “civilisational thinking”, il “pensiero di civiltà”. E questo è diventato il target del libro mentre lo scriveva.
Le civilizzazioni possono sembrare un modo molto naturale per parlare di storia. Ma quello che la Quinn ha realizzato nel corso della scrittura è che sono concetti moderni, essenzialmente inventati dagli intellettuali europei per spiegare la superiorità dell’Europa, degli Stati-nazione europei, e per giustificare i loro imperi. Il termine civilizzazione è stato utilizzato per la prima volta dal marchese di Mirabeau solo nel 1759 per denotare un’idea astratta di società avanzata7. Appare nel contesto delle idee dell’Illuminismo, di un universalismo orientato in senso positivo, di un’idea della storia come progresso costante, dell’idea che l’umanità evolve dall’essere fatta da cacciatori-raccoglitori ad allevatori nomadi, ad agricoltori e eventualmente a mercanti, a industriali e a intellettuali ricercatori. Questa idea della civilizzazione nel XVIII secolo emerge nel pensiero europeo come l’obiettivo definitivo della fioritura umana. Nel XVIII secolo è una teoria astratta: chiunque può ottenere la civilizzazione se si impegna a sufficienza. Questi intellettuali europei che usano per primi questo termine – prima in Francia e poi in Scozia (da Adam Ferguson e Adam Smith) – tendono a scoprire che gli europei sono i migliori a raggiungere la civilizzazione. In questa fase storica, è un fatto che viene considerato solo come il frutto di una coincidenza.
Certo, comunque, nota Quinn, in questa fase il concetto di civilizzazione è molto utile per questi intellettuali perché fornisce una qualche giustificazione per alcune delle cose che gli europei stavano facendo in altre parti del mondo. Così, le giustificazioni degli imperi erano che gli europei stavano aiutando – anche applicando diverse forme di dispotismo – gli altri popoli ad intraprendere o accelerare il loro percorso verso la civilizzazione che gli Stati-nazione europei avevano trovato per casualità. Oppure, servivano per giustificare l’appropriazione, con le buone o con le cattive maniere, dei beni, delle terre e del lavoro degli altri popoli. In ogni caso, questa giustificazione era un qualcosa che faceva sentire meglio gli intellettuali (e non solo) europei.
Nel XIX secolo, però, ci sono dei nuovi sviluppi del “pensiero di civiltà” che hanno fornito la giustificazione culturale per la supremazia dell’Europa occidentale, consentendo l’espansione coloniale e le gerarchie razziali. Per la prima volta negli anni 1820 in Francia (con Francois Guizot nel 1828) si usa il termine civilizzazione al plurale – civilizzazioni. La civiltà non è più una singola cosa astratta che chiunque può aspirare ad ottenere, ma è qualcosa di cui può essere detto di un posto particolare, di un popolo particolare. Si sostiene che ci sono molteplici civiltà che sono differenti per caratteristiche sociali, economiche, culturali e ideologiche. Si sostiene, però, che ci sono dei limiti naturali al loro progresso. Così, nel corso del XIX secolo, molta attenzione viene focalizzata nella costruzione di ordini gerarchici delle civilizzazioni, identificando e classificando i tratti culturali intrinseci delle singole società. Anche questa visione è molto utile per l’imperialismo europeo perché ora le potenze europee – a cominciare dalla Gran Bretagna – non devono neanche necessariamente aiutare gli altri popoli nel percorso verso la civilizzazione se, sfortunatamente, ci sono dei popoli che non possono essere aiutati e, quindi, si possono appropriare i loro beni, le loro terre e i frutti del loro lavoro. Questo tipo di “pensiero di civiltà” coincide con una forma più violenta ed estrattiva di imperialismo europeo sul resto del mondo che culmina con la “spartizione dell’Africa” (dopo la conferenza di Berlino del 1884-85) e le atrocità commesse dagli europei nel Congo belga e altrove8.
Allo stesso tempo, è in questa fase storica che, insieme al concetto di civilizzazione al plurale, emerge un altro concetto – l’idea delle razze umane –, un termine in origine usato per gli animali (per cavalli e maiali, ma che già nel XVIII secolo alcuni studiosi europei avevano cominciato ad applicare alla specie umana sulla base del colore della pelle) e che dalla fine del XIX secolo viene confezionato su basi “scientifiche” (con l’eugenetica americana e poi nazista). Si afferma l’idea che fosse possibile dividere e segmentare la razza umana come un concetto astratto nel suo complesso in un numero di razze differenti che possono essere messe in un ordine gerarchico – con razze umane superiori e razze umane inferiori (dotate di intelligenza e capacità naturali differenti ancorate al colore della pelle) – e che hanno un limite naturale (determinato da caratteristiche biologiche innate) al loro progresso9.
