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Assistiamo attoniti all’agonia del diritto internazionale

di Alessandro
Scassellati

I paesi potenti si comportano come se il diritto internazionale non contasse, o addirittura non esistesse. Un numero crescente di studiosi e giuristi sta perdendo fiducia nel sistema attuale del diritto internazionale. Altri sostengono che la colpa non sia della legge, ma degli Stati che dovrebbero rispettarla. Proprio quando il mondo ha disperatamente bisogno di anziani saggi, il suo destino è nelle mani di vecchi e spietati patriarchi. Il diritto internazionale che presiede all’ordine globale sta venendo smantellato da una generazione di governanti che non vivrà abbastanza per vedere i detriti che si lascia alle spalle.

Mentre il mondo è alle prese con un’ondata di conflitti armati, crisi umanitarie e palesi violazioni dei principi fondamentali del diritto internazionale (tra cui attacchi all’indipendenza delle corti internazionali, preoccupazioni sul genocidio e sulle guerre in Medio Oriente), i commentatori si interrogano sempre più sulla rilevanza del diritto internazionale. Ha mai avuto importanza? È mai stato espressione di solidarietà globale e di un’umanità comune? E se sì, perché oggi sta fallendo in modo così catastrofico? Allo stesso tempo – e ironicamente in mezzo a questa turbolenza globale – il diritto internazionale, incluso il diritto dei diritti umani, rimane il quadro normativo più dominante per legittimare e delegittimare i comportamenti sulla scena globale, a dimostrazione della sua persistente influenza anche quando la sua applicazione appare precaria. Con l’espressione “agonia del diritto internazionale” cerchiamo di mettere in luce un dibattito cruciale sull’efficacia e la legittimità del diritto internazionale nell’affrontare le sfide globali. Essa evidenzia il divario tra gli ideali del diritto internazionale e la sua applicazione pratica, in particolare in ambiti come la prevenzione dei conflitti militari, i diritti umani, la tutela ambientale e la giustizia economica.
A fine aprile, alcuni terroristi hanno ucciso 26 civili nella città indiana di Pahalgam, situata nella regione montuosa di confine del Kashmir. L’India ha rapidamente incolpato il Pakistan dell’attacco, ha lanciato attacchi missilistici verso di esso e ha annunciato la sospensione del trattato sulle acque dell’Indo, minacciando di fatto di interrompere i tre quarti dell’approvvigionamento idrico del Pakistan. L’India sta ipotizzando di chiudere il rubinetto a 250 milioni di persone. Ciò violerebbe non solo il trattato, ma anche le leggi internazionali sull’uso equo delle risorse idriche.
I governanti pakistani hanno la spaventosa consapevolezza che non ci sia molto da fare perché assistiamo a un’improvvisa erosione delle istituzioni multilaterali, delle norme istituzionali internazionali. Tutto sembra incerto. Anche se il Pakistan presentasse un reclamo a una delle istituzioni create per dirimere le controversie tra Stati – il Consiglio di Sicurezza e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) o la Corte permanente di arbitrato – qualsiasi decisione ne derivasse, quasi certamente non verrebbe rispettata1. Il diritto internazionale è sempre dipeso dalla buona fede degli Stati nazionali. E questa buona fede si è erosa.
Nel 2024, 52 Paesi hanno partecipato al procedimento presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia riguardante l’occupazione in corso da parte di Israele dei territori palestinesi in Cisgiordania. I rappresentanti di questi Paesi hanno sostenuto davanti alla Corte che l’occupazione israeliana è illegale e l’illegalità deve avere delle conseguenze. La Corte internazionale di giustizia ha dichiarato illegale l’occupazione israeliana del territorio palestinese (Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza) e ne ha chiesto la cessazione “il più rapidamente possibile”. A distanza di un anno si è consolidata una profonda consapevolezza che nulla di tutto ciò ha effettivamente cambiato la situazione sul terreno. Forse ciò che è stato detto ai giudici e dai giudici significherà qualcosa per gli storici del futuro, ma le parole dei rappresentanti dei 52 Paesi e dei giudici non hanno fatto nulla per impedire la sofferenza dei palestinesi. Non importa a quale tribunale ci si rivolga, non si otterrà giustizia. E i civili sono intrappolati in questa rete geopolitica che non è opera loro, mentre Israele continua a bombardare Gaza senza pietà da quasi due anni, insieme ad attacchi aerei in Libano, Siria, Yemen e Iran, o a condurre una pulizia etnica al rallentatore a Gaza e in Cisgiordania2.

Alcuni giuristi sostengono che, a meno che una legge o una sanzione non sia prontamente applicabile, non esiste un ordinamento giuridico significativo. Nelle parole del famoso giurista americano Oliver Wendell Holmes, “Le profezie su ciò che i tribunali faranno di fatto, e nulla di più pretenzioso, sono ciò che intendo per legge”. Seguendo questa massima di Holmes, se si profetizza che varie corti e tribunali internazionali non faranno nulla per giudicare e punire alcun crimine della Russia, di Israele o di qualsiasi altro Paese che commetta atrocità, allora si può affermare che il diritto internazionale – almeno sotto questo aspetto – non esiste. Il diritto internazionale potrebbe benissimo esistere, ma non fa alcuna differenza.
La condotta della Russia e di Israele, tra molti altri Paesi, sembra attualmente non essere intralciata dalle norme giuridiche in generale e dalle sanzioni individuali in particolare. Gli Stati Uniti hanno appena bombardato pesantemente un altro Stato sovrano in un attacco che non aveva alcun fondamento visibile nel diritto internazionale. Sembrerebbe una situazione in cui tutto è lecito negli affari mondiali, dove la forza prevale sul diritto.

