Presentiamo oggi un articolo di Paola Moretti, tratto dal numero di agosto della newsletter femminista “Ghinea”. È un percorso non edificante o anodino in alcuni romanzi della letteratura contemporanea delle donne. Ed è soprattutto un incontro con personagge non omologabili a un simbolico di eterna positività femminile, fra donne ricche in spigoli e-o evanescenze, figure che presentiamo appartenere al nostro quotidiano, al di là delle “madri simboliche” del Novecento.
Cattive maestre, di Paola Moretti
Attenzione: questo articolo potrebbe essere inconcludente, sgangherato e scomposto, perché non si possono fare le cose sempre per bene, precise e irreprensibili. Lo posso dire? Sono stufa di impegnarmi sempre il triplo perché ho l’apparato riproduttivo femminile. Voglio essere libera di fare cagate, di tentare cose e sbagliare, di peccare di arroganza, spararla non grossa, ma enorme, senza avere il terrore di essere giudicata incapace. Ecco, l’ho detto. E so per certo di non essere l’unica.
In un articolo di Claudia Durastanti su Finzioni (inserto culturale del Domani del 12 aprile 2025), ho letto: “In molte storie della contemporaneità, la donna in cui ci imbattiamo diventa pienamente centrale solo in qualità di contenitore di messaggi precisi ed edificanti. Raramente al suo interno troviamo materiali spuri non immediatamente intellegibili: di fatto c’è poca pazienza verso le sue divagazioni, i suoi sbandamenti accidentali sui sentieri sbagliati, c’è poca pazienza verso un personaggio femminile che non ama e non odia, che non resiste e che non impara, che non si trasforma e che non lotta, che non crea sorellanza o non riflette puntualmente sulla sua condizione di donna”.
Sì, cazzo! Ho pensato, mentre mi sono trovata lì a sottolineare un quotidiano: non solo siamo stufe di essere “ragazze per bene”, ma ci siamo anche rotte di leggerne e di scriverne.
La protagonista del romanzo a cui lavoro ormai da un po’ non risponde alle domande che le vengono poste, non è una buona amica, né una brava figlia, non perde la testa per nessuno e non ha grandi ambizioni. Il commento che me ne ha fatto una persona a me cara che ha letto una prima stesura è stato: “Falla crescere, ti prego. Non la sopporto!”. Un’affermazione del genere, ovviamente, dà da pensare: forse, allora, non ne siamo tutte così sature. Pensare, poi, vuol dire parlarne nelle nostre congreghe, ed è venuto fuori che molte donne non sopportano Fleabag. Ma come, l’anti-eroina millennial citata in tutti gli articoli femministi (🙋), nuova reference universale, ritratto accuratissimo e impietoso del nostro disagio esistenziale, ci sta sul cazzo? Proprio così. Il suo procedere erratico di cazzata in cazzata, senza venire veramente a capo della sua vita, va detto, indispone. Se si lasciasse aiutare, magari. Se la smettesse di mascherare tutto con lo humour, forse. Se mostrasse apertamente la sua vulnerabilità, potrebbe piacerci di più. Tutt’altro discorso infatti vale per la Fleabag della seconda stagione, perché lei sì, si innamora. Certo, di un prete cattolico, ma cede pur sempre al sentimento più alto di tutti e dunque, un po’ testona magari, ma comprensibile, immedesimabile, degna recipiente della nostra compassione.
Sorge dunque la grande domanda: ma cosa vogliamo dalle donne? Anche in ambito narrativo. Persino nella finzione devono in qualche modo essere personaggi esemplari svolgendo il ruolo canonico che ci si aspetta dalla protagonista di una storia? Spuntare le caselline dei requisiti fondamentali come evolversi, arrivare a una sorta di epifania, trasformarsi per mezzo di un grande amore, facilitare l’immedesimazione della lettrice o del lettore?
Phoebe Hadjimarkos Clarke, Ottessa Moshfegh e Rachel Cusk dicono di no.
