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Boris Johnson si sconfiggerà da solo?

di Enrico
Sartor

Il prossimo 5 maggio si terranno le elezioni amministrative in Gran Bretagna, che l’opposizione laburista e lib-dem spera saranno, con una sostanziale sconfitta dei Conservatori, il chiodo finale sulla bara del governo di Boris Johnson, da mesi percepito in una fase di crisi senza ritorno. Le più recenti proiezioni di voto confermano la tendenza stabilita da diverse settimane che vede i Laburisti al 40% con un vantaggio di sei punti sui Conservatori e un rating negativo per Boris Johnson del 66%, con solo un 34% dell’elettorato che pensa che il governo stia facendo un buon lavoro.

Il governo britannico è stato travolto negli ultimi mesi da una successione di scandali, che vanno dalle sanzioni penali nei confronti di suoi membri (compreso Johnson) per aver violato la disciplina anti-Covid, all’aver mentito al Parlamento, alla recente condanna giudiziaria per aver costretto gli ospedali a dimettere migliaia di pazienti anziani nelle case di riposo senza test Covid preliminari, scatenando un’ondata di contagi che ha causato decine di migliaia di morti nei primi mesi della pandemia.

Alle crescenti pressioni di dimettersi, provenienti anche da importanti esponenti del suo partito, Johnson ha risposto con un barrage di scelte politiche e annunci confezionati puramente per essere dati in pasto all’estrema destra e ai suoi media, come Daily Mirror e The Telegraph. Trattasi di decisioni sulla cui legalità e razionalità persino l’ex primo ministro conservatore Theresa May ha espresso profonde critiche in Parlamento. Ne sono esempi: l’idea di trasportare i richiedenti asilo – arrivati in Gran Bretagna attraversando la Manica – in campi di detenzione in Rwanda, una scelta che il capo della Chiesa anglicana ha definito contraria al “giudizio di Dio”; la decisione di privatizzare la rete televisiva Channel 4 che, benché sia l’unico canale della BBC che non ricorre al finanziamento pubblico ed abbia una brillante storia di giornalismo investigativo e di qualità culturale, è sempre stato una spina nel fianco dell’estrema destra conservatrice. Queste iniziative, del resto, sembrano aver contribuito poco a rialzare le fortune politiche del governo.

A ben poco sembra essere servita anche l’autopromozione di Johnson a capo della “crociata” Nato contro la Russia, in un ruolo che vede il suo governo gettare quotidianamente benzina sul fuoco di una situazione già drammatica. In questa scelta politica ci sono degli indubbi interessi strategici materiali per il Regno Unito, per esempio la possibilità di avere tutti gli Stati baltici sotto l’ombrello Nato con un ruolo locale di “top dog” per il Regno Unito ed avere in tal modo il controllo di un’area geopolitica che, con la crescente apertura delle rotte artiche, sta diventando una delle più importanti zone economiche e commerciali del mondo.

Ma l’elemento trainante principale è l’uso della guerra come mezzo storicamente collaudato per rilanciare le fortune politiche di leader corrotti, legati a scelte fallimentari e in crescente disgrazia nell’opinione pubblica. Lo sanno chiaramente i leader di Paesi-paria dell’Unione come Polonia e Ungheria, lo sapeva Margaret Thatcher esattamente quarant’anni fa con la guerra delle Malvinas/Falkland.

In Gran Bretagna questo assume toni ancora più allarmanti, perché si mescola con la lotta per successione nel caso dell’estromissione di Boris Johnson. Infatti, a competere con la ferocia parolaia di Johnson, troviamo la ministra degli esteri Liz Truss. Fino a poco prima della guerra, la ministra era degna di nota nei media inglesi solo per aver confuso il nome del Primo ministro greco che aveva appena incontrato con quello di una pop star della musica greca, o per aver confuso il mar Baltico col mar Nero durante una riunione con la controparte russa, o per l’opportunismo con cui era rapidamente passata dall’essere una anti-Brexit durante la campagna referendaria ad esser una pro-Brexit arrabbiata dopo la vittoria del campo di Boris Johnson.

