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Aldo Moro, un affare di Stato

di Giovanni
Russo Spena

Il rapimento di Aldo Moro e (dopo 55 giorni di prigionia) la sua uccisione sono state sostanzialmente rimossi, anche dalla politica istituzionale. Il ricordo stesso è diventato ingombrante. Sono stato testimone di quelle drammatiche giornate, avvenute 45 anni fa. Nello stesso giorno in cui fu ucciso Moro, tra l’altro, fu trucidato dalla mafia Peppino Impastato. Ritengo, essendo stato anche componente della Commissione Antimafia e della Commissione Bicamerale , che il delitto Moro è ingabbiato in un cono d’ombra perché è stato “un affare di Stato” e, di fatto, la fine della Prima Repubblica.
16 marzo 1978: le Brigate Rosse sequestrano Moro e uccidono i 5 uomini della sua scorta. 55 giorni dopo il suo corpo viene ritrovato nel baule di una Renault 4 rossa posteggiata tra Piazza del Gesù (sede della Democrazia Cristiana) e via delle Botteghe Oscure (sede del Partito Comunista Italiano). Una morte annunciata. Nessuno, forse, voleva che accadesse, ma nessuno ha saputo evitarla, come ha argomentato nel suo bel libro Andrea Colombo. Il più clamoroso delitto politico nella storia d’Italia. Infame, per chi, come me, ha conosciuto Aldo Moro per i suoi scritti garantisti nell’Assemblea Costituente sulla concezione garantista della pena e contro l’ergastolo, e poi come maestro di diritto all’Università (oltre che, ovviamente, come raffinato, colto, curioso avversario politico di noi “sessantottini”). E’ forse il più grande mistero della nostra Repubblica. Sette processi e tre commissioni parlamentari d’inchiesta. Porti delle nebbie, sostanzialmente. Una intera classe politica ha detto e coperto menzogne e depistaggi. Alcuni interrogativi, solo per risvegliare le coscienze democratiche appannate: le Brigate Rosse erano solo un’associazione a delinquere o facevano parte del nostro “album di famiglia”, come mi insegnò Rossana Rossanda? Moro ostaggio era davvero un “pazzo” inaffidabile, succube delle BR quando scriveva dal carcere lunghe lettere sulle malefatte del sistema politico? Confessioni, certo, anche tese a salvare la propria vita, ma anche frutto di un giudizio pessimo sul sistema politico di cui era parte, antipopolare e corrotto. Molte di quelle lettere sono andate “misteriosamente” perse. Un giorno, molti anni dopo Prospero Gallinari, membro fondatore delle Brigate Rosse, in una mia visita in carcere mi confessò che, per ignoranza e sottovalutazione, le Brigate Rosse non avevano compreso che gli scritti di Moro erano esplosivi per il sistema politico. Non si poteva trattare con i rapitori (che chiedevano quello che già erano, cioè il riconoscimento di essere un soggetto politico) salvandogli la vita perché sarebbe andato in frantumi lo Stato? E perché la moglie di Moro, le sue figlie e suo figlio Giovanni non accettarono che, per Moro, vi fosse il funerale di Stato? L’ipocrisia della classe politica che, insieme alla Brigate Rosse, lo aveva condannato a morte apparve alla famiglia insopportabile.

E’ una storia di depistaggi, complotti, trame internazionali perché Moro era l’interlocutore più attento ed accorto della strategia berlingueriana del “compromesso storico” ? O fu solo l’atto più clamoroso e ferocemente conseguente della geometrica potenza che attribuivano a se stesse le Brigate Rosse? Un atto, cioè, di “guerra civile” , a sinistra, tra la lotta armata, che espropriava i movimenti di lotta anticapitalista soffocandoli nella ossessione ideologica della lotta armata e la politica della “fermezza”, sempre più statalista e statocratica del PCI. La “ragione di partito”, per l’intero sistema politico, diventò, con una torsione autocratica, “ragion di Stato”. Persero tutti. I grandi partiti di massa e le BR. E la Prima Repubblica si avviò verso la fine, sommersa dal fango degli scandali e dal servilismo assoluto nei confronti dell’euroatlantismo più duro, perdendo la sua funzione storica post-bellica di cerniera euromediterranea.

Con tutti i suoi limiti (è beffardo che debbadirlo io, sempre strenuo avversario della Prima Repubblica e del “compromesso storico”) la Prima Repubblica aveva garantito una dialettica tra movimenti ed istituzioni, una dialettica non a caso contrastata dallo stragismo e da tentativi di colpi di Stato di settori stessi dello Stato. Nonostante Yalta, nonostante la “democrazia bloccata” (la “conventio ad excludendum” contro il PCI, i movimenti sociali, forti, organizzati, portatori di un progetto e di una visione del mondo alternativa, riuscivano a scuotere le istituzioni, a renderle permeabili alla criticità sociale.
Con il delitto Moro si chiusero spazi democratici e le istituzioni si militarizzarono, elevando un muro corazzato per difendere il proprio fortino teso alla mera accumulazione dei capitali. Si andava conformando un rapporto corporativo, a volte anche consociativo. Si configurava una torsione del baricentro del sistema dal potere legislativo a quello esecutivo, dal Parlamento al governo. Lo Stato, in definitiva, non volle salvare Moro perché era diventato un testimone scomodo. Ma non salvò nemmeno se stesso.

Forse è necessario, per noi che vogliamo cambiare il mondo, non rimuovere, ma ricercare, comprendere cosa è accaduto in quei 55 giorni di 45 anni fa. Forse è utile anche per l’oggi.

Giovanni Russo Spena

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