Nel XX secolo la questione degli ordini gerarchici va fuori moda verso la metà del secolo, con l’instaurazione del nuovo “ordine mondiale liberale” sancito dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dal “sistema di Bretton Woods”, la Guerra Fredda e la dissoluzione degli imperi coloniali, ma le civilizzazioni sono ancora trattate come un fatto naturale in relazione alla storia mondiale. Pertanto, l’unica cosa interessante diviene quella di capire come mai alcuni popoli fanno meglio di altri (utilizzando la teoria della “modernizzazione” di W.W. Rostow o quelle della “scuola della dipendenza” o altre ancora), o perché sono rimasti indietro o si sono scontrati10.
E nel XXI secolo è ancora la norma, suggerisce Quinn, erroneamente distinguere “l’Occidente”, una cultura cristiana con radici greco-romane o addirittura “indoeuropee”, dall’Oriente, che sia incentrato sulla Russia, sulla Cina o sull’Islam (per non parlare poi dei popoli del “Sud globale”). Quinn, scrivendo questo libro, voleva mettere in discussione tutto questo quadro ideologico legato a uno storicismo fuori luogo e l’idea che le culture crescono come alberi in una foresta, l’uno a fianco all’altro, ma ciascuno con le proprie radici distinte e i propri rami separati da quelli dei loro vicini. Una visione che, secondo Quinn, è un problema perché impedisce di comprendere in modo appropriato (soprattutto in base alle evidenze storiche e archeologiche esistenti) la storia umana. Il modello del “pensiero di civiltà” dipende dall’idea che questi più grandi blocchi separati emergono, crescono, fioriscono e declinano in gran parte da soli, anche se nessuno ha mai affermato che le civiltà non abbiano avuto dei contatti tra di loro. Ma, ancora oggi, molti ricercatori e intellettuali sostengono che i contatti siano stati realmente minimi e superficiali, e che la storia sia la civilizzazione e non i contatti e le interconnessioni tra le diverse civiltà. Questo significa che il cambiamento e la crescita nelle comunità delle società umane devono essere viste come frutti di uno sviluppo interno, tendenzialmente autoreferenziale. È in questo modo che si ha l’idea che la “civiltà occidentale” deve avere la sua origine in Grecia e a Roma o, all’inizio del XX secolo, in Germania (con i “popoli barbari germanici” così come descritti da Tacito), o nella cristianità medioevale in altri tempi.
Quinn ritiene che questo modo di vedere la storia rappresenta un impasse che ci porta a guardare il mondo con gli occhi del XIX secolo. Se non altro, rispetto ad allora, ci siamo liberati dell’idea delle razze, grazie alla ricerca genetica scientifica. Oggi, sappiamo che gli umani sono tutti strettamente imparentati gli uni con gli altri (e discendono tutti da un comune progenitore africano) e che i raggruppamenti genetici che si possono tracciare con il DNA sono molto diversi da quelli del recente passato. “Sono una singola istantanea di un processo umano di connessione e scambio che non si è mai interrotto” (pag. 23). La comunità scientifica dei genetisti coinvolta in questa rivoluzione genetica ha cambiato il modo in cui la razza umana appare a se stessa (non esiste nessuna realtà biologica riconoscibile nel DNA umano identificabile come “razza”).
Quinn cita David Reich, professore di genetica ad Harvard, che afferma che per le popolazioni umane non dovremmo parlare di alberi ma di “pergolato”, che si dirama e si reintreccia fin dal lontano passato (”la rivoluzione del genoma ci ha insegnato che le grandi mescolanze di popolazioni molto divergenti sono avvenute più e più volte”). Se parliamo di relazioni umane non dobbiamo parlare di “alberi” ma di “pergolati” che connettono tutti con tutti gli altri.
Quello che Quinn ha voluto fare nei trenta capitoli del suo libro è sostenere lo stesso punto di vista per la cultura umana. Il “pensiero di civiltà” travisa il modo in cui gli umani hanno operato e operano. La società umana non è fatta di un gruppo di alberi in una foresta ma di una “aiuola di fiori che hanno bisogno regolarmente dell’impollinazione per essere seminati e crescere di nuovo” (pag. 24). Un’aiuola di fiori in cui culture locali distintive vanno e vengono, e questo andare e venire è creato e sostenuto da interazioni.