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Nell’ultimo decennio, le istituzioni chiave che tutelano l’ordine internazionale sono state indebolite, paralizzate o compromesse. Il recente ritiro degli Stati Uniti da una vasta gamma di organizzazioni e accordi internazionali – gli accordi di Parigi sul clima, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite – ha ulteriormente danneggiato il sistema; le sanzioni statunitensi alla Corte penale internazionale (CPI) hanno minato la credibilità della Corte e creato seri ostacoli finanziari alle sue indagini sui crimini di guerra in Ucraina e a Gaza. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è in una situazione di stallo da oltre un decennio, grazie al potere di veto dei suoi 5 membri permanenti.
Le minacce di Trump di occupare la Groenlandia e il Canada e di impadronirsi del canale di Panama, così come il suo suggerimento che gli Stati Uniti potrebbero prendere possesso di Gaza dopo l’espulsione di due milioni di palestinesi e la sua richiesta all’Ucraina di cedere parti di territorio alla Russia in cambio di un cessate il fuoco, hanno ulteriormente minato l’edificio già logorato del diritto internazionale. Fanno tutte parte di un attacco coerente a un principio consolidato del diritto internazionale: agli Stati è vietato minacciare o usare la forza militare contro altri Stati per risolvere le controversie. Anche solo sollevare la possibilità di queste azioni chiaramente illegali danneggia la norma giuridica, perché le rende concepibili. Pochi giorni dopo che gli Stati Uniti hanno seguito Israele nel condurre attacchi aerei illegali contro siti nucleari in Iran3, alcuni analisti hanno sostenuto che le azioni di Trump minacciano di “rimodellare l’ordine giuridico globale, trasformandolo da un sistema governato dalla legge a uno governato dalla forza”4. Il pontefice cattolico Leone XIV denuncia il “vergognoso” disprezzo per il diritto internazionale e il diritto umanitario, e afferma che le regole internazionali sono state “sostituite dal presunto diritto di sopraffare gli altri”, mentre i conflitti infuriano in tutto il mondo e le istituzioni globali continuano a non riuscire a porre fine agli abusi e ai crimini di guerra.
Se l’attuale fase di caos sistemico dovesse aggravarsi e il divieto di uso della forza dovesse crollare, Putin, Trump e il presidente cinese Xi Jinping potrebbero benissimo concordare di suddividere il mondo in sfere di influenza. I loro paesi sarebbero quindi liberi di terrorizzare gli Stati all’interno delle loro rispettive sfere, estorcendo concessioni ai meno potenti in cambio di protezione. Sebbene sia possibile che un mondo del genere sia temporaneamente relativamente tranquillo, sarebbe anche molto meno libero. È più probabile che i tipi di conflitti incessanti che il divieto di guerra ha bandito tornino, dando vita a un mondo in cui, nelle parole di Tucidide, “i forti fanno ciò che possono e i deboli soffrono ciò che devono”.
L’erosione del diritto internazionale è iniziata ben prima che Trump prendesse il potere nel 2017. La rilevanza, e persino l’esistenza stessa, del diritto internazionale è stata oggetto di dibattito fin dalla sua nascita, quasi due secoli fa (dalla Pace di Vestfalia del 1648 che chiuse la Guerra dei Trent’anni in Europa). I suoi sostenitori sostengono che sia il baluardo contro un’altra grande guerra mondiale, un freno alla criminalità e alla violenza di massa. I suoi critici sostengono che, lungi dal proteggere il mondo dai crimini peggiori, abbia invece protetto gli Stati fornendo loro un linguaggio con cui giustificare i propri torti. Gli stessi giuristi internazionalisti sono divisi sul fatto che la loro disciplina sia viva e vegeta, in letargo, in agonia, o defunta da tempo, un “fantasma morale” che aleggia sulla mappa del mondo.

Sì, l’ordine internazionale basato sulle regole è sempre stato più caotico nella pratica che sulla carta. Ma almeno l’ideale esisteva. Esisteva un quadro morale condiviso – traballante, certo, ma sincero – fondato sulla convinzione che l’umanità non dovesse mai ripetere le atrocità della prima metà del XX secolo e che il dialogo e la diplomazia fossero migliori. Quella convinzione sembra essere ormai svanita, soprattutto nelle menti di coloro che dovrebbero averla maggiormente a cuore. Oggi, le regole di coesistenza del mondo vengono disfatte da una vecchia generazione al potere, che non vivrà abbastanza per vedere le macerie che si lascerà alle spalle. È più facile gridare “trivellate, baby, trivellate” quando è statisticamente improbabile che nell’immediato si verifichi il peggio del collasso climatico. Après nous le déluge, come dicono i francesi. Si potrebbe pensare che una generazione così fortunata da beneficiare della longevità – Vladimir Putin e Xi Jinping hanno entrambi 72 anni, Narendra Modi ne ha 74, Benjamin Netanyahu 75, Donald Trump 79 e Ali Khamenei 86 – lascerebbe dietro di sé un’eredità di cura, gratitudine e gestione globale. Invece, stiamo assistendo alla peggiore recrudescenza di repressione, violenza, genocidio, suprematismo, ecocidio e disprezzo per il diritto internazionale da decenni – perpetrata, il più delle volte, da settantenni e ottantenni spietati al potere che sembrano più interessati a sfuggire ai processi che a preservare la pace.
L’agonia del diritto internazionale è un tema complesso e controverso. Alcuni sostengono che il diritto internazionale sta affrontando sfide significative, come:

– violazioni dei trattati e delle convenzioni: alcuni Stati stanno violando gli accordi internazionali, mettendo in discussione la loro validità e efficacia. Ad esempio, i paesi sulle due sponde del Mediterraneo centrale violano ormai da anni il diritto internazionale nel soccorso in mare, per cui oggi non si soccorre più e migliaia di persone all’anno continuano a morire5;

– crisi multilaterale: la crescente tendenza verso l’unilateralismo e il protezionismo sta minando la cooperazione internazionale e le istituzioni multilaterali (a cominciare dal sistema di commercio internazionale basato sull’Organizzazione Mondiale del Commercio – OMC);

– inefficacia delle sanzioni: le sanzioni economiche e diplomatiche non sempre raggiungono gli obiettivi desiderati, e possono avere effetti collaterali negativi;

– nuove sfide globali: il diritto internazionale deve affrontare nuove sfide, come il cambiamento climatico, la cybersecurity e la biotecnologia, che richiedono risposte innovative e coordinate a livello internazionale.

