-di Geoff Eley–
Sin dal 1989 le ipotesi contemporanee sulla democrazia sono ancora oscurate dall’intero processo di transizione post-comunista. In questo contesto europeo orientale, non si riteneva che le prospettive di democrazia facessero riferimento a una partecipazione popolare, ma a due tipi di ristrutturazioni: quella che colpiva l’economia e una che coinvolgeva la società civile. Nel primo caso, la democrazia ha richiesto di seguire un processo di riforma economica incentrato sul mercato; nel secondo caso, ha richiesto trasformazioni nella società civile. Così, “liberare l’economia” nel potente senso neoliberale diventa il presupposto essenziale per una transizione politica democratica. Allo stesso modo, si ritiene ugualmente cruciale, la creazione di un forte “consenso morale” basato su un’infrastruttura densa e resiliente delle istituzioni sociali. Secondo questa opinione, senza uno di questi fondamenti, la democrazia fallisce. Può essere solo un impianto debole e artificiale, intruso nelle società prive della competenza civica e della cultura politica necessaria per prosperare. In questa prospettiva, la democrazia presuppone profondi processi di crescita sociale e sedimentazione culturale che producono i comportamenti predefiniti necessari prima che i meccanismi politici democratici possano funzionare – in altre parole, l’habitus di una cittadinanza competente, che le società (così dette) comuniste, congelate in posture di conformità somministrata, non hanno mai avuto la possibilità di acquisire.
In questo approccio prevalente il successo delle nascenti democrazie dell’Europa dell’Est non dipende dall’attivismo degli elettorato popolare e dalle loro libertà costituzionali, ma dai processi che sono essenzialmente al di là di questo controllo democratico popolare. La cultura politica (l’esercizio effettivo della cittadinanza democratica) si basa principalmente sull’economia (un ordine del mercato capitalista) e sulla storia sociale (la crescita della società civile). Questa visione si riflette anche in una lettura difficilmente esplicita della storia “dell’Occidente” (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti), in cui si ritiene che i modelli di successo dello sviluppo socio-economico di più lungo periodo e l’acculturazione democratica siano stati davvero ottenuti. Ma come testimoniano gli storici sociali di quei paesi, la democrazia è risultata da storie molto più complesse di militanza popolare, di conflitti sociali e di aspre lotte politiche, e nel trattamento attuale della democrazia sono proprio queste complicate storie che vengono invariabilmente ignorate.
L’approccio contemporaneo alla transizione democratica è incredibilmente senza riferimenti storici. Esso mostra una sorprendente ignoranza di ciò che la storia dell’Europa occidentale potrebbe effettivamente essere in grado di dirci. Il paradigma dominante della transizione postcomunista, in cui le celebrazioni neoliberali del “mercato” hanno monopolizzato spietatamente il linguaggio della “riforma”, sopprime altre argomentazioni sulle condizioni storiche di possibilità democratiche. Per adattare il famoso adagio di Ernest Renan, la contemporanea difesa democratica prevede la necessità di sbagliare la propria storia, di appropriarsi selettivamente di alcune esperienze e di dimenticarne altre, di assicurare che il passato sia errato e sbagliato. In questo testo voglio considerare quali altri principi della democrazia possiamo fornire. In ciò che segue, cercherò di storicizzare le condizioni e le dinamiche di emergenza della democrazia. Lo farò in tre parti: prima osservando la congiuntura rivoluzionaria che segue la prima guerra mondiale, poi considerando alcuni aspetti del periodo dopo il 1945 e concludo evidenziando la questione del genere, che è ancora praticamente trascurata nella maggior parte dei bilanci generali.
La definizione di democrazia
Nel definire la democrazia, dobbiamo cominciare dalla questione costituzionale in senso stretto – cioè le condizioni legali e costituzionali formalizzate della democrazia nello stato. In termini giuridici, la democratizzazione su larga scala comporta la sovranità popolare e il dominio democratico, basata su libero, universale, segreto, maturo e uguale diritto, accompagnata da libertà legali di parola, di coscienza, di assemblea, di associazione e di stampa, insieme alla libertà da un arresto senza una prova. Non possiamo arrivare da nessuna parte, se non cominciamo da questi elementi fondamentali, e da questi standard solo i livelli più deboli di democrazia potrebbero essere ritrovati in tutto il mondo prima del 1914. La piena democrazia era stata introdotta solo in quattro società periferiche – Nuova Zelanda (1893), Australia (1903), Finlandia (1906) e Norvegia (1913), più alcuni stati e province del Canada occidentale e degli USA.
Se andiamo al di là del più rigoroso pensiero giuridico, abbiamo bisogno di modi per teorizzare le circostanze in cui si possono realisticamente verificare conquiste democratiche. Cioè, dobbiamo affrontare le dinamiche dell’emergenza della democrazia effettiva e la contingenza casuale delle conquiste registrate della democrazia, le complesse storie delle sue forme effettivamente esistenti. Il mio argomento qui è che la democrazia si realizza non solo attraverso raggiungimento di specifici cambiamenti istituzionali, diritti giuridici e procedure costituzionali formali, ma anche attraverso conflitti sociali e politici su molti fronti. In altre parole, le definizioni costituzionali devono essere completate da approcci storici incentrati sull’espansione delle capacità democratiche in modo diverso da quello giuridico.