Fauvel è il personaggio che forse più mi ha affascinata nei romanzi contemporanei che ho letto quest’anno. Protagonista di Aliena di Phoebe Hadjimarkos Clarke, uscito per Atlantide, Fauvel prende il nome da un asino protagonista di un poema satirico francese del XIV secolo, acronimo dei sette peccati capitali Flatterie (Adulazione) Avarice (Avarizia), Vilenie (Villania), Variété (Incostanza), Envie (Invidia) e Lâcheté (Codardia). Ha una trentina d’anni e ha recentemente subito la perdita di un occhio durante gli scontri con la polizia a una manifestazione, evento che ha messo in crisi (letteralmente) la sua visione dell’esistenza. Accetta di fare da dog-sitter al cane del padre della sua migliore amica, e per farlo va a stare a casa di lui nella campagna francese a Cournac. Questo cane non è un cane qualunque, ma il clone dell’amatissima Hannah, l’animale “vero” morto qualche tempo prima. Anche la campagna non è una campagna qualunque, ma lo scenario di strane uccisioni di fauna locale da parte di una bestia misteriosa, possibili avvistamenti UFO e campo di gioco per un nutrito gruppo di cacciatori.
L’incipit mi conquista: “I cani? Il fatto è che Fauvel non ne è mai andata pazza. Non le dispiacciono, solo non sente per loro quell’eccessiva tenerezza e complicità che altri provano, o almeno non particolarmente”.
Tre righe e abbiamo già una caratteristica distintiva importante. Nelle pagine che seguono la protagonista viene descritta dallo sguardo impietoso del suo datore di lavoro “le ciocche flosce sistemate dietro le orecchie troppo grandi”, “sembra in effetti svuotata della sua foga, e d’altra parte non le è riuscito niente nella vita”. Ma Fauvel non suscita compassione o pietà, perché durante il lungo monologo in cui Luc le racconta lo strazio provato alla morte del suo animale domestico l’empatia che Fauvel mostra è quasi nulla. Quando arrivano nella casa di campagna, Fauvel è sul punto di inventarsi una scusa e piantare in asso il padre della sua amica, per non menzionare il fatto che, il primo giorno in cui rimane da sola con la creatura di cui si deve occupare, Hannah le scappa via. Noncurante, inaffidabile e inetta, che meraviglia.
Il suo tratto più accattivante, per quanto mi riguarda, è la capacità di alienarsi: nella maggior parte delle situazioni Fauvel prende delle derive di pensiero a volte truci, a volte più surreali. Che sia con l’aiuto di THC o che sia tutta farina del suo sacco, a Fauvel capita spesso di viaggiare in una dimensione altra rispetto alla realtà in cui si trova. Di Fauvel, se fosse una nostra amica, diremmo che è una disadattata. E nel corso della narrazione non fa grandi miglioramenti personali, riflette, sì, sulla violenza della società in cui viviamo, sulla sensazione di ansia e di paura che l’attanaglia da quando riesce a ricordare, sull’asfissia che ormai le provoca la città, sulla sua mancanza di mezzi, volontà e obiettivi. Vi pone rimedio? Si applica per porvi rimedio? Pensa nella direzione del porvi rimedio? No. L’unica cosa che nel corso della narrazione migliora è il rapporto con il cane.
Poi succedono cose e, per quanto strampalata, una trama esiste e la si riesce a seguire, ma non è questo a rendere Aliena un romanzo interessante. Tutto il merito va alla sua protagonista, che fino alla fine non vuole niente, non mette in moto grandi rivoluzioni del sé, continua a essere sciatta, a trascurare ciò che la circonda, a essere opaca a sé stessa e agli altri. È difficile far affezionare i lettori a un personaggio così, è difficile scrivere un personaggio che si definisce in negativo, più per l’assenza di qualità e caratteristiche personali che per la loro esistenza, allo stesso tempo però Fauvel mi è sembrata in qualche modo più vera, più vicina a ciò che esperisco, più simile a una persona che è viva ai nostri tempi.