Si avvicina il 50° anniversario del libro fondamentale “Orientalismo” di Edward Said, fautore del relativismo culturale e della decolonizzazione del pensiero occidentale, e siamo a quasi 4 anni dalla pubblicazione di un altro libro revisionista fondamentale, “L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità” di David Graeber e David Wengrow (che Quinn cita nelle note), e possiamo dire che, alla fine, la storia di ciò che oggi chiamiamo Occidente – nel libro della Quinn, le nazioni dell’Europa occidentale e le colonie di popolamento fuori dal continente europeo – è per Quinn uno studio di caso per l’argomento più ampio che il vero cambiamento storico deriva solo dalle nuove connessioni e interrelazioni tra popoli differenti che si scambiano idee non familiari. Scambi di idee che nelle società preindustriali sono avvenuti con un sacco di guerre, un sacco di storie orali e scritte, e un sacco di commercio (soprattutto di lunga distanza per merci di lusso) in un mondo in cui anche la transazione più semplice implicava l’incontro delle menti. E dell’incontro delle menti è quello di cui parla questo meraviglioso libro che copre gli anni che vanno dal 2000 a.C. al 1500 d.C.11.
Alessandro Scassellati
- Il termine “Occidente” entrò nell’uso verso la fine del Settecento nell’Europa continentale e in Gran Bretagna, mentre negli Stati Uniti comparve più tardi. Invece, l’espressione “Civiltà Occidentale” cominciò ad essere usata negli anni quaranta dell’Ottocento.[↩]
- “La democrazia ateniese era riservata agli uomini, che apprezzavano la seduzione nei confronti dei ragazzi, mentre le donne dovevano tacere e portare il velo. I romani praticavano la schiavitù su vasta scala e assistevano a esecuzioni capitali pubbliche per divertimento” (pag. 16).[↩]
- Musei enciclopedici pieni di collezioni mondiali, dal Louvre a Abu Dhabi al Metropolitan Museum of Art di New York, hanno cercato a lungo di suggerire che lo studio dell’antichità smentisce l’idea che tutti nascano con un’identità etnica naturale e fissa, legata ad altre persone specifiche per discendenza o territorio ancestrale. Sono, in altre parole, luoghi di accrescimento e ibridazione la cui vasta gamma di oggetti e manufatti cerca di negare la nozione di una cultura organica, pura o essenziale.[↩]
- Dalla creazione dell’alfabeto da parte dei lavoratori levantini in Egitto, che in una terra straniera furono spinti a scrivere le cose nella loro lingua per la prima volta, all’arrivo dei numeri indiani in Europa tramite il mondo arabo, Quinn sostiene che comprendere le società in isolamento è sia obsoleto che sbagliato. Sono i contatti e le connessioni, piuttosto che le civiltà solitarie, a guidare il cambiamento storico.[↩]
- La cultura non viene mai creata ex novo, ma cresce da un’influenza più ampia e doveva essere costruita socialmente. “Non c’è dubbio”, mostra Quinn in un passaggio affascinante sugli echi omerici di precedenti poemi epici, “che le prime opere della letteratura greca conservino tracce di incontri con un mondo più ampio di canzoni in altre lingue”. Inoltre, scrive: “Come l’Esodo israelita dall’Egitto nella Bibbia ebraica, l’Iliade è una storia su una spedizione congiunta nel lontano passato che ha riunito un popolo come comunità, raccontata in una lingua che condividono”.[↩]
- “La battaglia di Maratona, anche come evento nella storia inglese, è più importante della battaglia di Hastings”, rifletteva il filosofo vittoriano John Stuart Mill sulla decisiva sconfitta ateniese dei persiani nel 490 a.C.. “Se l’esito quel giorno fosse stato diverso, i Britanni e i Sassoni avrebbero potuto ancora vagare nei boschi”. Nel 1836, Mill identificava il progresso verso la civiltà che si misurava con la diffusione di agricoltura, centri urbani, industria, tecnologia e commercio. Mill non era il solo a inquadrare il passato antico come una lotta di civiltà con implicazioni per il presente. Quando nel 1896 Arthur Evans, il direttore dell’Ashmolean Museum di Oxford, supervisionò gli scavi archeologici di rovine “minoiche” (un termine interamente inventato), esaltò Creta, definendola “la campionessa dello spirito europeo contro il giogo dell’Asia”. Ma “l’idea che i Micenei e i Minoici fossero civiltà separate ha meno di un secolo”, nota Quinn. “Inizialmente erano solo nomi rivali per la stessa cultura egea dell’età del bronzo vista da prospettive diverse”. Questa “cultura” egea, chiarisce, non era “una singola civiltà egea”, ma piuttosto comprendeva molte piccole popolazioni che competevano e si scambiavano idee ed erano inserite in un sistema di scambi culturali più ampio che al centro aveva le città del Levante.[↩]
- Gli studiosi tedeschi, però, non ritenevano che la “civiltà” fosse lo scopo ultimo della storia umana. Privilegiavano la forza morale della “Kultur” alla “Zivilisation”, quest’ultima da loro identificata come la decadente eleganza francese.[↩]
