I giochi di Parigi, da poco terminati, costituiscono un’ottima cartina di tornasole per definire elementi di analisi che vanno ben oltre la dimensione agonistica. Due le questioni di carattere generale che restano sullo sfondo: intanto, come abbiamo già rimarcato, quanto accadeva nelle Olimpiadi elleniche non accade oggi. Nessuna tregua, neanche simbolica è stata stabilita e nei 56 conflitti registrati secondo il Global peace index, pubblicato a giugno dall’Institute for Economics & Peace, (il numero più alto dalla fine della Seconda guerra mondiale), si è continuato a combattere e a commettere crimini. In seconda battuta, le leggi del CIO, terribilmente vicine a quelle della NATO, hanno considerato, magari anche giustamente, alcuni Stati come Russia e Bielorussia (?) come non ammissibili ai giochi mentre per altri, in primis Israele, nonostante le accuse comprovate di genocidio, la bandiera e la delegazione hanno tranquillamente potuto essere parte dei Giochi. Fa impressione che solo gli atleti dei Paesi esclusi, che rinunciavano alla propria bandiera, abbiano potuto gareggiare.
Nelle competizioni, non si partecipava ad armi pari, tanto è che le medaglie conquistate da atlete e atleti di alcune Nazioni erano eccezione e non la regola. E se non dovrebbe stupire che questo sia accaduto per piccolissimi Stati come Saint Lucia, Granada, Trinidad e Tobago, Fiji, Capo Verde ed altri, dovrebbe far riflettere come questo sia valso anche per paesi la cui popolazione e la cui dimensione è estremamente estesa e in cui quindi il bacino di atleti è infinitamente più grande dei paesi ricchi. Gli esempi non mancano: l’India, che conta oramai quasi 1,5 mld di abitanti è riuscita a far ammettere a Parigi 117 atlete/i, poco più di un quarto di coloro che sono partiti dall’Italia (403). Certamente, soprattutto per alcune discipline era questione di ranking e di prestazioni, di certo c’è che, nonostante la crescita e il grande ruolo politico assunto dal gigante indiano, ancora non ci sono le condizioni per entrare a pieno titolo nel mondo sportivo. La situazione del resto del sub continente indiano è ancora più palpabile: dal Pakistan (245 milioni di abitanti) sono partiti 7 atleti, dal Bangladesh (174 milioni), soltanto 5. E a scalare, 34 etiopi hanno potuto gareggiare per il proprio paese abitato da 129 mln di persone, (peraltro spesso con grandi prestazioni in alcune specialità dell’atletica. Va detto che sono tante e tanti che, fuggiti dalle varie guerre e dai problemi immensi che si trascinano nel Corno d’Africa, hanno ottenuto la cittadinanza in molti Stati membri dell’UE, contribuendo a far crescere il medagliere europeo. Una per tutte è da citare la vicenda di Sifan Hassan, nata in Etiopia, giunta in Olanda come minore straniera non accompagnata, divenuta cittadina dei Paesi Bassi e capace di andare a medaglia nei 5000 e nei 10.000 mt, cogliendo poi addirittura l’oro nella maratona femminile, impresa riuscita unicamente negli anni 50 in campo maschile ad Emil Zatopek. E ancora la Repubblica Democratica del Congo ha avuto ammesse solo 6 persone sui 105 milioni di abitanti figli di una delle tante guerre dimenticate. Qualcuno potrà dire che in alcuni dei paesi citati non esiste “cultura dello sport”. Ipocrisia pura frutto del suprematismo tante volte denunciato. Asia e Africa, nei paesi in cui si è messi in condizione di svolgere attività sportiva, magari all’interno educativo funzionante e senza il rischio di missili in arrivo, emergono generazioni in grado di competere e comunque che, a prescindere dai risultati, migliorano la propria condizione di benessere fisico. Quando poi emergono fenomeni che possono garantire anche lauti guadagni, il business dello sport agonistico è capace di scovarli e di importarli, come si fa con la merce pregiata. Nel calcio accade da tempo con i minori, ora la caccia al recordman o alla recordwoman si estende in molte altre discipline.
