La Grecia è tornata al voto il 26 giugno dopo che il precedente appuntamento elettorale aveva segnato una netta vittoria della destra di Nuova Democrazia, al governo dal 2019. Stavolta, anziché applicare un sistema proporzionale quasi puro (tranne la soglia minima del 3%) si è nuovamente utilizzato il premio di maggioranza di 50 seggi per il primo partito.
La destra conservatrice del primo ministro Kyriakos Mitsotakis ha confermato il voto di fine giugno col 40,55% che però stavolta gli consente di beneficiare di una maggioranza assoluta di 158 seggi su 300. In un Parlamento piuttosto frammentato, Nuova Democrazia potrà contare su una opposizione molto divisa avendo tre partiti alla propria destra (Spartani, Soluzione Greca, Vittoria, tre alla propria sinistra (Syriza, Pasok, KKE) e una formazione camaleontica (Rotta per la Libertà della Kostantopoulou).
Il primo dato significativo che emerge dal voto è comunque rappresentato dall’elevatissima astensione. Ha votato il 52,82% degli elettori con un forte calo rispetto ad un mese fa quando la partecipazione aveva superato, seppur di poco, il 60%. Certamente su questo esito hanno pesato due fattori contingenti: 1) l’essere entrati nella stagione estiva e turistica con molti lavoratori, soprattutto giovani, impegnati nelle isole che non hanno potuto usufruire del diritto di voto; 2) la convinzione dell’elettorato, profezia che si è autoavverata, di una vittoria scontata della destra dato il vantaggio incolmabile sulla principale forza di opposizione registrato un mese prima.
La campagna elettorale di Syriza più che ipotizzare una improbabile “ribaltone” metteva l’accento sul pericolo di un’eccessiva predominanza della destra e sulla necessità di avere una forte opposizione. Il risultato, che ha visto i voti del partito di Tsipras scendere ulteriormente da un già negativo 20% al 17,84%, indica che questa mobilitazione difensiva dell’elettorato di sinistra non c’è stata. Le formazioni rivali di Syriza hanno guadagnato alcuni punti decimali più grazie all’aumento dell’astensionismo che non per una crescita di voti. Il Pasok ne ha persi 60.000 e il KKE quasi 30.000. I quasi 200.000 voti che sono mancati a Syriza fra maggio e giugno sono quindi finiti nel non voto.
Per il partito di Tsipras, che torna ai livelli elettorali del maggio 2012, quando era iniziata l’ascesa elettorale dopo l’inizio della crisi del debito, l’unico elemento di possibile soddisfazione è l’essere rimasto la principale forza di opposizione e quindi al momento quella attorno alla quale può costruirsi un potenziale fronte di alternativa alla destra. Ma con il ritorno ad un sistema elettorale che favorisce la polarizzazione bipartitica (il premio di maggioranza scatta solo a favore di un partito non di una coalizione) per Syriza si pone il complicato obbiettivo di riunire attorno a sé un elettorato al momento disperso in più partiti e che si è spostato in direzioni divergenti.
Syriza era riuscita a coagulare attorno alla propria proposta di revisione radicale dei memorandum imposti dalla trojka, un importante elettorato popolare (fermandosi comunque attorno al 35% nel momento di massima espansione) che gli aveva consentito di accedere al governo. Lo scontro con l’Unione Europea, benché la proposta greca fosse fondamentalmente quella di cercare una via d’uscita ragionevole e non punitiva alla crisi del debito, e non certo una rottura radicale con Bruxelles, si scontrò contro il muro eretto da Schauble e Draghi (che si inventò il blocco della liquidità alle banche greche).
Una via d’uscita che le successive politiche europee, introdotte a seguito della pandemia di Covid (il PNRR da un lato e l’acquisto seppur indiretto di debito pubblico da parte della BCE dall’altro) e la percezione delle classi dominanti di un indebolimento dell’egemonia neoliberista, hanno dimostrato essere del tutto praticabile. Come, per altro, il finanziamento illimitato disponibile per il pozzo senza fondo dell’Ucraina per il quale è possibile mettere in atto qualsivoglia violazione dei “Trattati”.
