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Cina e USA in rotta di collisione: solo una “terza potenza mondiale” può evitare la guerra

di Franco
Ferrari

Il XX Congresso del Partito Comunista Cinese è terminato senza che commentatori e analisti modificassero sostanzialmente quanto avevano previsto fin dall’inizio: un rafforzamento del potere di Xi Jinping e contemporaneamente un aggiustamento della strategia politica di medio temine. Questa ora più attenta a segnalare una serie di rischi che mettono al centro il tema della “sicurezza” piuttosto che una semplice riproposizione della crescita economica come cardine della politica cinese.

Solo l’allontanamento di Hu Jintao, il leader che aveva preceduto Xi Jinping, dalla sala del Congresso, vicenda sulla quale si sono scatenate supposizioni e dietrologie (a cui, personalmente, non crediamo) ha sollecitato qualche interesse dai media internazionali. Per il resto sono state analizzate promozioni e retrocessioni negli organismi dirigenti dalle quali si cerca di trarre, riprendendo gli schemi un tempo usuali dei cremlinologi, indicazioni sulle future politiche della leadership cinese.

Due elementi sono sicuramenti emersi con una certa forza dal ragionamento complessivo prima esposto nella relazione di Xi Jinping e poi nel documento finale del Congresso: una chiara opposizione ad ogni tendenza separatista che possa trasformare Taiwan in uno Stato indipendente; il proseguimento del processo di modernizzazione dell’Esercito Popolare Cinese. Nel primo caso si tratta di una riaffermazione di un principio sempre sostenuto dalla Cina ma ribadito e rafforzato in un contesto di crescenti tensioni internazionali.  Nel secondo caso si proseguirà sulla strada di un rafforzamento delle spese militari. Dal 2017 al 2021 gli stanziamenti a tal fine sono cresciuti da 210 miliardi di dollari a 293 miliardi annui. Una crescita che lascia comunque la Cina molto distante dagli 801 miliardi di spesa annua degli Stati Uniti. Le cui spese militari sono cresciute nello stesso periodo di 153 miliardi, il che significa che la distanza tra la prima e la seconda potenza mondiali in termini militari si è accresciuta nonostante la politica di rafforzamento della Cina.

I rapporti tra Stati Uniti e Cina si sono andati modificando nel corso degli ultimi decenni. Gli Stati Uniti hanno ritenuto, fino ad un certo punto, di poter integrare Pechino all’interno di un assetto globale unipolare di cui costituivano la potenza egemone. L’ampliamento della proprietà privata, l’adozione di meccanismi di mercato, l’inserimento nel WTO e il ruolo di fatto subalterno della Cina nelle catene del valore mondiale, facevano ritenere che la presenza di un sistema politico diretto da un partito che ancora si definisce comunista poteva essere accettato senza che questo turbasse il dominio degli Stati Uniti a livello mondiale.

Questa relativa tolleranza è stata rimessa in discussione da due fatti: la forte crescita economica cinese basata anche su una aumentata capacità di innovazione tecnologica e il mutamento di indirizzo che ha impresso alla Cina la direzione di Xi Jinping. Dal punto di vista di Washington era sempre più evidente che cominciava ad emergere un nuovo competitore globale che non si accontentava più di essere solo il fornitore di mano d’opera a basso prezzo per le grandi multinazionali occidentali con un ruolo subalterno e accomodante nella divisione mondiale del lavoro.

La maggioranza della leadership cinese, che ha garantito l’ascesa e la permanenza al potere di Xi Jinping, si è trovata a fronteggiare una serie di contraddizioni sia interne che legate alla sua collocazione internazionale. Abbiamo segnalato già nel nostro articolo della scorsa settimana come Xi abbia dato un quadro molto critico della situazione cinese quale si era trovato nel momento della sua elezioni alla guida del Partito Comunista. Stavano emergendo crescenti contraddizioni tra l’estensione di elementi di capitalismo e la capacità del partito di guidare la società e di indirizzarla verso obbiettivi di lungo periodo.

La risposta che il PC Cinese ha dato a quelle contraddizioni è consistita nel riaffermare il primato del potere politico sui capitalisti privati, cercare di attenuare alcune delle forti contraddizioni sociali che stavano emergendo nel Paese e anche ridurre gli spazi di circolazione di opinioni e forme di dissenso che potevano avvalersi dei nuovi social media.

Nelle analisi occidentali tutto questo è esaminato come se fosse il frutto di una pura deriva autoritaria del potere cinese separandola dal contesto globale. Mentre è evidente che un Paese come la Cina, che produce il 18% del Pil globale, che è ricettore di una grande mole di investimenti diretti dall’estero e che dispone in termini quantitativi del più grande ceto medio del mondo, non può più muoversi solo sulla base di dinamiche interne, ma necessariamente risente dell’emergere di crescenti contraddizioni nel nuovo capitalismo globalizzato.