Dialettica tra cittadinanza e Stato, 1914-23
Se prendiamo la prima grande ondata di democratizzazione paneuropea dopo la prima guerra mondiale, le deficienze di un approccio legalistico diventano rapidamente chiare. Naturalmente le lotte sulla sovranità parlamentare e sul processo elettorale sono rimaste al centro della democrazia popolare. Dove hanno liquidati i rivoluzionari la democrazia, come risultato, ne ha sofferto gravemente. Ma altri aspetti della democratizzazione hanno superato di gran lunga questo quadro limitato. Citerò quattro aspetti:
a) L’impatto dei movimenti sociali extraparlamentari è il primo di questi aspetti aggiuntivi. Questi andavano dai sindacati ai movimenti femminili e a varie campagne mono tematiche. Pertanto, qualche idea sviluppata di società civile costituisce una dimensione essenziale di definizione della democrazia.
b) La costruzione di uno stato sociale costituisce un secondo aspetto. Questo si potrebbe definire come “rendere sociale la democrazia”.
c) Ancora, una terza dimensione della dinamica extraparlamentare ha coinvolto le mobilizzazioni popolari della destra radicale. Questi movimenti erano esplicitamente anti-democratici nell’orientamento cosciente. Ma hanno praticamente ampliato i limiti della partecipazione all’interno della sfera pubblica in modi simbioticamente legati alla produzione di nuove capacità democratiche diventate vitali per il futuro della democrazia.
d) Infine, anche le forme partecipazione politica di democrazia- diretta e a base comunitaria devono essere prese in considerazione. Queste erano più comunemente associate ai soviet e ai consigli dei lavoratori, ma dopo il 1917 erano una dimensione vitale dell’ondata di popolarismo democratico in generale.
Faccio qui un accenno cruciale sul significato relativo della rivoluzione bolscevica, perché nell’elaborazione dei benefici democratici degli insediamenti dopo il 1918 l’esempio insurrezionale dei bolscevichi incideva meno in sé stesso rispetto a quanti tipi di iniziative riformiste che ha contribuito a provocare. Così continuavano ancora grandi riforme anche quando la sinistra rivoluzionaria era debole e i partiti socialisti crescevano solo modestamente nelle elezioni del dopoguerra. In Francia queste comprendevano una legge sui contratti collettivi, la giornata di otto ore e la riforma elettorale (marzo-luglio 1919); in Belgio, comprendevano la giornata di otto ore, la tassazione progressiva, l’assicurazione sociale e la riforma elettorale (1918-21); nei Paesi Bassi, c’era un pacchetto equivalente. Effetti simili potrebbero essere osservati in Gran Bretagna e in Scandinavia. In Germania e in Austria, e negli Stati dell’Europa centro-orientale, le nuove sovranità repubblicane sono state costruite attraverso processi di rivoluzione democratica nazionale e vari gradi di riforma sociale. Infine, nella maggior parte degli Stati formati dopo la dissoluzione degli imperi e di alcuni altri (Romania, Jugoslavia, Bulgaria, Grecia, Cecoslovacchia, Polonia, Stati baltici, Finlandia), si sono verificate importanti riforme territoriali. Qui c’è stato un enorme incremento di riforme. In una grande parte dell’Europa, la sinistra è emersa molto più forte di prima. Tuttavia, questo ha preso una forma molto particolare – non un ulteriore avanzamento specificamente socialista, tanto da rafforzare ulteriormente la democrazia parlamentare, l’espansione dei diritti dei lavoratori sotto la legalità, un ulteriore riconoscimento dei sindacati, la crescita delle libertà civili e una legislazione sociale sostanziale. Il potenziamento della sfera pubblica è stato un vantaggio vitale, soprattutto quando le libertà pubbliche erano state limitate prima del 1914. Tale rafforzamento della società civile attraverso il potenziamento della sfera pubblica è stato un sostegno fondamentale per la democratizzazione. Nelle sovranità di nuova concezione dell’Europa centro-orientale c’era anche una parte essenziale della costruzione delle nazioni.
Nel quadro post-1918, c’era una differenza vitale tra vincitori e vinti. La prima guerra mondiale ha comportato un rafforzamento generale dello Stato in tutti i paesi combattenti. Ma nel 1917-18, quegli Stati che si sono rivelati perdenti sono stati catastroficamente danneggiati – in particolare, gli imperi multinazionali russi, austro-ungheresi e tedeschi. A loro può essere aggiunta l’Italia, tecnicamente sul lato dei vincitori, ma vivendo la sua vittoria in gran parte come una sconfitta. Al contrario, le nazioni vittoriose – la Gran Bretagna, la Francia, ma anche il Belgio e per estensione i Paesi Bassi – hanno vissuto la loro democratizzazione dopo il 1918 “senza” il vuoto del collasso politico dell’Europa centro-orientale.
