Chissà come descriverebbe questo nostro Paese, e il suo popolo, i suoi “dirigenti”, uno come Bertold Brecht che scrisse “Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”.
Questa sua frase, famosissima, mi è venuta in mente in questi giorni in cui si “discute” di presidenza della Repubblica.
E leggendo l’intervista di Massimo D’Alema al Manifesto, interessante per quello che è lui e per ciò che rappresenta di un modo di percepirsi a sinistra. E non sarei sincero se non dicessi che, nonostante tante cose condivisibili, non sono rimasto convinto, per continuare nelle citazioni di famiglia.
Da una parte i candidati più evidenti, Berlusconi e Draghi, che sono francamente sconfortanti. E la cui “disputa” puzza lontano un miglio di giochetto. Dall’altra un personaggio politico, per cui nutro anche simpatia, ma che contemporaneamente mi appare l’immagine della sconfitta “triste”. Non quella donchisciottesca dei mulini a vento ma quella del pessimismo della volontà, per invertire il detto di Antonio Gramsci, uno che di popoli e classi dirigenti se ne intendeva.
In questa squallida discussione sulla Presidenza si evidenzia tutto il pessimo stato delle cose che emerge dall’intervista di D’Alema. “Io e Amato abbiamo pensato che si potesse governare la globalizzazione”. Frase in cui c’è quell’ottimismo dell’intelligenza che Gramsci avrebbe condannato. L'”erede” più “accreditato” del PCI e il dottor sottile “contiguo” alle teorie della governabilità del “nuovo socialismo europeo”. La sconfitta, di D’Alema e non di Amato a mio giudizio, sta certo anche in quella desertificazione dei soggetti politici che D’Alema lamenta. Ma qui c’entra l’occhettismo che D’Alema ha “assecondato” sia pure con l’aria consueta di distacco. Come ha assecondato e accompagnato i Blair e i Clinton. Con la differenza che questi sono stati protagonisti di lunghi periodi di governo in cui hanno fatto quello che volevano mentre la Presidenza del Consiglio di D’Alema è durata pochi mesi. Certo non si può dire che non abbia inciso in tutto ciò che è stato fatto, dico io di male, nel trentennio.
Ma sempre all’ombra di altri, Ciampi, Dini, Prodi. Ora di Draghi, di cui correttamente individua i rischi nel “draghismo”, ma che, come sempre, asseconda, in attesa.
Quando penso e scrivo che il riformismo è un cane morto, ancora di più il migliorismo, penso a ciò che l’intervista di D’Alema pure “riflette”. Addirittura riesce a percepire le contraddizioni che mettono a rischio Biden. Ma nel riproporre un tema che aveva già affrontato, e cioè un possibile rapporto tra socialdemocratici, a cui dice di appartenere nonostante le polemiche di questi anni, e sinistre “radicali”, cita il caso italiano del PD che più che guarito dal renzismo è impantanato nel draghismo e la relazione tra Sinistra Italiana e Verdi, che appare l’ennesimo giro di giostra politicista di gruppi estenuati. Non gli viene in mente neanche l’esempio spagnolo dove il rapporto tra socialisti e radicali non è un pranzo di gala ma si fa nel conflitto tra i due campi e sui punti cardine della lotta di classe rovesciata.
Ha ragione D’Alema nel dire che senza la forza organizzata di un grande partito (e tale era il PCI) le cose non si fanno. Ma del PCI a lui manca non solo la forza ma anche l'”astuzia” riformatrice, la capacità di misurare i rapporti di forza cercando però gli elementi di possibile avanzamento. Si è nutrito di un politicismo alla fine velleitario e subalterno che è lontano da quella lezione. In realtà il suo è anche un pessimismo dell’intelletto (anche sulla natura”di destra” dell’Italia) però senza quel rigore “malizioso” per cui di fronte al colpo di stato in Cile Berlinguer non rinuncia al socialismo ma propone il compromesso storico. E qui tralascio le mie critiche a quel percorso che pure fu l’ultimo tentativo riformatore misurabile anche con leggi magari inadeguate ma che sono l’esatto opposto di quelle di cui è costellato il cammino degli “eredi” del PCI da Maastricht in poi. Non a caso Maastricht fu letta con grande precisione da Ingrao e da Magri mentre ancora oggi D’Alema cincischia.