Fino a poco tempo fa, il candidato naturale alla successione di Boris Johnson sembrava il ministro del tesoro Rishi Sunak, poi caduto in disgrazia sia per la crudele politica sociale e finanziaria imposta al Paese, sia soprattutto a causa delle rivelazioni sulle manovre della ricchissima moglie al fine di evitare il pagamento al fisco di decine di milioni di sterline. Ora Liz Truss sembra la più papabile se Boris Johnson dovesse non sopravvivere il 5 maggio a una sconfitta elettorale. Da qui il suo nuovo parlar duro e forte (girano voci che stia prendendo lezioni di elocuzione per perdere il suo accento e imitare quello della Thatcher) e le dichiarazioni imbarazzanti, quale l’invito a ogni cittadino inglese che si senta pronto ad armarsi e andare a combattere in Ucraina. Ironia della sorte: uno dei primi volontari inglesi caduti è stato un ex-soldato che aveva combattuto in Iraq, esecutore di un’invasione illegale di un altro Paese.

Nonostante la paralisi in cui il susseguirsi di scandali ha posto il governo, l’esito delle prossime elezioni non è per nulla scontato, così come non lo sono le dimissioni di Johnson. E ciò in buona misura a causa della pochezza dell’opposizione dei laburisti di Starmer, quasi esclusivamente focalizzata da settimane sugli scandali del party gate, cioè sulla violazione delle regole anti-Covid da parte di Johnson e dei suoi ministri e sul conseguente aver mentito al Parlamento una volta che lo scandalo era emerso.

Nonostante l’innegabile gravità giuridica e politica dello scandalo, l’insistenza monopolizzante del partito laburista su questo esclusivo tema, assieme all’isteria bellica dei Tory, hanno lasciato ben poco spazio ad ogni altra iniziativa politica, per esempio su temi quali la crescente crisi del reddito familiare nel Paese. Siamo di fronte al più grave crollo del tenore di vita negli ultimi cinquant’anni, con milioni di famiglie britanniche condannate a dover scegliere tra riscaldamento o cibo, eppure la crisi sociale sembra avere meno spazio politico del party gate o della guerra in Ucraina nel dibattito e nell’iniziativa politica della sinistra parlamentare. Le manifestazioni di protesta organizzate all’inizio di aprile in tutto il Paese facevano capo alla People’s Assembly, un network della sinistra in cui laburisti corbynisti hanno una buona presenza.

Altre questioni su cui i laburisti di Starmer sembrano avere pochissima iniziativa politica sono quelle concernenti la crescente foga autoritaria e antidemocratica del governo di Johnson. Solo nell’ultima settimana di aprile il Parlamento ha approvato – con una discussione estremamente sommaria: un decreto-legge che introduce restrizioni draconiane sul diritto di assemblea pubblica e dimostrazione politica; un decreto-legge che introduce l’obbligatorietà di un documento d’identità per poter votare (rendendo di fatto più complicato l’accesso al diritto di voto per larghi strati di popolazione povera ed emarginata); un decreto che trasferisce dall’esistente commissione indipendente al governo la decisione dei livelli di personale necessari al funzionamento del sistema sanitario nazionale; un decreto-legge che riduce la possibilità di un ricorso giudiziario contro la possibile illegalità di provvedimenti del governo e della pubblica amministrazione; un decreto che permette al governo di legiferare in materia di richiedenti asilo e rifugiati non in ottemperanza con i trattati internazionali che il Regno Unito ha sottoscritto. Anche su alcuni di questi argomenti le uniche dimostrazioni pubbliche sono state organizzati solo da movimenti di base.

Perciò, una delle ricorrenti critiche che l’elettorato muove a Starmer, quella di non rappresentare una chiara alternativa politica a Johnson, al di là del dominante trolling dei media di destra, non si riferisce chiaramente alle sue instancabili quotidiane esibizioni da principe del foro in Parlamento contro un governo corrotto e morente, ma all’incapacità dei laburisti dopo Corbyn di organizzare nel Paese un vero dibattito e un movimento per un’alternativa di sinistra.

Enrico Sartor

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