In questo senso, il risultato della guerra ha influito in modo vitale sull’entità e sulla stabilità degli accordi postbellici. Il centro di questi accordi è stato il recupero del controllo patriottico – le aspettative popolari che le grandi riforme sarebbero state concesse in cambio dei sacrifici richiesti nel tempo di guerra. Laddove le autorità politiche sono crollate in mezzo alla sconfitta militare (Germania, monarchia degli Asburgo), l’insediamento era legato a misure più radicali di democrazia politica e a una versione più forte dello stato sociale. Dove gli stati sono rimasti intatti, rafforzati dal prestigio della vittoria militare (Gran Bretagna e Francia), il compromesso in ogni campo era più modesto, vale a dire un’estensione meno completa del diritto al voto e un accordo sociale fortemente compromesso.
Come sappiamo, gli accordi post-1918 si sono dimostrati tutt’altro che stabili e duraturi. Ovviamente, ci sono molte spiegazioni, ma una chiave era nella distinzione tra fare la costituzione e la costruzione della cultura. A un livello, i guasti politici degli anni ’20 e ’30 riflettevano la debolezza del consenso sociale emergente e la fragilità dei suoi valori democratici. Per rendere conto di questa fragilità – e viceversa per vedere come si possano formare strutture democratiche più stabili – abbiamo bisogno di una qualche teoria della sfera pubblica. Come ho già sostenuto, il rafforzamento della società civile attraverso la valorizzazione della sfera pubblica era una parte fondamentale degli assestamenti sia nel 1918 che nel 1945: cioè tutti i modi in cui un’auto organizzazione di una società ha acquisito spazio pubblico protetto legittimamente e legalmente – attraverso l’organizzazione collettiva e le azioni di tutti i tipi, attraverso la formazione di identità politiche, attraverso l’espressione dell’opinione, attraverso la circolazione delle idee e così via.
Cultura popolare della Democrazia, 1945-68
Senza il beneficio di una sfera pubblica nazionale o sociale protetta legalmente, i movimenti sociali sono più facilmente tenuti nel proprio spazio difensivo, autoreferenziale e in gran parte discretamente sub culturale. Senza un accesso sicuro a una sfera pubblica più ampia, le sottoculture rimangono cronicamente vulnerabili e deboli. Non hanno accesso a possibili coalizioni e quindi al supporto di un ampio consenso della società. Mancano sia di una credibilità nazional-popolare sia di una indicazione contro egemonica plausibile – le necessarie risorse politiche morali per governare – o, se dovesse arrivare, delle capacità di resistere alla repressione antidemocratica.
Dove “può” essere costruito un robusto consenso sociale, invece, con la contemporanea legittimazione a livello di stato e della ampiezza della cultura popolare, la resilienza della democrazia popolare può essere molto forte. Desidero affermare che, a differenza delle fragilità dei compromessi post-1918, dopo la seconda guerra mondiale è stato garantito un consenso di questo tipo, attingendo ai patriottismi democratici degli anni della guerra, fondendo i desideri di un nuovo inizio con le logiche della ricostruzione economica e organizzandosi all’interno dell’integrazione antifascista del compromesso post bellico.
Ecco la mia tesi. Tra la fine degli anni ’40 e il successivo punto di rottura del 1968, è stato prodotto un consenso sociale democratico assegnato, fornendo una sorta di modello per l’immaginario politico popolare. Questo consenso è stato organizzato attorno a una sfera pubblica liberale, che godeva di una forte protezione giuridica. È stato modellato da un’occasione popolare democratica di una mobilitazione di guerra, che è stata collegata al contratto sociale di un compromesso post-bellico. I punti di forza riformisti di quel compromesso hanno consentito alla coscienza popolare di identificarsi con lo Stato, che ha così acquisito un serbatoio duraturo di capitale morale.
Nel descrivere questo caso, voglio usare l’esempio della Gran Bretagna post-1945. Le caratteristiche istituzionali della versione britannica del welfare state keynesiano sono ben note. Esse comprendevano: la sicurezza sociale “dalla culla alla tomba”, il servizio sanitario nazionale, la legge sull’educazione del ministro Butler, la tassazione progressiva, le forti politiche del settore pubblico, la gestione economica aziendale, i forti ideali del riconoscimento del ruolo dei sindacati e un discorso integrativo della cittadinanza sociale. Ma la persuasività e l’ampiezza democratica di questo compromesso del dopoguerra avevano anche una componente “culturale” vitale.
In questo contesto, il “patriottismo” – il sentimento nazionale britannico – aveva acquisito forti inflessioni di sinistra. L’orgoglio di essere britannici implicava l’egualitarismo della guerra, il conseguimento del welfare state e un complesso di tradizioni democratiche che mettevano in risalto la dignità, il liberalismo e l’importanza di tutti coloro che si organizzano, in modo da onorare il valore e i valori dei comuni lavoratori. Nelle legittimanti narrazioni della memoria popolare che circondava questo patriottismo, sono stati importanti sia i rigori di base del Governo del Labour del dopoguerra e sia la normalizzazione dell’accondiscendenza delle successive amministrazioni conservative degli anni ’50. Ma la stabilità duratura di questo consenso, che ha resisto fino agli anni Settanta, dipendeva anche da una scrittura culturale più ampia che vincolava le esperienze degli anni ’30 e ’40. Il consenso del dopoguerra evocava anche immagini della Depressione e con questi mezzi la patriottica fratellanza della guerra si è trasformata in una narrazione socialdemocratica di sofferenza e di risarcimento sociale.