Un personaggio che ha preceduto cronologicamente Fauvel, ma che secondo me non è venuta fuori altrettanto pulsante, è la protagonista de Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh. Senza nome, la giovane donna e voce narrante del romanzo decide di passare un anno a dormire con l’aiuto di massicce dosi di psicofarmaci. Teoricamente non le mancherebbe nulla per vivere una vita, se non appagante, per lo meno agiata. Dopo la morte dei genitori ha ereditato una quantità di soldi sufficiente per vivere tranquilla a New York, ha un impiego in una galleria d’arte ed è abbastanza attraente da ottenere facilmente l’attenzione delle persone che la circondano. Tuttavia le manca la voglia: sul posto di lavoro dorme nello sgabuzzino, porta avanti una relazione con un uomo che la usa da svuotapalle, frequenta un’amica dell’università di cui non sembra avere alcuna stima. L’unica cosa che persegue con disciplina militaresca è la dissociazione dalla realtà. Dormire il più possibile diventa la sua ragione d’esistere.
Le differenze con Flauvel sono palesi: al contrario della protagonista francese, quella americana ha un obiettivo che persegue con ostinazione, però le mancano certe sfumature di carattere. Dove una genera curiosità in chi legge per il suo essere così poco comprensibile, l’altra genera fastidio per essere così monodimensionale. Capiamoci, un personaggio che irrita chi legge non è di per sé negativo, ma uno che non ha contraddizioni sì. C’è un momento nel romanzo in cui sembra che Moshfegh tenti di dare un po’ di chiaro-scuro all’io narrante quando la fa partecipare al funerale della madre della sua migliore amica. Il risultato purtroppo è tiepido (un po’ come tutto nel libro per me). La protagonista si ritrova inspiegabilmente diretta alla casa periferica dell’amica, come se avesse preso la decisione di andarci durante uno stato di incoscienza, e una volta lì si comporta come qualcuno che preferirebbe essere altrove e non fa nulla per dissimularlo. L’effetto che sortisce questo episodio è monco, inefficace, la protagonista non ci sta né più simpatica, né più antipatica di prima.
Allora mi faccio altre domande: anche io ho delle aspettative di tipo morale su questo personaggio? Mi lascio irritare dal fatto che dimostri una vita emotiva così misera, o le mie ragioni sono altrove? So di essere frustrata dal fatto che la narratrice menzioni una forte depressione dovuta al fatto di essere rimasta orfana e di aver avuto una vita famigliare disastrosa – ci sta – ma non ne vedo gli effetti oltre all’ ossessione per l’annullamento di sé – mi basta? Sono frustrata dal non trovare lati positivi, divertenti, sorprendenti in questa donna, ma d’altra parte cosa ci si può aspettare da una che aspira alla totale apatia? Sono frustrata dal non trovarci nemmeno niente di davvero deprecabile. Questo libro mi scazza, mi suscita una lunghissima alzata di spalle con la bocca torta all’ingiù, ecco, non saprei come dirlo meglio.
Dato per scontato che l’idea di partenza è avvincente –non è semplice sviluppare una trama attorno a una che non vuole fare nulla – Moshfegh a suo modo ci riesce, il romanzo si legge senza troppa fatica. Ma per quanto scorrevole la scrittura, per quanto brillante la prosa, a un certo punto è inevitabile la noia. Un paio di trovate ci sono, quella più elettrizzante (spoiler: l’amica le ruba tutti gli psicofarmaci) si esaurisce in poche pagine smorzando l’eccitazione di tutti, sia di chi legge sia di chi – finalmente – agisce nella storia.
Perché Aliena sì e Il mio anno di riposo e oblio no? Perché una, Aliena, pur nella sua confusione e inadeguatezza, una visione del mondo ce l’ha, e sebbene non ottimista, roseo e idilliaco, almeno un pensiero per il futuro esiste, una proiezione verso un orizzonte che non si esaurisce nella disfatta assoluta la si intravede. L’altra, invece, pare essere soltanto la paladina di un nichilismo del tutto individuale ed egotico dove il mondo esterno praticamente non esiste se non in rappresentazioni ciniche e opportuniste degli altri esseri umani. Forse un’anti-eroina fallimentare mi va bene, ma sentirmi dire che fa tutto schifo e non c’è speranza, quello no.