- Questo anche se non ci volle fino al XIX secolo perché arrivasse l’idea di “Occidente”, come nota Quinn. La “prima versione nota di una polarità binaria che contrappone l’Europa all’Asia”, osserva, si trova già nei racconti di Erodoto sulle guerre persiane; e i cristiani franchi iniziarono a pensare a se stessi come “europei” sulla scia della conquista araba. Nel XIX secolo, si era anche sviluppata l’idea che l’Impero romano valesse la pena di essere studiato come modello per gli imperi moderni e che imparare le battaglie di Giulio Cesare fosse un buon modo per padroneggiare l’arte moderna della guerra. Ciò significava che una certa quantità di storia antica veniva studiata insieme a grammatica e sintassi, ma ancora oggi “storia antica” nei programmi universitari indica la storia dell’antica Grecia e Roma, e “Grecia” significa principalmente Atene. I vicini stretti con cui i Greci e i Romani si confrontarono, come gli Etruschi e i Cartaginesi, potrebbero avere avuto parti di secondo piano nella storia, ma persino i Persiani sono stati esaminati solo dalla prospettiva del racconto di Erodoto del loro tentativo di sottomettere Atene. Ancora oggi, se si chiede ai classicisti della vita quotidiana dei Volsci (come nel Coriolano di Shakespeare), probabilmente rimarranno senza parole, anche se i capitoli di Livio traboccano dei loro guerrieri. Né i classicisti hanno molto da dire sulla storia antica della Gallia, della Carpazia e di altre terre in cui la scrittura non era utilizzata. Il consenso è che i loro abitanti siano considerati “preistorici” e indegni di studio all’interno di un programma di storia antica.[↩]
- Su tutta questa questione civilizzazionale e razziale si veda anche il mio libro, Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura e ideologia della società occidentale, DeriveApprodi, Roma 2023. Oggi, permane il retaggio euro-americano occidentale bianco che, secondo i fanatici dell’Occidente bianco, sarebbe minacciato dalla “grande sostituzione” proveniente dai popoli “colorati” del Sud del mondo.[↩]
- Ad esempio, il libro “The Clash of Civilizations” (1996), “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” di Samuel Huntington prevedeva che le guerre future non si sarebbero verificate tra Stati (per ragioni politiche o economiche), ma tra “civiltà” monolitiche e omogenee come quella “occidentale”, “islamica”, “africana” o “sinica” (cinese). Huntington sosteneva che “per gran parte dell’esistenza umana i contatti tra le varie civiltà sono stati intermittenti o del tutto inesistenti”. Non ammetteva che la “civiltà occidentale” non esisterebbe senza le sue influenze islamiche, africane, indiane e cinesi. Per capirne il motivo, Quinn ci riporta indietro nel tempo, a partire dal vivace porto di Byblos in Libano, intorno al 2000 a.C.. Era la metà dell’età del bronzo, che “inaugurava una nuova era di scambi regolari a lunga distanza”. Le tecniche di datazione al carbonio applicate ai recenti ritrovamenti archeologici forniscono prove convincenti su quanto fosse già “globalizzato” il Mediterraneo, 4000 anni fa. Il rame gallese andava in Scandinavia e lo stagno della Cornovaglia fino in Germania, per la forgiatura di armi in bronzo. Le perle di ambra baltica, trovate nelle tombe dei nobili micenei, venivano prodotte in Gran Bretagna. Mille anni dopo, il commercio lungo la costa atlantica fece sì che “i calderoni irlandesi diventassero particolarmente popolari nel Portogallo settentrionale”. Con scambi commerciali e viaggi così incessanti, arriva, naturalmente, la commistione culturale. “Gli scambi con l’estero significavano che i cretesi potevano scegliere tra diverse opzioni culturali, e lo facevano”, osserva Quinn. L’appropriazione culturale non era ancora un affronto; anzi, poteva essere un punto di forza, come apprendiamo più tardi dall’osservazione di Polibio sui Romani emergenti: “Sono insolitamente disposti a sostituire i propri costumi con pratiche migliori provenienti da altri luoghi”.[↩]
- Se la versione forte della tesi di Quinn, secondo cui le culture separate non esistono, potrebbe essere messa in dubbio, la versione debole, secondo cui “non c’è mai stata una singola, pura cultura occidentale o europea”, rimane un punto prezioso, e il suo libro è pieno di piccole gemme che cambiano la nostra prospettiva. Costantino, ad esempio, è descritto come colui che introdusse “un dio asiatico” (quello cristiano) nell’impero romano. Dell’Atene classica, scrive: “Come la pederastia e la nudità pubblica, la democrazia era una pratica locale distintiva che serviva a distinguere alcune comunità di lingua greca”. Lei pensa anche che dovremmo adottare alcune pratiche della democrazia ateniese come l’elezione tramite lotteria, che “ha minato il populismo cinico”. In seguito, le Crociate, sostiene, non furono uno “scontro di civiltà”, ma piuttosto ebbero luogo in un mondo in cui “la cultura non ha una collocazione naturale”.[↩]