In questa narrazione, la povertà degli anni trenta è divenuta un segno per ciò che era diverso e desiderabile per il nuovo presente del dopoguerra. Dal punto di vista degli anni ’50, gli anni ’30 rappresentavano un enorme fallimento del sistema – gli “anni sprecati”, il “decennio del diavolo”, il “basso e disonesto decennio”, nel linguaggio familiare quotidiano. Le immagini di tristi disgrazie, disoccupazione di massa e manifestazioni per la fame descrivono un passato inaccettabile che semplicemente non si poteva ripetere, una miseria sociale che richiedeva un’azione collettiva e una responsabilità pubblica. Così, la seconda guerra mondiale era una “buona” guerra – non solo per il suo carattere antifascista, ma anche perché l’egualitarismo e la solidarietà sociale necessarie alla vittoria sono state anche un fatto incontestabile per le politiche sociali eque nel periodo di pace in arrivo. L’ampiezza del consenso post-1945 poggiava retoricamente su questo collegamento che univa la Depressione e la Guerra – “patriottismo” e “bisogno sociale”, “interesse nazionale” e “bene comune”. Nella memoria popolare questa interpretazione degli anni ’30 e ’40 è diventata una narrazione particolarmente efficace e risonante che, dopo la guerra, riunisce un senso coerente di “Britannicità”.
È qui che la dimensione culturale della democratizzazione diventa così importante. Dobbiamo esplorare i campi dell’esperienza popolare della identificazione politica creata in tempo di guerra, i modi complessi in cui si sono articolati con il sistema della politica post-bellico, che hanno dato vita alle forme di legittimazione fornite per lo stato del dopoguerra e i fondamenti che hanno condotto a un tipo di politica contro un’altra.
Le forme di coesione e di stabilità della società e le condizioni che le consentono di rinnovarsi sono essenziali per i tipi di identificazione forgiati nella cultura popolare con le istituzioni politiche della società (con il suo stato). Dopo ciascuna guerra mondiale, il livello della mobilitazione sociale, il radicalismo dei cambiamenti istituzionali e la turbolenza delle speranze popolari hanno rotto la stabilità delle alleanze esistenti e strappato la tela della conformità sociale aprendola verso grandi cambiamenti democratici. Ma nel caso del 1918, la creazione di un nuovo consenso sociale intorno a un’identità popolare sufficientemente forte con lo Stato democratico si è dimostrata molto controversa, in quanto le polarizzazioni fra le due guerre e l’ascesa del fascismo si sono affermate così tragicamente. Al contrario, dopo il 1945 il consenso dell’Europa occidentale si è dimostrato ampio e profondo con identificazioni popolari molto dense e resilienti dell’ordine sociale e politico del dopoguerra.
Il consenso del dopoguerra dell’Europa occidentale è durato due decenni, sussistendo sul doppio ricordo della guerra e della depressione. I suoi confini sono stati raggiunti solo attraverso le generazioni, poiché la ricostruzione capitalista, il lungo boom e la prosperità dei consumatori, hanno gradualmente cambiato il paesaggio politico. Così, negli anni ’60, tra le tensioni culturali che ne derivano, invocare i benefici delle riforme del dopoguerra sembrava, per la generazione più giovane, troppo simile alla compiacenza. Il nuovo scontro generazionale è diventato ancora più doloroso laddove i genitori erano essi stessi di sinistra e assolutizzavano la loro esperienza personale, avvalendosi del “ricatto delle difficoltà passate”, per distogliere dalla critica del presente. Come dice Alessandro Portelli: “Le generazioni più anziane, coloro che hanno attraversato il fascismo, la guerra, la depressione, spesso pensano di avere un monopolio sulla storia e con esso di ricattare la generazione più giovane”1. Così, per Gaetano Bordoni, un barbiere comunista di San Lorenzo a Roma riportava a metà degli anni Sessanta, la polemica politica di sua figlia e il rigetto nei confronti dei sudati comfort, disonorando i sacrifici antifascisti della propria generazione. Come ha detto: “(…) quando avevo dieci anni, ho portato una mitragliatrice sulle colline, insieme a mio padre, sparandoci (…) Voglio dire, ora all’età di dieci anni, hai un giocattolo; io ho avuto una mitragliatrice”. Quando sua figlia aveva lasciato senza aver toccato la sua bistecca nel piatto della cena, Bordoni ha sentito crollare il senso della sua vita, perché i miglioramenti materiali sono stati identificati nella sua mente con la vittoria della democrazia. Rigettando i comfort materiali come corrotti e irrilevanti per la “libertà” e richiedendo invece nuove forme di radicalismo, la nuova generazione ha sfidato l’egemonia morale dell’antifascismo e la sua centralità nella politica della classe operaia di sinistra.