Altro punto su cui centrare l’attenzione è quello delle Olimpiadi utilizzate come strumento di propaganda. Accade sicuramente ovunque, concentriamoci su quanto avvenuto in Italia. Tranne eccezioni, la programmazione televisiva che trasmetteva gli eventi più importanti era improntata su un nazionalismo imbarazzante. Il “Noi” con cui si è raccontata l’Olimpiade ha raggiunto punte di non ritorno, da un momento all’altro ci si poteva aspettare che fra chi commentava sfuggisse il celebre “A noi”, che oggi va tanto di moda nelle file governative e dei giornalisti di regime. Un “noi” che ha persino fatto finta di non notare (altro che le dichiarazioni sull’ “integrazione” di atlete nate in Italia del sovrano Bruno Vespa), come alcune vittorie siano dipese dal fatto che, per meriti sportivi, atlete e atleti abbiano visto velocizzare il proprio accesso alla cittadinanza italiana, requisito fondamentale per indossare la maglia azzurra. Per chi segue gli sport, soprattutto quelli considerati minori, è enorme il numero di atlete e atleti che per vedersi riconoscere una prestazione, ricevere assistenza e sostegno dalle società sportive, hanno dovuto attendere così tanto da perdere anche il momento del proprio massimo fulgore, a causa della vergogna di una legge sulla cittadinanza (91/1992) che in 32 anni nessun governo e nessun parlamento hanno avuto il coraggio di cambiare. Dopo le Olimpiadi se ne riparla anche perché il confronto con altri Paesi in cui si è accettato prima che la popolazione non è soltanto maschia e bianca è stato evidente, ma porterà a qualche risultato? Ed è assurdo che per ottenere un documento che semplicemente pone in condizione di parità di diritti e di doveri, rimanga una gerarchia legislativa (basata sul paese di provenienza) e culturale (legata a religione e colore della pelle), si debbano garantire prestazioni sportive internazionali. Ma in nome del tricolore e dei trionfi, anche i Vannacci e i Salvini sono stati messi temporaneamente a tacere e questo potrebbe comunque produrre in un immaginario imbarbarito, qualche risultato, divenendo tema di dibattito pubblico. Aspetto in cui invece il giornalismo italiano è rimasto in continuità assoluta col passato è il piagnisteo nei confronti di arbitraggi scorretti, condizioni metereologiche avverse (che valevano solo per gli azzurri of course), infortuni e malanni vari, carenze organizzative. Tranne eccezioni, la categoria dei giornalisti sportivi e, in molte dichiarazioni, anche di atlete e atleti, è semplicemente mortificante. Ma la ricerca del capro espiatorio è un tratto ormai tipico del nazionalismo becero.