Indubbiamente la sconfitta subita dal governo greco nel 2015 ha rappresentato un momento di svolta nella politica europea, senza la quale non si comprende il progressivo scivolamento verso destra, di cui le elezioni greche costituiscono un altro passaggio importante.
Syriza ha cercato dal governo, di tenere insieme l’accettazione delle imposizioni europee, con un margine di tutela dei settori popolari. Questo difficile equilibrio ha comunque consentito di reggere alla sconfitta del 2019 con un non disprezzabile 31%. Il vero interrogativo è quindi relativo ad una così significativa perdita di consensi avvenuta nei quattro anni di opposizione. Come si è disperso più di un terzo dell’elettorato?
La crisi del debito, che è frutto molto più dei rapporti di forza tra le classi che non del mero calcolo contabile, è al momento riassorbita. La destra greca ha potuto beneficiare sia del lavoro di riassetto del bilancio messo in atto dal governo precedente, sia dall’allentamento delle politiche di austerità della Commissione europea. Questo ha garantito una certa ripresa economica che benché mantenga molti elementi di precarietà e una ingiusta ripartizione dei suoi frutti, ha consentito in ogni caso alla destra di ricostruire una propria area di consenso non solo nell’oligarchia economica che non l’ha mai abbandonata, quanto in settori sociali più ampi di ceto medio e di piccola impresa che influisce sul voto più dei settori popolari che tendono (ad allontanarsene.
Il modello populista (popolo contro élite), affiancato ad un elemento nazionale più che nazionalista (Grecia contro Europa o Germania), una volta superato il punto più acuto della crisi non ha più la stessa efficacia mobilitante. La strategia di Syriza è stata quella di riattivare una più classica frattura progressisti-conservatori assumendo una funzione nel sistema politico analoga a quella che per anni ha avuto il Pasok. Soprattutto quello dalla retorica più di radicale di Papandreu, piuttosto che quello aderente alla terza via, incarnato da Simitis.
Rispetto al Pasok, Syriza poteva contare su qualche difetto in meno (clientelismo, corruzione) ma anche sulla debolezza derivantele dall’avere perso nel 2015 lo scontro principale sull’uscita dalle politiche di austerità. La campagna elettorale di maggio e ancora più quella di giugno è sembrata mancare di tematiche forti anche per la scelta portata avanti da Tsipras di “deradicalizzare” il proprio discorso politico. La destra poteva contare sui relativi successi economici, sulle politiche anti-migranti, e sull’adesione ad una retorica nazionalista tesa a mascherare quella che in realtà è una piena integrazione nel capitalismo finanziarizzato globale. Mentre Syriza non è riuscita a trovare una nuova “narrazione”, un discorso convincente anche sul piano ideologico al di là di una serie di proposte specifiche.
Un problema che per altro oggi è comune, in forme e modi diversi, a tutta la sinistra radicale europea. La sconfitta di Syriza si può collegare, in una certa misura, al declino di Podemos che ha dovuto accettare di essere un alleato minore nella più ampia alleanza di Sumar. Benché la lettura accademica abbia inserito entrambi i partiti nel contesto del “populismo di sinistra”, si possono avere molti dubbi sull’applicazione di questa categoria alla politica di Syriza almeno dal 2015 ad oggi.
Tra i tre idealtipi o strategie che avevamo individuato in precedenti interventi per catalogare le varie formazioni della sinistra europea (populismo di sinistra, politica di classe, coalizione di movimenti identitari), quello che è sembrato per un certo periodo di maggior successo, ovvero il populismo di sinistra, sembra ora in declino, senza che se ne affermi un altro come vincente o prevalente.
Per Syriza ora si apre un difficile dibattito. Per Komoundouro (la sede del partito) la prima decisione riguarda se avviare subito cambiamenti radicali o rinviarli a dopo le elezioni amministrative che si terranno in autunno e ancora più in là dopo le europee del giugno ’24. In ogni caso il confronto non potrà che essere di ampio respiro e il suo esito di notevole interesse per tutte le forze alternative europee (o almeno per quelle non rinchiuse nelle proprie nicchie ideologiche).
Franco Ferrari