Per le generazioni più vecchie, la Seconda Guerra Mondiale era “la” esperienza determinante. Nei paesi occupati dai nazisti (in particolare l’Italia e la Francia), i legami antifascisti della Resistenza uniti in modo forte con i messaggi riformisti della ricostruzione per rendere la prosperità degli anni Sessanta venivano sentiti come una realizzazione finale della promessa della Liberazione. In Italia, dove i lavoratori erano a stento sfuggiti all’estrema desolazione degli anni ’50, i livelli di miglioramento hanno acquisito un potere extra emotivo. Quale era l’immagine del socialismo allora (negli anni ’50), nella risposta di un italiano quando è stato intervistato da uno studioso di storia orale? Era: “Tutti mangiano”, “Cibo per tutti”. All’epoca, questo era il problema più urgente, piuttosto che l’alienazione, per dire, o le relazioni uomo- macchina (il grande tema del 1968)2. In Gran Bretagna, risparmiata dal regime nazista, il welfare state post-1945 e il collettivismo di guerra avevano un ruolo analogo.
Genere, Cittadinanza e Democrazia
Se utilizziamo un approccio dinamico alla democrazia per vedere come i suoi confini sono stati ampliati o contratti e se siamo interessati a questioni di accesso democratico per vedere a chi esattamente ha dato una voce, allora la questione di genere della cittadinanza diventa vitale. Qui i primi anni del ’900 vedono la prima sfida concertata alla mascolinità del suffragio portata da movimenti di massa socialista e specificamente femminista. Gli anni 1914-23 poi hanno portato a destabilizzare e a rinormalizzare, in un modo senza precedenti, il regime di genere attraverso la politicizzazione della vita domestica durante la guerra e il reclutamento di donne nell’economia nel tempo di guerra. All’inizio del XX secolo si sono anche registrati una crescente cultura del consumo e dell’intrattenimento commercializzato, riassunte dai grandi magazzini e dal cinema, dove le donne erano sproporzionatamente presenti. I profondi cambiamenti nella sfera pubblica – che venivano non solo dalla emancipazione delle donne del nord e centro Europa, ma anche dal ridefinizione di genere degli spazi fisici della città – hanno decisamente modificato il modo in cui veniva interpretata l’identità politica delle donne. A questo proposito, ci sono state due logiche compensative.
Una è stata una logica di contenimento che ha affrontato la cittadinanza femminile attraverso un linguaggio di maternità. Prima del 1914, i sostenitori dell’emancipazione femminile premevano per l’emancipazione politica e l’allargamento dei diritti costituzionali. Ma sotto l’impatto della guerra, la cittadinanza femminile è stata calibrata sempre più al servizio patriottico delle donne come madri. Se l’economia di guerra dipendeva dalla massiccia assunzione di donne nei posti di lavoro, il loro riconoscimento pubblico si è verificato principalmente attraverso la casa. Le richieste di cittadinanza durante la costruzione delle costituzioni del 1918-19 sono state affrontate principalmente su questa base. Dal momento che il potere dell’ideologia del capofamiglia maschile attraversava le politiche sociali sviluppate dopo il 1918, questo discorso materno non ha lasciato spazio alla difesa dei diritti delle donne come lavoratrici. Le politiche pubbliche degli anni tra le due guerre (dalle più generose versioni scandinave, passando alle iniziative del welfare state della Germania di Weimar e la Vienna Rossa, ai modelli conservatori in Gran Bretagna e il fascismo in Italia) si rivolgevano aggressivamente alle donne in termini di maternità, riconoscendole all’interno della famiglia e della sfera domestica. Queste sono diventate l’unica base legittima per l’ammissione delle donne alla cittadinanza.
Ma c’era anche una seconda logica. Il contro-argomento al discorso della libertà e dell’emancipazione è stato il discorso del rischio e del disordine. Nel momento in cui le donne divenivano più visibili, con la limitata ma significativa indipendenza dell’occupazione, diventavano oggetto di paura sociale. Negli anni ’20, i nuovi mezzi di intrattenimento o la radio, il grammofono e il film, i nuovi spazi fisici dei palazzi e le sale da ballo, i giornali e le riviste di massa, i macchinari per la moda e lo stile, i nuovi mercati di abbigliamento e di cosmetici, gli appelli della pubblicità e della relativa liberazione di mostrare il corpo – tutti questi elementi hanno dato alle giovani donne nuove forme di espressione pubblica:
Davano per scontato i diritti e le libertà conquistate per loro dalle [precedenti] generazioni. Erano la prima generazione di donne che non aspettavano di trascorrere tutta la loro vita adulta né nella maternità né nell’esclusione dal mondo pubblico né nella ribellione contro quella esclusione. Erano donne che non potevano essere definite né in termini di famiglia, né di madri né di lavoro, così come i loro padri e fratelli. Erano donne dell’era della macchina, per cui la macchina significava occupazione, beni di consumo, modernità, individualità, piacere3.