Altro dato interessante emerge nel tentativo di far vivere le Olimpiadi parigine come all’interno di una bolla. Alcune dichiarazioni retoriche nella cerimonia d’apertura e in quella di chiusura, nell’ipotizzare un mondo di pace, ma per il resto nulla. O meglio, date anche le divergenze interne al governo italiano e l’obbedienza dimostrata dai giornalisti si sono registrate curiosi approcci. La compagine più tifata da chi in Italia commentava le prestazioni, era sicuramente quella dell’Ucraina, ad ogni intervista si estorcevano dichiarazioni patriottiche ma non si nominava mai il nome dell’invasore. A chi è digiuno di politica internazionale poteva risultare, in caso di eccessiva distrazione, che il conflitto ucraino si svolgesse contro un’entità invisibile e innominata. Ovvio poi che pochissime siano state le digressioni sugli atleti provenienti da altri paesi in guerra. E va detto che sono state poche le atlete e gli atleti che hanno avuto l’ardire di rilasciare dichiarazioni in tal senso o compiere gesti paragonabili al pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos nei Giochi di Città del Messico 1968. Wasim Abusal è stato il primo pugile palestinese ai Giochi, è anche stato il portabandiera di una piccola delegazione di 8 atlete/i. Il suo messaggio più grande lo ha lanciato durante la cerimonia inaugurale, indossando una camicia bianca sulla quale erano stati ricamati dei jet che sganciano delle bombe su un gruppo di bambini che gioca a calcio. “Questa camicia rappresenta l’immagine attuale della Palestina”, ha spiegato l’atleta a LaPresse. Lui come quasi quasi tutta la delegazione palestinese, ha gareggiato in quanto invitata dal CIO, l’unico che ha potuto gareggiare in quanto qualificato è stato Omar Ismail, nel taekwondo. E se la loro presenza in piscina, palestra, ring e quant’altro ha infuocato gli spalti “in tanti urlavano libertà per la Palestina”, le emittenti italiane hanno sottaciuto tale “fastidioso” evento. Ancora più assurda la situazione delle atlete afghane. Il 15 agosto sono 3 anni dall’ingresso dei talebani a Kabul, da allora ogni attività sportiva per le donne è vietata. La delegazione era composta da 3 donne e 3 uomini, scelte da una sorta di sezione del CIO in esili. Importante la vicenda di Kimia Yousofi, centometrista che ha preteso, pur potendo partecipare con la selezione dei rifugiati – vive in Australia – ai round preliminari, riservati ad atleti di quei paesi piccoli o in difficoltà, dei 100 mt femminili, correndo per l’Afghanistan. È giunta ultima nella sua gara – l’atleta è alla terza Olimpiade – e al traguardo ha mostrato un foglio con scritto: «Istruzione, sport, i nostri diritti», incitando le donne a non arrendersi. Altra vicenda, questa volta più misera per il CIO e per la Federazione mondiale di Danza, quella di Manizha Talash, nome d’arte B-Girl Talash, che invece ha danzato breaking per la squadra dei rifugiati e che è stata squalificata dalla federazione per violazione dell’Art 50 del regolamento olimpico secondo cui chi gareggia non può lanciare messaggi politici. Manizha Talash, 21 anni, rifugiata in Spagna, si era presentata alla gara con una mantellina recante la scritta. “Free Afghan women”. Osceno squalificare per un simile messaggio. Ovviamente anche queste notizie sono state pressoché silenziate, erano più importanti i dolori dei nostri atleti. Un minimo risalto ha ricevuto la Équipe Olympique des Réfugiés (la Squadra Olimpica dei Rifugiati) che per la terza volta ha partecipato ai Giochi. Erano in 36, (23 uomini e 13 donne), una di loro, la camerunense Cindy Ngamba, fuggita dal proprio paese dove l’omosessualità è un reato, ha vinto una storica medaglia di bronzo, altre e altri hanno garantito prestazioni di rilievo. L’Unhcr ha orgogliosamente rilevato come a Parigi sia giunta la squadra più numerosa di sempre. Amaramente viene da dire che con l’aumento del numero dei richiedenti asilo dovuti a guerre, carestie, catastrofi ambientali, discriminazioni e dittature, tale aumento era inevitabile ed anzi è stato rallentato dal fatto che, come già ricordato, le atlete e gli atleti migliori ottengono direttamente la cittadinanza di una paese ricco per cui gareggiare.
