Gli avvenimenti di questi giorni in Palestina/Israele segnano una svolta nella lunghissima vicenda dell’occupazione israeliana. Non per l’abituale violenza con cui la polizia israeliana tratta questa popolazione, ma per la sua estesa e unitaria risposta – anche lo sciopero generale il 18 maggio – appoggiata dalla solidarietà internazionale.
I palestinesi, che si preparavano alle elezioni, dopo 15 anni, il 29 aprile si sono trovati di fronte al loro rinvio, che ha causato ulteriore calo di consenso per il Governo. Hamas ha protestato contro il rinvio, ma è lecito pensare che non gli sia stato sgradito, dato il calo di fiducia della popolazione di Gaza, costretta da tredici anni nel rigido blocco israeliano, senza vedere possibilità di un futuro migliore. Il 29 aprile segna la fine di una speranza. Le cose sono andate diversamente.
Chi si era recato alla porta di Damasco per festeggiare il Ramadan (12 aprile-12 maggio) si è trovato di fronte la piazza chiusa dalla polizia. Nel quartiere di Sheikh Jarrah (in cui nel 1956, il governo giordano e le Nazioni Unite costruirono 28 piccole case, per ospitare i rifugiati palestinesi ) era in corso una protesta contro le espulsioni sostenute da coloni, polizia, e dalla corte Suprema israeliana, che consente solo agli israeliani ma non ai palestinesi di rivendicare legalmente le loro proprietà. Gli abitanti, le donne in prima linea, appoggiati dalla popolazione vicina vedono questo episodio non certo come “un contenzioso immobiliare”, ma parte di un piano statale in corso da anni per la “giudaizzazione” dell’intera Palestina. Centinaia di coloni ed estremisti di destra hanno marciato dentro Gerusalemme urlando “morte agli arabi”, invocando quanto contenuto nel piano statale: pulizia etnica. Questa, per la generazione più anziana, è cominciata nel 1948, con la Nakba (lo storico israeliano Ilan Pappè le ha dedicato un libro). Per quella più giovane è il proseguimento di quella catastrofe di cui hanno sentito il racconto. Così la festa del Ramadan viene macchiata dalla violenza “Anche noi, attivisti di sinistra di Gerusalemme, ci siamo presentati per cercare di controbilanciare i fascisti mentre marciavano per le strade della città”, scrive la giornalista Orly Noy su +972 Magazine. Coloni e polizia arrivano fin dentro la moschea di Al Aqsa, facendo centinaia di feriti tra la popolazione palestinese, la cui reazione alle violenze si estende anche dentro Israele, in città, come Haifa, abitate da palestinesi ed ebrei israeliani.
La parola pogrom, è evocata in un articolo su il manifesto da Zvi Schuldiner, professore israeliano. “Qui, in Israele, mentre scriviamo, non sappiamo se i pogrom siano ripresi o se quegli idioti, criminali e razzisti che governano abbiano frenato almeno un po’ l’indegna sfilata razzista che stanno guidando e che ci conduce tutti al disastro”.
I palestinesi cittadini/e dello Stato di Israele subiscono pesanti discriminazioni, degrado dei quartieri in cui abitano, peggioramento delle condizioni di vita: questo è parte del sistema di apartheid dettagliatamente portato alla luce di recente.
Human Rights Watch, ong internazionale, e B’tselem, associazione israeliana hanno pubblicato due corposi rapporti: il primo Una soglia varcata. Autorità israeliane e crimini di apartheid e persecuzione e il secondo Questo è apartheid. Un regime di supremazia ebraica tra il Giordano e il mar Mediterraneo.
Sono testi costruiti attraverso testimonianze dirette, analisi delle disposizioni amministrative e di legge israeliane, documenti di archivio. Illustrano la costruzione “scientifica” di un sistema di sfruttamento, disuguaglianza, inferiorizzazione giuridica e materiale della popolazione palestinese, nei territori occupati, in Israele e in Gaza, di supremazia di un gruppo, ebraico, su un altro, quello palestinese. Apartheid, istituzionalizzato dalla Legge del 2018 sullo Stato Nazione, che ne codifica i termini, a partire dall’esclusivo diritto ebraico all’autodeterminazione. Una legge sincera la definisce Gideon Levy su Haaretz (19/7/2018) “La legge sullo stato-nazione […] mette fine al generico nazionalismo di Israele e presenta il sionismo per quello che è […] mette fine anche alla farsa di uno stato israeliano ‘ebraico e democratico’, una combinazione che non è mai esistita e non sarebbe mai potuta esistere per l’intrinseca contraddizione tra questi due valori, impossibili da conciliare se non con l’inganno”.
Nella seconda metà di aprile, Hamas, imbracciando la causa di Gerusalemme, dà un ultimatum a Israele, perché cessino le violenze contro palestinesi disarmati. Dopo il suo rifiuto, il 23-24 aprile parte da Gaza una raffica di razzi su Israele: pur essendo la loro potenza letale arginata dal sistema di difesa tecnologico di Iron Dome, ci saranno alcune vittime. Le vittime civili addolorano sempre e l’azione di chiunque le provochi va denunciata. I bombardamenti su Gaza sono incessanti. Le cifre, pur lugubri, delle vittime, vanno considerate: 10 israeliani e oltre 215 palestinesi (tra cui 61 bambini). Da una parte uno tra i primi quattro eserciti del mondo, in possesso anche di armi nucleari, dall’altra un popolo privo di qualsiasi difesa: esercito, marina militare, forza aerea. È inevitabile, che piaccia o no, che Hamas, con i suoi razzi, venga considerato l’unico soggetto per l’autodifesa palestinese dalla violenza della colonizzazione e degli incessanti bombardamenti.
Pulizia etnica, pogrom, apartehid: tornano parole che si pensavano seppellite da decine di anni sotto i “mai più” mondiali. Parole concrete, per nominare una realtà di ingiustizia e umiliazione, per esprimere l’avanzare dell’odio e del razzismo. La protesta internazionale dei movimenti di solidarietà si estende, mentre la comunità internazionale ripete parole astratte e inadeguate, palesemente inutili, perché non vanno alla radice del problema. Quando agirà per alimentare le speranze? Non sarebbe difficile corrispondere alle richieste dei movimenti di solidarietà europei: l’Unione Europea escluda Israele dai programmi di ricerca che finanzia; bandisca ogni commercio con le colonie illegali; sospenda l’accordo di associazione preferenziale UE-Israele. La Corte Penale Internazionale ha stabilito una indagine su crimini di guerra di Israele: una vittoria simbolica dei Palestinesi, osteggiata da Israele e dagli Stati Uniti. Non dovrebbe essere proprio l’Unione Europea a sostenerla?