Tuttavia, questi nuovi fatti hanno superato i riconosciuti sostenitori dei diritti delle donne. Le femministe erano sgomente: “Possono [le giovani donne] seguire una difficile dimostrazione scientifica o un complesso di musica, possono davvero sentire le intensità di ammirazione o amore quando una buona parte dei loro pensieri riguarda la questione: ‘È tempo di spolverare nuovamente il mio naso?’”4. I socialisti maschi si lamentavano per la frivolezza e per la lussuria dei piaceri delle giovani donne. Le consumatrici femminili tradivano la loro classe. Erano una quinta colonna dei valori materialistici borghesi. Secondo George Orwell, il nuovo “lusso a basso costo” come “fish & chips, le calze di seta, il salmone in scatola, il cioccolato a basso costo (…), i film, la radio, il tè forte e il totocalcio” erano un favore per i “nostri governanti” e probabilmente “evitavano la rivoluzione”5. I socialisti tra le due guerre parlavano con disprezzo delle “ragazze vestite bene” e dei loro “piaceri” distruttivi6. Questo produceva poca simpatia politica per le nuove generazioni di giovani donne lavoratrici – per le commesse dei negozi, le parrucchiere, le dattilografe, le lavoratrici della linea di montaggio e le addette alle pulizie che si riversavano in strada dai negozi e dagli uffici alla fine della giornata lavorativa.
Quindi la contro-logica del riconoscimento delle donne attraverso la maternità era una logica misogina di disprezzo. In entrambi i casi, il principale motivo di contestazione sulle relazioni di genere si è spostato dalle questioni dei “diritti politici” verso questioni di “ordine morale”. Così, le donne sono entrate nel discorso politico tra le due guerre in modo non facilmente assimilabile all’adesione all’idea di democrazia. Da un lato, una generale area di “politica del corpo”, o forse politica biologica, si è cristallizzata intorno alle questioni morali e riproduttive dell’innovazione della politica sociale, inclusi il benessere materno e del bambino, le tecnologie riproduttive e la regolamentazione (contraccezione, aborto, sterilizzazione), l’ingegneria sociale eugenetica, la sanità pubblica e l’igiene sociale, le politiche per il controllo dei giovani e la regolamentazione generale della moralità e della sessualità. Dall’altro lato, la cultura emergente del consumo di massa ha portato alla ribalta nuove identità. Questi erano settori gemelli – la politica del corpo, la politica del consumo – che la destra tra le due guerre ha portato avanti insieme ambiziosamente e con successo, a volte conservativamente (come Baldwin nel Regno Unito), ma talvolta con attiva aggressività (come nell’Italia fascista e nel Terzo Reich).
Dopo il 1945 questo modello si è ripetuto. Come negli anni ’20, quando la prima ondata di voti femminili ha in modo deludente fatto poco per sconfiggere l’ordine politico, il riconoscimento delle donne come cittadini votanti dopo il 1945 non è riuscito a ottenere un regime di genere prestabilito. Ancora una volta, prevaleva la dialettica della differenza e dell’uguaglianza: anche quando le donne esercitavano i loro nuovi diritti politici, la legislazione sociale postbellica le ha poste fuori dalla sfera pubblica. Le logiche principali della riforma sociale del dopoguerra hanno fermamente fissato le donne nella sfera familiare domestica. “Durante il matrimonio molte donne non saranno impiegate a titolo oneroso”, Beveridge aveva dichiarato in modo puro e semplice e la legislazione europea in materia di benessere privilegiava il “capofamiglia” maschile nella attribuzione del “salario familiare”7. Mentre l’Assemblea di Algeri (21 aprile 1944) assicurava che le donne francesi avevano conquistato il voto, nel campo più ampio della politica pubblica il loro posto era a malapena appena cambiato. I socialisti e i comunisti francesi parlavano della vecchia panacea dell’occupazione produttiva come precondizione dell’emancipazione, mentre i loro sindacati perpetuavano il repertorio di genere dell’esclusione femminile, salario familiare e paga ineguale. Ad un livello le donne venivano riconosciute come cittadine partecipanti alla nazione democratica. Ma al livello più elementare, la politica femminile era quasi totalmente assimilata alla forma domestica, attraverso la retorica del capofamiglia e del salario familiare, le pratiche sindacali restrittive per le donne sposate, o il paradigma prevalente del welfare state.
Per le donne, quindi, i processi di democratizzazione del ventesimo secolo contenevano una potente contraddizione. Durante le due guerre mondiali, le donne sono state strappate via dalla vita domestica, portate nella produzione e in altri ruoli pubblici, chiamate a impegnarsi per il bene collettivo. Questo processo è stato mosso implicitamente da promesse di cittadinanza, un invito alla parità nella nazione alla fine della guerra. Ma oltre la novità della cittadinanza giuridica, nel 1918 e nel 1945, le donne sono state normalizzate nelle forme della vita domestica, in un regime pubblico e privato di genere, annunciando l’opposto della persona emancipata. Anche i valori positivi dello stato sociale hanno portato i loro disattivanti effetti. La maternità inquadra in modo fisso le donne in casa, specialmente nelle più forti varianti pro-natalità, con la loro valorizzazione del figlio della classe operaia. In questo modo e in molti altri, il conseguimento socialdemocratico dello stato sociale ha costruito per le donne un posto domestico e dipendente. Le donne sono state avvantaggiate, ma non emancipate, dai discorsi di cittadinanza nello stato sociale.