Tuttavia, altri osservatori sostengono che il diritto internazionale sta evolvendo e adattandosi alle nuove sfide, e che:

– la cooperazione internazionale continua: nonostante le crisi, gli Stati continuano a cooperare su questioni globali, come la lotta contro il terrorismo e la pandemia di Covid-19;

– nuove forme di diritto internazionale: stanno emergendo nuove forme di diritto internazionale, come il diritto internazionale dell’ambiente e il diritto internazionale dei diritti umani;

– ruolo delle organizzazioni internazionali: le organizzazioni internazionali, come le Nazioni Unite, continuano a giocare un ruolo importante nella promozione della pace, della sicurezza e dello sviluppo sostenibile.

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L’Aia è una città piena di simboli dei diversi tentativi messi in piedi dalla comunità internazionale di dotarsi di istituzioni mirate ad implementare le regole del diritto internazionale e assicurare la pace nel mondo. L’edificio che un tempo ospitava il tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia si trova proprio di fronte al centro internazionale per il perseguimento del crimine di aggressione da parte della Russia contro l’Ucraina. Il tribunale per le richieste di risarcimento Iran-USA, istituito in seguito alla crisi degli ostaggi di Teheran del 1979 e ancora in funzione, si trova a 10 minuti a piedi lungo la strada, mentre l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche ha sede a pochi metri di distanza. Queste istituzioni hanno poco a che fare tra loro in termini di diritto, ma la loro sede comune all’Aia conferisce loro una patina di legittimità. La CPI si trova nell’angolo nord-est della città, proprio in fondo alla strada rispetto al centro di detenzione dove sono ospitati i suoi imputati (tra gli attuali occupanti figurano l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte e il leader ribelle centrafricano Alfred Yekatom). Poi, c’è il Palazzo della Pace, sede della Corte Internazionale di Giustizia.
Queste istituzioni sono l’incarnazione concreta della disciplina nota come “diritto internazionale”, sebbene gli studiosi tendano a non essere d’accordo su cosa sia effettivamente il diritto internazionale. Invece di una risposta, ci si trova di fronte a una serie di metafore: per alcuni è “come la gravità: non la vedi, ma c’è”. Altri la paragonano all’ortografia della lingua inglese (le regole possono sembrare inventate); alla pornografia (la riconosci quando la vedi); a uno specchio d’acqua (non sta fermo); a una commedia (può sfidare la ragione); a una tragedia (troppo spesso, tutti perdono). I suoi materiali costitutivi, secondo lo statuto della Corte Internazionale di Giustizia, includono trattati, convenzioni, consuetudini e casi, nonché “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili” e “insegnamenti degli esperti più qualificati”.
Ma parlare di diritto internazionale come di un mero insieme di regole e accordi significa eludere la sua funzione di “lingua franca del sistema internazionale” e di mezzo per esprimere la convinzione che gli autori di crimini globali debbano essere puniti al pari dei criminali nazionali, e (più spesso) per esprimere incredulità quando non lo sono. Il diritto internazionale è diventato il vernacolo delle “classi medie istruite” di cui parlare in continuazione. Parlare di “diritto internazionale” significa evocare una serie di immagini particolari: l’alto comando tedesco in attesa della sentenza a Norimberga; criminali di guerra e genocidi sotto processo all’Aia. Questi sono episodi di diritto penale internazionale, la branca più giovane e fragile del diritto internazionale, e quella su cui si dibatte più aspramente da politici, media e opinione pubblica.
Oggi, nel settore si diffonde sempre più la sensazione che il diritto penale internazionale sia un progetto fallito, un “morto che cammina“. Pochi sono gli avvocati disposti a difenderlo senza riserve. Il divario tra le aspirazioni del diritto penale internazionale e la realtà per le persone sul campo è sempre più ampio. E questo è un problema per il diritto, perché il diritto dovrebbe realizzare obiettivi nel mondo reale.
La creazione della CPI nel 1998 ha rappresentato la realizzazione delle aspirazioni più romantiche del diritto internazionale: chiamare a rispondere gli autori di crimini emblematici ogni volta che i loro Stati non lo hanno fatto. La Corte ha aperto i battenti in un momento unico e forse irripetibile nelle relazioni internazionali, quando le potenze mondiali si godevano ancora gli strascichi della fine della Guerra Fredda. Col senno di poi, è stato questo uno strano periodo storico in cui molte delle preoccupazioni delle grandi potenze in materia di sovranità e sicurezza sono state in qualche modo ridimensionate. Ciò ha permesso a un progetto come la CPI di decollare in un modo che non avrebbe potuto fare in nessun altro periodo.
Quel periodo, però, si rivelò di breve durata. La CPI, che ha un budget operativo annuale di circa 200 milioni di euro, non riuscì mai a realizzare appieno le aspirazioni che l’avevano portata alla luce. Nei suoi 23 anni di storia, ha emesso solo 11 condanne, tutte per crimini commessi nel continente africano6. C’è un’aura neocoloniale intorno alla CPI che è difficile scrollarsi di dosso. La Corte era il prodotto della “hybris liberale” degli anni ’90, frutto di un sistema che era stato sedotto dal proprio idealismo. Una visione del mondo iper-ottimistica costruita attorno all’inevitabile marcia di tutto il mondo verso la democrazia liberale (ricordate “La fine della storia” di Fukuyama negli anni ’90?).
Fin dalla sua fondazione, la CPI è stata accusata di essere un veicolo per la giustizia dei vincitori, una “falsa corte” agli occhi dei suoi detrattori. Il recente arresto di Duterte, pur rappresentando una significativa vittoria per la Corte, sarà contestato in quanto le Filippine si sono formalmente ritirate dallo Statuto di Roma nel 20197. E sebbene i mandati di arresto emessi dalla Corte per il presidente russo Vladimir Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu siano importanti gesti simbolici, la probabilità che uno dei due rinvii a giudizio porti a un processo è praticamente nulla. Russia e Israele si sono uniti a Stati Uniti, Siria e Cina nel rifiutarsi di aderire allo Statuto di Roma, negando di fatto alla Corte l’autorità di processare i propri cittadini8.
L’impegno degli Stati Uniti nel minare la Corte è profondo. Un mese dopo la sua istituzione ufficiale, il Congresso ha approvato una legge nota come “Hague Invasion Act”, che conferisce al presidente il potere di utilizzare “tutti i mezzi necessari” per rilasciare un funzionario del governo statunitense detenuto dalla CPI. Quando, nel 2017, il procuratore della CPI Fatou Bensouda ha tentato di aprire un’indagine sulle atrocità presumibilmente commesse da personale statunitense in Afghanistan, le è stato negato il visto d’ingresso negli Stati Uniti e la Corte è stata minacciata di sanzioni economiche. L’indagine è stata infine archiviata a seguito delle pressioni dell’amministrazione Trump. Più di recente, a Bensouda è stato affidato l’incarico di indagare su presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Palestina, un incarico per il quale ha dovuto affrontare “minacce dirette” alla sua persona e alla sua famiglia.
I mandati d’arresto di alto profilo per Putin e Netanyahu hanno forse accresciuto il prestigio della Corte, ma ne hanno anche evidenziato l’impotenza e attirato contromisure potenzialmente fatali da parte degli Stati Uniti. Paradossalmente, il momento in cui la Corte dimostra di avere forza potrebbe essere la sua fine.