Allora mettiamola così, non condivido la Weltanschauung della protagonista de Il mio anno di riposo e oblio, ed è chiaro che non mi parla abbastanza, una reticenza che imputo a un’aridità di sfaccettature che me la rende piuttosto prevedibile e tediosa. In breve, con un’opinione così forte bisogna avere anche abbastanza fascino da rendere tutta l’argomentazione accattivante, per non risultare solo una snob che dice “io la penso così” e poi incrocia le braccia. Eppure, nonostante tutti questi limiti, la protagonista di Riposo e oblio ha comunque il merito di ingrossare le file delle donne non esemplari che figurano nella narrativa contemporanea.
Continuando il percorso a ritroso, un’altra protagonista che ha generato fastidio e fascinazione è la narratrice di Resoconto di Rachel Cusk, uscito per Einaudi nel 2018. Faye è una scrittrice di successo diretta ad Atene per tenere un seminario. Oltre a questo di lei sappiamo poco e niente – è reduce da un divorzio e ha due figli – tutti elementi che coincidono con i dati biografici dell’autrice. Sul volo per la capitale greca incontra un uomo, o meglio, il suo vicino di posto comincia a parlare, a raccontarle della sua vita.
Questa tipologia di relazione si ripresenta per tutto il romanzo: Faye conosce una persona e questa persona le parla delle sue storie, la protagonista, se così si può chiamare, rimane in secondo piano, sempre troppo lontana perché i lettori ne carpiscano la caratteristiche e i dettagli. Il suo ruolo sembra essere quello di accogliere confidenze altrui e riportarle con la sua voce e con la sua selezione di parole, con la sua scelta cronologica e con la sua (assenza di) enfasi. Il risultato, anche per la prosa e il tono della narrazione tipicamente cuskiano, molto asciutto e analitico, è che la narratrice rimane distaccata e inconoscibile. È questo che provoca le suddette reazioni, cioè fastidio e fascinazione.
Faye diventa uno specchio del suo interlocutore, una superficie che rimanda indietro ciò che ognuno vuole vederci. Siccome nella sua passività e (quasi) neutralità Faye fornisce ben pochi appigli per farsi un’idea di lei, allora vale tutto. Il suo modo composito e poco emozionato di riportare le conversazioni la fanno percepire come fredda o giudicante. La sua mancanza di reazioni manifeste la rende altezzosa o indifferente. La sua ritrosia e riservatezza la condannano al sospetto e all’ostilità altrui. Resoconto mostra, ne sono prova gli svariati articoli di critica, che la non intelligibilità di un personaggio donna lo rende tendenzialmente sgradevole.
Di fatto, però, quello che fa Faye è soltanto fungere da cornice, da catalizzatore narrativo, da trasmettitore di storie altrui, che sì filtrano attraverso il suo sguardo e la sua lingua, ma che di base non sono accompagnati da nessun commento. Quindi mi chiedo: se fosse stata un uomo, sarebbe risultata altrettanto irritante? Se fosse stato uno scrittore famoso, invece che una scrittrice, il protagonista di questo libro, avrebbe provocato lo stesso sconcerto? Magari sarebbe un esperimento interessante, riscrivere un Resoconto tutto al maschile e vedere che effetto fa un uomo che ascolta e riporta le storie altrui cercando di nascondersi il più possibile. Sarebbe fascinoso da morire? O avrebbe generato la stessa diffidenza?