Quando l’organo principale del partito laburista nel 1945, il Daily Mirror, invitava le donne britanniche a “votare per Lui”, volendo dire i loro mariti soldati, non vendeva solo la promessa della cittadinanza femminile a brevissimo termine, ma suggeriva anche un predefinito schema di ruoli sociali e politici di genere. Durante la guerra fredda la mobilitazione dei sentimenti patriottici contro il comunismo ha anche recuperato la retorica della famiglia e del calore di casa, collegando un’idealizzata vita domestica alla minacciata sicurezza della nazione e del suo modo di vivere. Se le donne erano poste principalmente come madri in questa economia discorsiva, gli uomini non erano costruiti solo come padri, ma erano più potenti in quanto portatori della responsabilità pubblica, in rigidi sistemi di demarcazione di genere. Ha prevalso il regime domestico della madre casalinga a tempo pieno, fornita di servizi sociali, latte gratis e succo d’arancia e educata con competenze tecniche, la quale divideva le responsabilità con il marito-capofamiglia che portava a casa il salario.
Conclusione
In questo testo ho cercato di suggerire come le traiettorie della democrazia del ventesimo secolo in Europa potrebbero essere meglio comprese. Ho cominciato esprimendo scetticismo sul trionfalismo del mercato post- comunista, che riduce l’agenda democratica all’utopia neoliberale di un capitalismo accumulato all’infinito e delle lenti crescite di una società civile e blandamente sostanziata. Ho continuato insistendo sull’importanza di una definizione giuridica rigorosa della democrazia se i contenuti democratici dei diversi sistemi politici dell’Europa del ventesimo secolo sono giudicati adeguatamente. Dopo aver presentato i miei criteri formali per la democrazia secondo la legge, ho poi espresso una serie di argomenti per ampliare la definizione di democrazia.
Primo, i progressi più drammatici della democrazia si sono verificati attraverso una serie di congiunture paneuropee costituzionali: (a) nel 1860, (b) nel periodo successivo alla rivoluzione russa e alla prima guerra mondiale e (c) con il compromesso antifascista dopo la seconda guerra mondiale. Queste congiunture erano connesse a scala maggiore alle mobilitazioni sociali della guerra e implicavano rivoluzioni o speranze democratiche estremamente radicali. Qui la congiuntura del 1989-92, definita dalle rivoluzioni dell’Europa orientale e dall’integrazione europea, potrebbe essere aggiunta all’elenco.
Secondo, le capacità democratiche sono prodotte da contesti molto più ampi di conflitto e mobilitazione sociale, attraverso i quali forgiare un contratto sociale struttura in modo vitale i punti di forza o le fragilità di un stanziamento democratico.
Terzo, il concetto della sfera pubblica offre un ottimo mezzo per teorizzare la democratizzazione in questo più vasto settore della società statale. Infatti, la stabilità degli insediamenti democratici richiede un rafforzamento della sfera pubblica e una concentrazione della società civile in questo senso.
Quarto, la cultura popolare e la memoria collettiva forniscono un’ulteriore dimensione vitale per la resistenza degli insediamenti politici democratici. Le conquiste democratiche si dimostrano più durature laddove si possono ottenere forti identificazioni popolari con lo Stato.
Quinto, le dimensioni di genere della democratizzazione forniscono costantemente il legame nascosto per le culture politiche della cittadinanza e, in termini egualitari, forniscono la parte più debole della soluzione democratica. E concludo la discussione qui perché gli aspetti di genere evidenziano i limiti delle conquiste della democrazia. Queste non solo si sono fermate sulla soglia della porta di casa, lasciando intatto il regime patriarcale della vita privata, ma hanno anche posto le donne nella cittadinanza pubblica in modo distorto e parziale. Tuttavia le conquiste per le donne si sono realizzate solo nel corso di queste congiunture rivoluzionarie più ampie. Le donne hanno ottenuto l’accesso a una voce democratica quando le crisi rivoluzionarie hanno aperto la strada. Concentrarsi sulle donne mostra anche l’“incompiutezza” del cambiamento democratico ed è stato il successivo periodo di radicalismo, nella crisi generale paneuropea del 1968, che ha riaperto le possibilità. L’arrivo di un nuovo movimento femminile, la messa in discussione della famiglia, la nuova politica della sessualità, la politicizzazione della vita personale e le relative caratteristiche della politica emergente dell’ultima parte del XX secolo hanno dato l’impulso decisivo alle più grandi critiche del movimento del 1968, dal discorso dell’alienazione e della ristrutturazione dei mercati del lavoro, al rinnovato interesse per la politica comunitaria, all’azione diretta e alle forme di partecipazione a piccola scala.
Da quel momento, certamente nelle teorie e in larga misura nella politica, le femministe hanno trasformato completamente il rapporto tra il personale e il politico, permettendo così di ridefinire completamente i rapporti tra la quotidianità e la vita pubblica. Le femministe hanno esteso la portata del “politico” in tutta la vita domestica e sul posto di lavoro, la sessualità e le relazioni personali, la salute e l’educazione e le sempre crescenti richieste e desideri di consumo. Sempre di più nel corso del ventesimo secolo, i dettami democratici hanno imposto l’applicazione anche a queste aree, superando le posizioni precedentemente recalcitranti dalla vita quotidiana fino a quelle degli organi e dell’azione politica.