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Le critiche al diritto internazionale sono note e, in un certo senso, impossibili da negare: che sia troppo debole, che venga applicato selettivamente, che sia semplicemente un’estensione del potere statale. Si basa su un sistema orizzontale, in cui gli Stati devono tenersi a freno a vicenda, e questo finisce inevitabilmente per portare ad una politicizzazione. Si tratta essenzialmente di un sistema di opt-in: gli Stati deboli che ne violano le direttive sono definiti paria o canaglie; gli Stati potenti che lo fanno sono definiti egemoni.
Per i critici del settore, il problema non è solo che il diritto non ferma le guerre né protegge i civili, ma anche che offre agli Stati un vocabolario per giustificare l’uso incontrollato della forza. Le violazioni non sono l’eccezione, ma la regola. Ad esempio, il diritto internazionale umanitario limita l’uso di alcuni tipi di armi, come le mine antiuomo o le bombe a grappolo, che sono “indiscriminate per natura, in grado di causare danni senza distinguere tra combattenti e civili”. Ciò non ha impedito a Israele, che per primo ha ratificato la Convenzione su alcune armi convenzionali nel 1995, di utilizzare bombe a grappolo contro la popolazione civile nel 2006, durante la guerra in Libano (Israele, come Stati Uniti, Russia, Iran e Cina, si è rifiutato di firmare la Convenzione del 2008 sulle bombe a grappolo). Più di 1.000 persone sono state uccise, circa un terzo delle quali erano bambini. L’esercito israeliano ha affermato che l’uso di bombe a grappolo non costituiva una violazione del diritto internazionale, perché erano mirate a obiettivi militari e perché la popolazione della periferia meridionale di Beirut, un’area chiamata Dahiya, era stata avvisata in anticipo dell’attacco.
Fu durante quel conflitto che le forze israeliane svilupparono quella che oggi è nota come “dottrina Dahiya“, che consente l’uso di una forza “sproporzionata” contro centri abitati civili in determinate circostanze. L’attacco a Dahiya fu una palese violazione del cosiddetto “principio di proporzionalità” del diritto internazionale, secondo il quale i civili non possono essere attaccati se il risultato è “eccessivo rispetto al concreto e diretto vantaggio militare previsto”. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite istituì una commissione per indagare sull’evento, la quale concluse che “non vi era alcuna giustificazione” per l’uso di bombe a grappolo.
Ogni studioso che lamenta il declino del diritto internazionale identifica un momento di decadenza. Per alcuni questo avvenne negli anni ’60, quando i suoi obiettivi originari di pace e giustizia iniziarono a essere soppiantati dagli imperativi amministrativi e gestionali della globalizzazione. Per il giurista israeliano Itamar Mann, Dahiya rappresenta l’inizio della fine del diritto internazionale come sistema credibile per prevenire le atrocità. “Non stavano semplicemente ignorando la norma: la stavano invocando proprio per gli scopi che avrebbe dovuto limitare o controllare”, ha affermato. Tentando di giustificare un’azione giuridicamente ingiustificata con il linguaggio del diritto internazionale, Israele si è fatto beffe dello spirito e della lettera della legge. “In generale, quello è stato il momento in cui l’idea che un intero quartiere potesse essere eliminato, o quasi, è emersa”, ha affermato Mann. Il diritto internazionale “era un modo per contrastare l’uso brutale della forza, e questo non esiste più”.
Il ricorso al diritto internazionale come copertura per violazioni del proprio ordine ha contribuito a far percepire la disciplina come in declino. La Russia, ad esempio, si è impegnata a fornire argomentazioni legali per la sua invasione dell’Ucraina nel 2014. In un documento volto a giustificare l’attacco del 7 ottobre contro Israele, Hamas ha fatto riferimento a un parere della Corte Internazionale di Giustizia sulla costruzione di un muro sui territori palestinesi occupati e ha invitato gli Stati a “rispettare le proprie responsabilità nei confronti del diritto internazionale”. Nel frattempo, i politici israeliani hanno spesso invocato il diritto internazionale come scudo e alibi per la continuazione dell’azione militare a Gaza. Il fatto che uno Stato come la Corea del Nord si sia preso la briga di accusare Israele di aver commesso un “crimine imperdonabile contro l’umanità” attaccando l’Iran è un segno che qualcosa non va nel sistema internazionale, o un segno che funziona come dovrebbe.
Gerry Simpson ha iniziato la sua carriera credendo fermamente nel diritto internazionale e nel suo potere, e ha scritto articoli in cui proponeva l’istituzione di nuove commissioni e simili. Ora considera quell’approccio fuorviante. Parte del problema della disciplina, sostiene, è che il diritto internazionale, come qualsiasi sistema di credenze, è in fondo solo un insieme di parole, e queste parole hanno perso il contatto con la realtà che dovrebbero descrivere: “Qualcuno pensa che ‘gravi violazioni delle leggi di guerra’ catturi l’essenza del danno fisico e mentale causato da ordigni esplosivi o tortura?”, scrive nel suo recente libro, The Sentimental Life of International Law.
“Molte persone cercano di aggrapparsi a un sistema legale che è sempre meno accessibile”, afferma Monica Hakimi, ex avvocato del Dipartimento di Stato e ora professoressa di diritto internazionale alla Columbia University. “Non si vuole semplicemente alzare le mani e rinunciare alle norme giuridiche internazionali che hanno prevenuto guerre di massa e tutelato i diritti individuali. Ma credo che non stiamo riflettendo a fondo sui tipi di compromessi che dovremo accettare se vogliamo fermare le tendenze più pericolose che stiamo osservando”.