Si dice che Rachel Cusk abbia scritto la “Trilogia dell’ascolto” – Resoconto, Transiti e Onori – di conseguenza ai suoi due memoir Il lavoro di una vita: sul diventare madri e Aftermath: On Marriage and Separation, i cui temi si evincono facilmente dai titoli e che sono stati – la faccio brevissima – ferocemente criticati per la schiettezza del tono in cui sono stati scritti. Ma quindi come funziona, se una scrittrice, senza né piangersi addosso né mitizzare le proprie esperienze, racconta dritto per dritto quello che ha passato usando una prima persona autorevole, ben definita e chiaramente caratterizzata, giù a darle addosso? Se una scrittrice inventa un personaggio sfuggente di cui non si capisce mai la temperatura, del cui intimo non ci è lasciato esplorare nulla, di cui ciò che pensa rimane un mistero o quanto meno ambiguo, allora giù a darle addosso? Un po’ sì, ma non del tutto. La storia non si esaurisce, fortunatamente, qui. Resoconto insieme a Transiti e Onori ha ricevuto anche molti plausi e Il lavoro di una vita, francamente, è il miglior memoir sulla maternità che abbia mai letto e non sono l’unica a pensarlo.
La risposta sul doppio standard uomo-donna rispetto alla domanda che facevamo prima, cioè, se un uomo adottasse lo stesso atteggiamento che rende sgradevole una donna risulterebbe altrettanto sgradevole o meno, forse la fornisce per estremo e per inverso Alia Trabucco Zerán nel suo libro true crime Quando le donne uccidono, edito da Sur. L’autrice cilena sceglie una prospettiva singolare per parlare di quattro assassine, si concentra sulla reazione che questi omicidi, avvenuti tutti e quattro in momenti chiave della storia del suo paese – il primo nel 1916 in concomitanza con la prima ondata di femminismo, il secondo nel 1923 con l’inserimento delle donne nel mondo del lavoro, il terzo nel 1955 dopo la conquista del pieno diritto di voto e il quarto, nel 1963 durante la liberazione sessuale delle donne – hanno innescato in accusa e difesa durante i processi, stampa, arte e conseguentemente opinione pubblica.
Le donne assassine commettevano doppio delitto: erano fuori dalla legge giuridica, ma anche fuori dalle leggi che codificano la femminilità. Per questo motivo avvocati, giudici e giornalisti parlavano sempre di donne che non erano tali, erano pazze, erano streghe, erano troppo mascoline per essere definite donne, erano anormali, mostri, femme fatale: le donne assassine non erano mai veramente umane. Quando la donna entra nel regno per eccellenza del patriarcato, ossia la violenza, saltano tutti i parametri e bisogna ricorrere all’eccezionale e allo straordinario per rassicurare l’establishment, una donna normale non ha pulsioni omicide, non attua azioni violente. Una donna non varca la soglia di ciò che è appannaggio esclusivamente maschile e se lo fa, allora non è una donna.
Il libro di Trabucco Zerán è potente nella sua analisi, inclemente, non tralascia di sottolineare il fatto che tutte e quattro le assassine, confesse e condannate, sono state poi graziate, alcune dopo pochissimo tempo passato in prigione. Non per magnanimità o per galanteria rivolta al gentil sesso, ma, sostiene l’autrice, per renderle innocue, smentire la minaccia e neutralizzare la carica di pericolo che portavano con sé.
Abbiamo letto tutte abbastanza per riconoscere il pattern. Senza dover ricorrere a omicidi efferati, non assistiamo allo svolgimento dello stesso trito temino ogni volta che una donna esula dal ruolo, dalla scatoletta in cui deve entrare per forza? Reale o fittizia che sia, se esce dai contorni di esemplarità – o accettabilità – che una società di maschi ha tracciato per lei, ecco che si impiegano i soliti stratagemmi di oppressione: diffamazione, ostracismo, infantilizzazione. Quando, mi chiedo, una donna potrà essere solo una persona?
Paola Moretti è scrittrice e traduttrice. Ha esordito nel 2021 con il romanzo Bravissima, edito per 66thand2nd. Ha curato insieme a Giulia Caminito l’antologia Donne d’America edito per Bompiani. È autrice dei podcast Phenomena – audiobiografie impossibili (Nero) e Terzo Incomodo (Emons). Nel 2024 è uscito il suo ultimo libro, Incorreggibili, un saggio narrativo edito per 66thand2nd.