La crescente rilevanza della democrazia in queste cose rende sempre più difficile sottomettere il suo significato in una nozione strettamente istituzionale di come e dove si svolge la politica. Quella sorta di cognizione certamente ha dominato la maggior parte delle forme tradizionali della storia politica, ma fin dagli anni ’60 e ’70 la politica si è svolta in modo inconfondibile al di là di quei vecchi limiti. Questa violazione dei confini della politica resta il vero fulcro del radicalismo dal 1968, sia nella politica della conoscenza che nella vita politica stessa. Proietta la contrazione dell’immaginazione democratica contemporanea attorno al dogma del mercato in una luce appropriatamente reazionaria.
Come ho detto prima, dalla caduta del comunismo prevalgono definizioni di democrazia legate costantemente alle idee del libero mercato e ai diritti individuali, limitando l’azione politica a circoscritti ambiti di amministrazione sociale, alle procedure dei parlamenti e allo stato di diritto. Non aspettandosi qualcosa di più dalla politica, i sostenitori contemporanei insistono, di superare i limiti realistici e consentiti della sfera della politica. In uno sviluppo storiografico parallelo, gli specialisti principali delle rivoluzioni russe e francesi hanno cercato di concentrare i significati di quei grandi eventi in modo simile, postulando una necessaria logica di violenza, radicalismo e terrore una volta che la politica avesse abbandonato la sua carica autolimitante. Non accidentalmente, quei critici revisionisti hanno iniziato a sviluppare queste leggende “politiche” della storia rivoluzionaria negli anni ’70 e ’80, proprio come se stessero seriamente demolendo nei loro tempi l’autonomia della politica8.
Nel trattare i due compromessi postbellici del 1917-23 e del 1945-49 come comparabili congiunture rivoluzionarie, parlo di una storia più complessa. In questi insediamenti operativi dell’innovazione democratica – l’attualità della democrazia – le conquiste decisive sono venute proprio dall’eccesso. La democratizzazione ha comportato mobilitazioni popolari di intensità e scala eccezionali. Queste sono diventate possibili solo in presenza di gravi conflitti socioeconomici, cadute di governi e crisi dell’intera società. La democratizzazione è stata anche violenta, non solo nelle forme di azione diretta, polarizzazione e tecnica coercitiva, ma anche in una certa necessaria logica di confronto. I vecchi e dati meccanismi politici – il processo parlamentare, le procedure, il consolidamento del consenso, le regole di civiltà – erano tutti demoliti. Qualsiasi conseguente conquista di una democrazia, potenziale o realizzata, ha sempre presunto queste crisi, sia nel 1989 che nel 1968, o in uno degli esempi nazionali più limitati, come l’Ungheria e la Polonia nel 1956, il Portogallo nel 1975, la Spagna alla metà degli anni ’70 o Polonia nel 1980- 81. In crisi come queste, i grandi momenti della seconda metà del secolo, i parlamenti e le aule delle commissioni erano sempre accompagnate, di solito sfidati e, occasionalmente, sovrastati dalle strade. In ogni caso, per ogni successo dell’innovazione democratica, le aule delle commissioni parlamentari e le strade devono essere organizzate e spinte a camminare insieme.
NOTE
1 Alessandro Portelli, Luigi’s Socks and Rita’s Makeup: Youth Culture, the Politics of Private Life, and the Culture of the Working Classes, in A. Portelli, The Battle of Valle Giulia: Oral History and the Art of Dialogue, Madison: University of Wisconsin Press, 1997, p. 241.
2 Portelli, p. 240.
3 Jill Julius Matthews, They Had Such a Lot of Fun: The Women’s League of Health and Beauty Between the Wars, in “History Workshop Journal”, 30 (autunno), 1990, p. 47.
4 Helena Swanwick, in “Manchester Guardian”, 24 agosto 1932, citato in Brian Harrison, Prudent Revolutionaries: Portraits of British Feminists Between the Wars, Oxford University Press, Oxford 1987, p. 320.
5 George Orwell, The Road to Wigan Pier, Gollancz, London 1937, citato in Beatrix Campbell, Wigan Pier Revisited: Poverty and Politics in the Eighties, Virago, London 1984, pp. 217, 227.
6 Marie Juchasz, in un discorso al Congresso Kiel del SPD, citato in Heinrich August Winkler, Der Schein der Normalität. Arbeiter und Arbeiterbewegung in der Weimarer Republik 1924 bis 1930, Dietz, Berlin 1985, pp. 353-55.
7 Vedi Lynne Segal, “The Most Important Thing of All” – Rethinking the Family: An Overview, in Segal (ed.), What Is To Be Done About the Family?, Penguin, Harmondsworth 1983, p. 19.
8 In una cena in occasione dell’incontro dell’ American Historical Association, nel dicembre 1994 a San Francisco, François Furet ha inveito contro il femminismo contemporaneo come “nuovo Comitato per la Sicurezza Pubblica”.