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Diversi avvocati pensano che è ormai da tempo che è necessario fare i conti con i fallimenti del settore e con la sclerosi delle sue istituzioni. “Sarebbe sciocco affermare che le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, così come sono strutturati attualmente, siano adatti allo scopo di condurci fino alla fine del secolo”, ha affermato Sir Daniel Bethlehem, ex consulente legale del Ministero degli Esteri britannico. “Non riesco a immaginare di uscire dal pantano del Sudan, o della RDC, o di Israele-Gaza, o dell’Ucraina, semplicemente mettendo un piede davanti all’altro”. Bethlehem ha sostenuto una riconsiderazione a lungo termine della forma e del contenuto del sistema internazionale. Se vogliamo trovare una via d’uscita dall’attuale crisi, sostiene, “c’è un urgente bisogno di riprogettare, di riconfigurare”.
Per i veri credenti in questo campo, non c’è alcuna crisi nel diritto internazionale in quanto continua a esistere come un insieme di regole neutrali che si suppone si applichi alle relazioni tra gli Stati, e si suppone che si applichi senza paura o favoritismi. In sostanza, si tratta di essere lucidi (“realisti”) sui limiti del lavoro degli operatori del diritto internazionale. Dire Tladi, un giurista sudafricano molto stimato che, l’anno scorso, è stato nominato giudice presso la Corte Internazionale di Giustizia, lo scorso maggio, in una dichiarazione relativa alla causa intentata dal Sudafrica contro Israele per presunte violazioni della Convenzione sul genocidio del 1948, ha scritto che “non ci sono più parole per descrivere gli orrori a Gaza”, e ha spiegato che la Corte aveva ordinato a Israele di interrompere le sue operazioni militari e aveva chiesto ad Hamas di rilasciare gli ostaggi. “Ma”, ha concluso, “la Corte è solo una Corte!”. Le sue parole, e quelle dei suoi colleghi, potevano fare solo fino a un certo punto. La legge emanava direttive e pronunciava sentenze, ma cadevano nel vuoto. Nessun parere consultivo può far invertire la rotta a un carro armato.
Il punto, sostiene Tladi, è che ciò a cui stiamo assistendo oggi non è il fallimento del diritto internazionale, ma piuttosto il fallimento della politica internazionale. “Il diritto c’è”, ha detto, ma “le lacune del diritto internazionale sono state spesso usate come pretesto per la non-responsabilità”. E anche laddove le lacune non esistono – “Non c’è dubbio sul fatto che non sia consentito commettere genocidio”, ha detto Tladi – la politica e il potere internazionale hanno spesso smorzato la forza del diritto internazionale. “Non si può ignorare l’influenza del potere sul processo legislativo”, ha aggiunto.
Raji Sourani, direttore del Centro Palestinese per i Diritti Umani, fuggito da Gaza con la famiglia dopo l’esplosione della loro casa alla fine di ottobre 2023, offre una difesa del diritto internazionale altrettanto strenua. Snocciola un elenco di vittorie: la Corte Internazionale di Giustizia ha riconosciuto che a Gaza si sta verificando un plausibile genocidio e ha emesso sei misure provvisorie che intimano a Israele di limitare l’uso della forza e di rispettare la Convenzione sul genocidio; la Corte Penale Internazionale ha emesso mandati di arresto contro Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant per possibili crimini di guerra a Gaza, tra cui l’uso della fame come arma di guerra; quasi 100 soldati israeliani sono indagati per crimini di guerra in almeno 14 paesi in base al principio della giurisdizione universale. “Il problema non è il diritto internazionale”, sostiene Sourani. “Ne abbiamo fatto il miglior uso possibile, per il bene dello stato di diritto e della dignità umana, e per proteggere i civili”. Il problema, ritiene, risiede negli Stati che sostengono che il diritto internazionale non debba essere applicato in modo coerente. Infatti, la maggior parte dei membri della CPI, soprattutto in Europa, ha mantenuto profondi legami commerciali e militari con Israele, nonostante le accuse. Sourani e i suoi colleghi palestinesi erano molto contenti “quando hanno parlato del diritto ucraino all’autodeterminazione e all’indipendenza”. Questi stessi standard devono essere applicati ovunque. “Non ci possono essere vere democrazie quando si è selettivi nel decidere a chi si applica il diritto internazionale”.
Secondo alcuni studiosi, i critici del diritto internazionale hanno una certa responsabilità per la paralisi del settore. Sollevando costantemente la questione della sua rilevanza e persino della sua stessa esistenza, hanno esposto il sistema al cinismo, agli attacchi e alla manipolazione. Per Sourani, i dibattiti sul diritto internazionale sono tutt’altro che accademici. “Crediamo nella giustizia, nella dignità dell’uomo, nello stato di diritto, nei diritti umani. Queste non sono solo parole. Queste sono le vite delle persone, il sangue, il dolore e la sofferenza delle persone”. 