Le scelte della leadership cinese, seppure non in modo esclusivo e senza per questo legittimarle come le uniche scelte possibili, sono state condizionate da due elementi esterni: la crisi di egemonia del capitalismo liberale dovute alle mancate promesse dei benefici della globalizzazione; la paura degli Stati Uniti di perdere il ruolo di stato dominante mondiale e con esso i numerosi benefici economici che ne derivano.

Questa crisi di egemonia ha portato ad una serie di reazioni a livello mondiale che hanno portato al rafforzarsi del nazionalismo (per lo più di impronta reazionaria), dell’autoritarismo, del fondamentalismo religioso ecc., in mancanza di una alternativa di ispirazione socialista e progressista. Unica parziale e limitata eccezione in questo quadro si è avuta in America Latina con l’affermarsi di un certo numero di governi di sinistra.

La reazione cinese tiene insieme elementi diversi e anche contradditori. Cavalca elementi significativi di nazionalismo ma continua a puntare sullo sviluppo della globalizzazione economica. Riafferma il primato del potere politico sul potere economico ma contemporaneamente accentuando gli elementi di autoritarismo e di controllo (anche repressivo) della popolazione e dei conflitti sociali. Rivendica il “marxismo” come pensiero universalista, in quanto scientifico e teorizzatore dello sviluppo economico e produttivo, ma lo fa sopprimendone l’ispirazione liberatrice.

Sull’altro versante, quello della competizione globale con gli Stati Uniti, si apre una prospettiva tutt’altro che rosea. Nel nuovo documento sulla strategia per la sicurezza nazionale, puntualmente analizzato su questo sito da Alessandro Scassellati la settimana scorsa, si conferma che la politica americana si basa sulla difesa del primato politico, economico, tecnologico e militare degli USA che riaffermano l’indisponibilità ad accettare un mondo multipolare. Sono ormai note le premesse ideologiche di questa posizione. Il “destino manifesto” assegnato a questa nazione che ne fa il garante del bene nel mondo, disposta anche a imporlo con la forza a popoli riluttanti, non può essere messo in discussione.

Sulla paura della Cina c’è oggi una ampia convergenza bipartisan negli Stati Uniti anche se i Democratici tendono a dare un carattere di crociata ideologica a questa reazione, rispetto ad un più esplicito cinismo repubblicano. La presenza alla guida del Partito democratico di due ottantenni reduci della guerra fredda come Joe Biden e Nancy Pelosi fa sì che da lì non possa venire che una nuova riproposizionedi quel modello di relazioni internazionali con la sostituzione dello scomparso nemico sovietico col nuovo nemico cinese.

La competizione economica e tecnologica diventa così anche confronto militare. La leadership cinese avrà preso buona nota, seguendo la guerra in Ucraina, di tutti gli strumenti che il dominio statunitense sulla finanza e su alcuni settori tecnologici può mettere in campo anche senza arrivare all’utilizzo delle armi. Così come il dubbio che attraverso Taiwan, Washington pensi di realizzare un’altra “proxy war” (guerra per procura), sulla falsariga di quella oggi in corso in Ucraina per indebolire la Russia, secondo le ripetute dichiarazioni trapelate dai corridoi della Casa Bianca all’inizio dell’invasione di Putin (il che nulla toglie come ovvio alle responsabilità del Presidente russo).

Nel dibattito tra specialisti è ormai da tempo che si pone apertamente in discussione il tema della possibilità di una guerra come esito della contrapposizione tra le due maggiori potenze mondiali. Già molto si è parlato della “trappola di Tucidide” che, sul modello di quanto avvenne tra Sparta e Atene, vede come inevitabile lo scontro tra la potenza dominante e una potenza rivale in ascesa. L’ex primo ministro australiano laburista Kevin Rudd, che conosce il mandarino ed è esperto della realtà cinese, ha pubblicato un libro sulla “guerra evitabile” tra Cina e USA. Il fatto che la guerra sia “evitabile” implica necessariamente che la si veda come una possibilità concreta.

Un simile prospettiva, di “una guerra che metterebbe fine a tutte le guerre” (perché non resterebbe nessuno per combatterne altre) come l’ha definita Susan Thornton, pone a tutte le forze politiche, sociali nonché movimenti e governi, la necessità di adeguare analisi e strategie per non assistere passivamente ad un esito disastroso per l’intera umanità. Se si esclude l’allineamento subalterno ad uno dei due campi, secondo una logica che, se poteva avere una qualche ragione storica ai tempi dell’Unione Sovietica, oggi ha poche giustificazioni, il compito non può essere che quello di costruire un altro schieramento globale di forze che non si pongano solo il problema evitare la guerra, ma colleghino questo obbiettivo ad un nuovo assetto economico, sociale e ambientale. Non più una “seconda potenza mondiale”, come era stato ottimisticamente definito il movimento contro la guerra in Iraq, quando sulla scena c’era una sola potenza statuale, ma oggi semmai di una “terza potenza mondiale” c’è urgente bisogno.

Franco Ferrari

 

 

 

 

 

 

 

 

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