E quanto ci sia da riflettere sull'”Europa reale” lo conferma l’elezione della candidata popolare a Presidente del Parlamento europeo che è un fatto gravissimo. Si tratta di una figura di destra su tutti i piani, politici, sociali e civili. La convergenza nel voto di Lega e Fratelli d’Italia con Popolari, Socialisti e Liberali dice quanto la contrapposizione tra “europeisti” e “sovranisti” sia in realtà una spartizione e una condivisione di potere e pessime politiche (naturalmente il gruppo the Left ha votato la propria candidata).
Purtroppo è qualcosa che ci fa capire come l’Italia col suo centrosinistradestra guidato da un banchiere “Ueista” sia in sintonia con questo triste spettacolo di cui fa parte ciò che sta accadendo per la Presidenza della Repubblica.
Si potrebbe dire che tutto questo accade perché il “rigore malizioso” è sostituito appunto da un politicismo velleitario. Dunque l’analisi dell’errore così avviene sempre dopo e mai prima a prevenire.
Tanto è vero che la Storia del PCI è stata dispersa, che proprio il terreno che maggiormente segnalò il suo rigore, quello democratico, è ridotto a brandelli in cui l’unico pilota, automatico, è la governance di Maastricht mentre il resto è ciò che vediamo nella disputa per il Colle.
In cui non c’è nessuna opzione di valore in campo con chance di successo. La disputa tra il cavallo ruffiano Berlusconi e il banchiere, neanche semipresidenzialista ma “Ueista”, Draghi, è paradigmatica del popolo senza eroi, rovesciando il detto di Brecht, che siamo oggi. Forse sarà poi un comprimario ad essere eletto. O avremo il prolungarsi di Mattarella. Ma un altro passo verso il presidenzialismo straccione e pericoloso sarà stato fatto. E intanto alle suppletive di Roma si astiene il 90% a dire che il giochino tra candidati che poi, chiunque fosse stato eletto, avrebbero appoggiato il governo Draghi ha ormai sfinito.
La variante, sacrosanta, di genere non ha fin qui trovato il piglio che ha il femminismo in altri Paesi. È ciò che io preferirei come ho già scritto. Contro i 74 anni di carica monosessuata. E legata a un profilo ambientalista, femminista, costituzionale.
Niente Stefano Rodotà e niente Gino Strada in campo, come fu ancora poco tempo fa.
Simpatico che ad esempio di valori costituzionali e non solo sia spuntata in rete anche la candidatura di Bertinotti. Uno definito perdente ma che in campo c’è stato e c’e voluto un coalizzarsi di tanti per buttarlo fuori.
Triste il Paese senza eroi popolari, per cercare un compromesso con l’incipit brechtiano che ho scelto. Siamo un Paese senza leader politici né vecchi né giovani, né Sanders, Corbyn, né Boric, Camilla Vallejo, né Yolanda Diaz per citare una età e una storia intermedia.
Siamo un Paese con tanti movimenti anche generosi ma che nella partita terribile del Covid perdono dieci a zero visto tutto quello che chi comanda ha fatto e fa, dai brevetti, al PNRR, alle privatizzazioni dell’acqua, al nucleare. I tempi in cui chi si era opposto a sciogliere il PCI lottava per non tagliare le pensioni e prendeva i voti sono lontani. Succede ancora in altri Paesi, non solo da noi.
Non sono della sinistra radicale, dice D’Alema e mi viene in mente come il Brancaccio sia stato travolto da una operazione politicista come LEU, che ha portato il 99% degli eletti che appoggiano Draghi.
Noi siamo il Paese che “a sinistra” pensa che D’Alema non sia un “perdente”. Invece lo è come lo siamo noi ma le nostre sconfitte non sono le stesse. Capirlo serve per provare a tornare a vincere.
Roberto Musacchio