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Dove andrà a parare il diritto internazionale da qui? Il campo è ciclico: a volte ci vogliono eventi terribili per risvegliare l’umanità alla profondità delle nostre azioni, spingendoci a riflettere, a redimerci e a tornare ai nostri valori fondamentali. Ora siamo in un periodo di recessione: il diritto internazionale non scomparirà, ma le sue istituzioni probabilmente continueranno a perdere credibilità e le loro sentenze avranno sempre meno peso. Il degrado del diritto internazionale sarà accompagnato da una parallela erosione dello stato di diritto all’interno degli Stati. È facile criticare il diritto internazionale, è facile dire che non è applicabile, che è tutto uno scherzo. Stiamo vedendo cosa succede quando un presidente come Trump attacca il diritto nazionale. Ogni diritto dipende da un sistema di buona fede, incluso il diritto nazionale9.
La Cina ha lentamente iniziato ad assumere il ruolo che un tempo gli Stati Uniti ricoprivano nelle istituzioni internazionali, riformulando il diritto a propria immagine10. Mentre gli Stati Uniti si sono allontanati dai forum multilaterali, la Cina si sta inserendo. Partecipa a tutte le riunioni della CPI; partecipa al sistema. In assenza della partecipazione degli Stati Uniti probabilmente otterremo un sistema giuridico internazionale guidato dalla Cina, che probabilmente sarà un diritto in cui la tutela dei diritti umani e la distribuzione degli aiuti sll’estero saranno declassate, e il rispetto dei confini statali sarà accresciuto. La gelosa protezione della sovranità statale è il principio attorno al quale ruota la politica estera cinese. Le Nazioni Unite rappresentano per la Cina un forum per promuovere questa visione ad altri paesi del Sud globale: vogliono fare causa comune con paesi stanchi di ricevere lezioni retoriche da europei, statunitensi e dalle ONG.
Finora, tuttavia, l’ordine internazionale guidato dalla Cina non sembra essere più coerente della versione che lo ha preceduto. Tutti vanno in direzioni diverse: la Cina è molto interessata alla sovranità e all’integrità territoriale, ma non sta facendo molto per aiutare l’Ucraina. La Turchia occupa una parte di Cipro praticamente da 60 anni, e la gente si è abituata. Il rappresentante cinese alle Nazioni Unite ha recentemente affermato che gli attacchi statunitensi contro l’Iran hanno danneggiato la credibilità del Paese nei negoziati internazionali, e i media statali cinesi hanno rimproverato gli Stati Uniti per aver giocato con la “politica di potenza” a scapito del diritto internazionale.
Nei prossimi anni, è probabile che lo spesso strato di trattati e accordi internazionali che ha governato gli ultimi decenni continui a erodersi. A fine giugno, il ministro degli Interni indiano Amit Shah ha annunciato che il suo Paese “non ripristinerà mai” il trattato sulle acque dell’Indo e che “il Pakistan sarà privato dell’acqua che ha ottenuto ingiustamente”.
Siamo a un punto di inarrestabile crisi nella storia dell’ordine internazionale del dopoguerra, anche se la maggior parte dei paesi continua a riconoscere il diritto internazionale e a rispettarlo. La scelta dei grandi paesi di scegliere quali regole seguire e quali infrangere è una caratteristica sorprendente della nostra epoca. Questa indifferenza è netta e sfacciata. Ed è significativo che, nel bombardamento dell’Iran, gli Stati Uniti non abbiano nemmeno tentato di giustificare l’attacco in termini di diritto internazionale. Per il presidente Trump, il vizio internazionale non ha bisogno di rendere omaggio alla virtù internazionale. La potenza egemonica mondiale (USA) declina e con i suoi alleati (Europa e NATO) si oppone al declino con tutti i mezzi, ma le forze in ascesa (Cina, BRICS, Sud globale) non hanno ancora accumulato la forza per determinare un equilibrio alternativo. Assistiamo al declino del dominio economico-finanziario e politico-militare americano – la Pax Americana, il cosiddetto «ordine internazionale basato sulle regole» (anche se le «regole» non sono state mai veramente scritte da nessuna parte ad eccezione della Carta delle Nazioni Unite, un’organizzazione di cui fanno parte 193 Stati che però vede le risoluzioni della sua Assemblea Generale sistematicamente ignorate dagli stessi USA e dalle altre grandi potenze) – che è venuto consolidandosi a partire dalla seconda metà del XX secolo sulla scia prima della dissoluzione degli imperi britannico, francese e di altri paesi europei, e poi del collasso dell’Unione Sovietica nel 1991.
L’attuale agonia del diritto internazionale rappresenta uno dei sintomi più emblematici della crisi di questo dominio e, più in generale, della crisi del capitalismo globale – la globalizzazione – regolato dal neoliberismo attraverso accordi free trade e le «istituzioni di Bretton Woods» (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, etc.). Una crisi sistemica che si dipana con l’emersione di un mondo multipolare e policentrico caratterizzato da rapporti sempre più problematici e tesi tra le tre cosiddette superpotenze dotate di grandi arsenali nucleari, Stati Uniti e i loro alleati occidentali, Cina, Russia, e un numero crescente di paesi emergenti non occidentali del «Sud globale» (soprattutto asiatici, come India, Indonesia, Malaysia, Filippine e Vietnam, ma anche Messico, Brasile, Sud Africa, Nigeria, Turchia, Iran e paesi del Golfo), per cui si è aperta una nuova fase storica, quella della globalizzazione selettiva basata su una frammentazione dell’economia-mondo in blocchi geopolitici e geoeconomici in via di «disaccoppiamento» – un blocco euro-atlantico con i suoi satelliti in Asia orientale e Oceania e un blocco euro-asiatico in formazione – che esprimono diversi modelli di sviluppo capitalistico e di rapporti strutturali tra sistema tecnologico e finanziario e sistema sociale e politico, e sono in forte competizione tra loro per la supremazia economica (integrazione e controllo di risorse strategiche, supply chains e mercati), politico-militare (sfere di influenza) e culturale (egemonia ideologica e soft power). Mentre nella fase precedente della globalizzazione dispiegata gli Stati Uniti e l’Occidente collettivo mettevano in piedi accordi e istituzioni internazionali con l’obiettivo di controllarle (e quindi di controllare il mondo), ora cercano dichiaratamente di sovvertirle, renderle impotenti e distruggerle, determinando il caos (un mondo senza regole e norme, dove prevale la legge dell’attore più forte e aggressivo), un ritorno alla legge della giungla che porta all’agonia del diritto internazionale..
In ogni caso, il diritto internazionale – o quello che i giuristi chiamano “diritto internazionale pubblico” – continuerà a esistere nonostante l’attuale estrema violenza: i paesi continueranno a stipulare accordi con altri paesi e continueranno a esistere organizzazioni internazionali. Ci saranno persino regole e standard che potrebbero essere considerati applicabili indipendentemente dal consenso del paese. Il diritto internazionale è sempre stato un sistema dinamico e evolve parallelamente al mondo che intende governare. Il diritto internazionale rifletterà lo stato del mondo. Quindi la vera domanda è: come sarà (e se ci sarà) il mondo?
Solo una grande crisi costringerà l’umanità a unirsi, a riorganizzare le istituzioni globali e a riprendere il confronto con il diritto internazionale. La grande crisi che potrebbe in ultima analisi portare a un rinnovamento del diritto internazionale, probabilmente non sarà Israele-Palestina, o Russia-Ucraina, o la minacciata annessione della Groenlandia, o l’erosione delle istituzioni multilaterali, ma il cambiamento climatico, una questione critica che rende evidente un mondo basato sulla coscienza della necessaria unità del genere umano. Nei prossimi anni, il diritto internazionale risponderà al cambiamento climatico, e questo si rifletterà su altri aspetti del settore: prima gli investimenti commerciali, e poi, infine, su aspetti come l’integrità territoriale e i procedimenti della CPI. L’anno scorso, un numero senza precedenti di Stati ha partecipato ai procedimenti di crisi climatica presso la Corte Internazionale di Giustizia, e i giudici stanno ora lavorando a un parere consultivo sugli obblighi statali in materia di protezione dell’ambiente. Se si leggono i rapporti scientifici dell’IPCC dell’ONU, ci dicono chiaramente che stiamo perdendo la lotta contro il collasso climatico. 