Con tanti altri episodi di “miseria informativa”, si potrebbe scrivere un volume ponderoso soltanto parlando dei casi italiani: il celebrato allenatore della squadra di volley femminile Julio Velasco è un argentino fuggito negli anni Ottanta dalla dittatura di Videla e testimone d’accusa per i crimini della giunta, ha avuto anche un fratello desaparecido? Meglio non ricordarlo? Non vogliamo rischiare mica una squalifica? O almeno facciamolo sottotono, per evitare incidenti diplomatici con l’attuale governo Milei tanto amato dalle destre nostrane. Il podio del salto in lungo maschile è stato occupato da tre atleti cubani: uno aveva ottenuto cittadinanza spagnola, il secondo portoghese e il terzo italiana, quasi per il rotto della cuffia. Ovviamente sono scappati perché in fuga da una feroce dittatura, non certo dalle condizioni di embargo che continuano ad affamare l’Isola. La fondista italiana Battocletti, come il marciatore Stano, hanno poi abbracciato la religione islamica, la prima ha una madre che viene dal Marocco, il secondo ha sposato una donna proveniente dallo stesso Paese. Ma evidentemente evitare di parlarne è meglio. I programmi in notturna hanno evidenziato quasi ogni aspetto della vita privata di atlete e atleti ma di questo è meglio tacere. L’immagine, nella poco rassicurante tuta nera con la scritta Italia in bianco, che si voleva dare di eroi ed eroine a Parigi, doveva essere patriottica, è ammessa la pelle più scura ma accento e orgoglio italico, devono essere al primo posto. E se la religione non è conforme meglio non nominarla.
Uno sdoganamento si è però imposto, almeno in parte ed attiene ad un risvolto della politica raramente considerato. Quello dell’orientamento sessuale e della divisione binaria in generi. La vicenda della pugile algerina Imane Khelif, oro nella sua categoria, ha fatto fare una pessima figura ad esponenti politici italiani e non solo convinti che avere alcuni cromosomi xy e una produzione eccessiva di testosterone fossero elementi tali da qualificare una persona come “maschio”. Decenni di studi in materia dimostrano che non è vero e non è così tutto lineare, la pugile algerina è donna, contro atlete ha sempre combattuto, vincendo a volte e perdendo altre, solo che in questa occasione ha impattato con l’emblema (in parte forse anche vittima) di un mondo oscurantista, rappresentato da una atleta italica che dopo 45 secondi si è arresa perché quei pugni facevano male. Della vicenda hanno parlato in moltissimi, spesso partendo da un’ignoranza spaventosa. Ai messaggi d’odio ricevuti Imane Khelif risponderà con querele che dovrebbero portarla ad ottenere risarcimenti. Invece, ed è un piccolo segnale di speranza, sono state varie e vari coloro che non hanno avuto alcun problema a far presente come l’orientamento sessuale sia nei fatti molto meno definito di come vorrebbero i sedicenti fautori della famiglia tradizionale. Almeno in questa vetrata di fenomeni da mostrare al mondo per le proprie prestazioni agonistiche, un minimo di realtà è riuscita a penetrare.
Per quanto affermato finora e per altro è giusto parlare, fatte salvo le eccezioni, di Olimpiadi finte. In una Parigi dove i poveri sono stati cacciati dalle zone troppo vicine a quelle degli atleti e dove le banlieue hanno smesso di esistere, lo spettacolo che è andato in onda mondiale si è basato sulla menzogna a cui tante e tanti hanno partecipato. Le guerre si intensificavano ma nella bolla hanno smesso di esistere, le discriminazioni i conflitti, come se si fosse realizzata per poche settimane la città di Utopia in cui “libertà, fraternità ed eguaglianza” erano principi inderogabili. Come se dover pagare 400 / 500 euro in uno stadio non fosse conferma ancora di una discriminazione di classe, come se ritrovarsi a contare le medaglie prese financo ad identificarsi con chi gareggiava, potesse interrompere il dramma della crisi mondiale in cui ci ritroviamo immersi. La pace ha regnato (forse) in quelle mega strutture del Villaggio Olimpico, nei quartieri bene di Parigi, davanti alle tv di chi ha potuto passare le serate allietandosi dei trionfi di chi portava la maglia del proprio Paese. Ma parliamo ancora di piccole oasi spaziali e temporali – il sipario cade e ricomincia la vita di tutti i giorni – , nel resto del pianeta non è andata così. Solo quando il mondo intero potrà considerare normale fermarsi anche a guardare le Olimpiadi, si potrà parlare di Giochi veri
Stefano Galieni