Alessandro Scassellati

  1. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel 1945, furono istituite le Nazioni Unite, al fine di prevenire futuri massacri globali e promuovere soluzioni diplomatiche ai conflitti. L’artico 2 della Carta delle Nazioni Unite proibisce agli Stati di attaccarsi a vicenda e richiede che l’uso della forza sia approvato dal Consiglio di Sicurezza (persino prima dell’arbitraria invasione dell’Iraq del marzo 2003, il Segretario di Stato statunitense, Colin Powell, andò a chiedere l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, seppure adducendo false prove e ragioni). È uno dei documenti fondamentali del diritto internazionale. Ma questa legge è stata più volte violata e soprattutto delegittimata. Ad esempio, l’aggressione della NATO alla Federazione Jugoslava nel 1999, sotto la presidenza Clinton, è avvenuta senza nessuna autorizzazione dell’Onu.) []
  2. La situazione a Gaza è estremamente critica e solleva gravi questioni relative al diritto internazionale. Secondo Francesca Albanese, Relatrice Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nel Territorio palestinese occupato, i palestinesi a Gaza sono vittime di un “genocidio lento” condotto sotto gli occhi della comunità internazionale. Israele è responsabile di diverse violazioni del diritto internazionale: 1. uso della forza: Israele non ha diritto all’uso della forza nei confronti dei palestinesi nella Striscia di Gaza, poiché è un territorio occupato e la potenza occupante non può agire con la forza, inoltre, le Nazioni Unite hanno dichiarato illegali le colonie israeliane e chiesto a Israele di ritirarsi da tutto il territorio palestinese occupato; 2. crimini di guerra e contro l’umanità: le azioni di Israele a Gaza configurano molteplici crimini di guerra e crimini contro l’umanità, come ad esempio l’uccisione di civili (oltre 56 mila, mentre altri 1.000 palestinesi sono stati uccisi da Israele in Cisgiordania dal 7 ottobre 2023), la distruzione di ospedali e altre infrastrutture e la violazione delle convenzioni internazionali; 3. apartheid: Israele è accusata di praticare un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi, che è considerato un crimine contro l’umanità; 4. genocidio: la Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto “plausibile” l’accusa di genocidio contro Israele, avanzata dal Sud Africa.[]
  3. L’Iran non ha attaccato gli Stati Uniti. L’Iran non stava pianificando un attacco contro gli Stati Uniti. L’Iran non possiede nemmeno missili in grado di raggiungere gli Stati Uniti. Bombardare l’Iran, un Paese sovrano, è stata quindi una palese violazione del diritto internazionale da parte degli Stati Uniti. Non fa differenza a quale livello abbiano arricchito l’uranio. Non fa differenza nemmeno se stessero cercando di costruire una bomba nucleare. Non si può attaccare un Paese che non ci ha attaccato. La violazione del diritto internazionale in questo caso è evidente.[]
  4. A Donald Trump e ai suoi compari non sembra importare nulla del diritto internazionale. Lo considerano una barzelletta. Gli Stati Uniti non sono vincolati da alcuna legge, pensano. Dovrebbero perseguire il loro “interesse nazionale” a prescindere dal resto del mondo, o da ciò che è scritto su un pezzo di carta, anche se quel pezzo di carta è la Carta delle Nazioni Unite volute dai presidenti statunitensi Roosevelt e Truman.[]
  5. Da anni ormai l’Unione Europea, si è trasformata in «fortezza Europa», ha adottato la politica illegale dei respingimenti di migranti, richiedenti asilo e profughi alle frontiere che anche criminalizza le organizzazioni non governative umanitarie che li salvano in mare da morte certa (le loro navi sono state definite dei «taxi del mare»). Il non respingimento è il principio fondamentale alla base del diritto internazionale sui rifugiati: una persona che necessita di protezione non può essere rimpatriata con la forza in un luogo in cui subirà un danno. La politica europea contro le persone non bianche che cercano un rifugio e una vita migliore in Europa, viene attuata sia dai singoli governi (in particolare da quelli dei paesi mediterranei: Spagna, Italia, Grecia, Cipro, Malta), sia dall’agenzia per la protezione delle frontiere dell’UE Frontex, sia dai governi più o meno «amici» della sponda sud del Mediterraneo (Turchia, Egitto, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco) e del Sahel (Mali, Niger, Burkina Faso, Mauritania, Sudan, Chad) con i quali sono stati fatti accordi con l’obiettivo di favorire i respingimenti e trattenere in carceri o campi di concentramento i migranti subsahariani, medio-orientali e asiatici in cambio di denaro e concessioni politico-commerciali. Reagendo alla politica migratoria dell’UE, Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha affermato di non essere sorpreso e ha definito razzismo la politica dell’UE di respingere altri rifugiati attraverso «legislazioni restrittive, filo spinato, blocchi navali», accogliendo con favore gli ucraini. L’approccio dell’Europa alla migrazione dal Sud del mondo riproduce gerarchie globali che negano alle persone di colore – quasi tutti i migranti africani sono classificati come «irregolari» (dato che non esistono canali legali di migrazione dall’Africa) – pari accesso alle opportunità di partecipazione politica ed economica e in effetti alla vita stessa. Le politiche migratorie europee non sono solo «modellate dal razzismo», sono razzismo. Da Lesbo e altre isole greche del Mare Egeo e dalle sponde turca e greca del fiume Evros alle coste libiche, dalle enclaves spagnole di Ceuta e Melilla in terra africana all’isola di Lampedusa e alle coste siciliane, dalle spiagge dell’Andalusia alle isole atlantiche delle Canarie, sono questi alcuni dei principali punti caldi della mortifera frontiera tra Unione Europea e il sud del mondo. Nel 2024, il Mediterraneo è stata la rotta migratoria più mortale a livello globale, con almeno 2.452 morti, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). Si stima che oltre 45 mila persone del sud del mondo hanno perso la vita tentando di entrare nell’Unione Europea attraversando il Mar Mediterraneo dal 1993 e la maggior parte è morta sulla rotta del Mediterraneo centrale. Questi numeri non includono i morti lungo le rotte terrestri, come attraverso il deserto del Sahara, né quelli morti nei centri di detenzione gestiti da contrabbandieri libici i cui sopravvissuti hanno denunciato violenze sessuali, matrimoni e lavoro forzati. Di fatto, le politiche migratorie xenofobe, razziste, disumane, violente ed illegali propugnate dai suprematisti bianchi sono già quelle adottate dall’Unione Europea e dai paesi con essa alleati.[]
  6. A causa della percepita attenzione della Corte al processo di imputati africani, gli Stati membri dell’Unione Africana hanno ripetutamente minacciato di ritirarsi dallo Statuto di Roma, il trattato istitutivo della CPI.[]
  7. La camera preliminare della CPI ha affermato che la sua indagine sui crimini di guerra alla droga di Duterte riguardava solo le azioni commesse prima di tale data.[]
  8. All’inizio di quest’anno, l’Ungheria ha notificato all’ONU che si sarebbe unita a questo club, ritirandosi dalla CPI mentre ospitava Netanyahu a Budapest.[]
  9. Donald Trump, attaccando l’Iran, ha anche violato il diritto interno americano. Anzi, ha violato la legge più fondamentale che esista: la Costituzione che conferisce espressamente il potere di dichiarare guerra ad altri Paesi al Congresso, non al presidente. I difensori di Trump cercano di aggirare questo scomodo fatto sostenendo che i presidenti possono attaccare i Paesi quanto vogliono, purché non pronuncino mai la magica frase “Dichiaro guerra”. Ma questo renderebbe l’intera disposizione priva di significato. È chiarissimo che il Congresso deve approvare l’uso della forza contro un Paese sovrano, ed è per questo che George Bush ha dovuto far approvare l’autorizzazione all’uso della forza militare dopo l’11 settembre, e Lyndon Johnson ha dovuto ottenere la risoluzione del Golfo del Tonchino per poter invadere il Vietnam.[]
  10. A differenza dell’Unione Sovietica nell’era della Guerra Fredda, la Cina oggi ha capitali da investire in tutto il mondo attraverso la Belt and Road Initiative e istituzioni finanziarie e politiche multilaterali (AIIB, SCO e BRICS). Pechino offre ai paesi emergenti e poveri un rapido accesso al capitale e alle infrastrutture come strade, ponti e porti. I benefici economici e sociali di questi progetti variano da paese a paese, con un malcontento sporadico e non diffuso. La Cina è la più grande potenza commerciale del mondo e controlla le catene di approvvigionamento di diversi settori vitali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. Inoltre, Pechino prevede di aumentare la sua presenza militare nel Mar Cinese Meridionale e in paesi come Iran, Pakistan e Guinea Equatoriale. Ancora più importante, la Cina sta gareggiando per il ruolo di leadership del Sud del mondo e si sta facendo strada, non solo nei paesi che hanno una controversia esistente con il mondo occidentale come Iran e Venezuela, ma in molti altri nel sud del mondo offrendo una solidarietà concreta riguardo a sfide esistenziali condivise.[]
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