A una settimana dalla morte di Diego Armando Maradona, i fiumi di inchiostro, le infinite trasmissioni televisive, l’impetuosità dei social hanno, in maniera esaustiva, detto gran parte del necessario, forse spingendosi anche oltre. Dopo un’iniziale divisione fra adoratori tout court e moralisti che ricordavano i limiti e gli errori dell’uomo scomparso, oggi, sommessamente si è tornati ad una riflessione più terrena che porta ad indagare su cause e circostanze della morte con una attenzione ai limiti della pornografia, che interroga sulle lotte intestine per la spartizione di una eredità cospicua, che si riempie di figure abbastanza piccole che cercano e a volte riescono a trarre da tale morte, un momento di celebrità o qualche briciola. Nulla di nuovo, insomma, purtroppo. Famelica anche la caccia data da molti colleghi a notizie finora non date, ad immagini, video, audio, da poter inserire nell’enorme archivio della memoria.
E nell’intera settimana va senz’altro tenuto a mente il fatto che né detrattori né adoratori hanno voluto indugiare troppo – salvo sporadiche eccezioni – su alcuni elementi di cultura machista di cui l’uomo Maradona è stato indiscusso portatore. Difficile certamente distinguere il falso dal vero certo nelle numerose vicende che lo hanno visto coinvolto, certo è che anche tale caratteristica meriterebbe un’analisi a freddo molto più profonda.
Ma ci sarebbe anche altro su cui riflettere. La morte della “Mano de dios” ha smosso una connessione sentimentale globale di cui non si aveva notizia da parecchio tempo. Non parliamo delle lacrime del tifoso, di chi reclama di averlo una volta nella vita incontrato, di chi, sapendo di incontrare telecamere compiacenti, realizza altari votivi, elabora il lutto in maniera visibile perché attraverso tale processo, riesce a dare senso e significato anche alla propria esistenza dimenticata. Parliamo di un senso di coinvolgimento più ampio e sotterraneo, che in pochi giorni ha temporaneamente ricostruito identità collettiva, a Napoli come a Buenos Aires, quella connessione sentimentale in cui le contraddizioni, convivono apertamente con un senso di gratitudine generalizzata. Non si idealizza la figura, non si definisce il mito senza macchia e senza paura, a cui genuflettersi sperando in una grazia, in un suo intervento. Si tratta piuttosto di un caleidoscopio di sentimenti, memorie, azioni, compiute tanto nei campi di calcio quanto e forse soprattutto fuori, che ridisegna, solo momentaneamente, una cosmogonia diversa da quella imperante e dominante. Intanto il valore del “riscatto degli ultimi”, non in un’altra dimensione ma su questa terra. La connessione scattata ha interrotto, lo ripetiamo – solo per un breve tempo quasi magico – un codice comunicativo quasi omogeneo che porta a vedere i penultimi della terra a cercare il proprio nemico/avversario in chi vive in condizioni peggiori. L’idea di riscatto sociale, seppure nelle metafore temporali del campo di calcio, è ribalzata come elemento trainante. Gli scudetti del Napoli, il 6 a 0 rifilato alla Juventus, la “squadra dei padroni”, l’umiliazione inferta agli inglesi dopo la guerra di pirateria per l’appropriazione delle Malvine, ricordi (sempre nell’ambito dello spazio sociale consentito) sovversivi rispetto ai poteri stabiliti, anzi a volte, come accade nei principi antropologici delle feste popolari a cui questo messaggio attinge, si è trattato di momenti di rovesciamento dei rapporti di potere per confermare che negli altri 364 giorni dell’anno il potere resta intoccabile e impermeabile.
Ma si è andati oltre il campo: l’amicizia e l’ammirazione che il “Pibe de oro” ha sempre riservato a leader rivoluzionari come Fidel Castro, Chavez, Maduro, esempio di quell’America Latina non disponibile a restare il cortile di casa degli Usa e il rigetto verso gli altri potenti del pianeta, la durezza con cui osò affrontare l’allora Giovanni Paolo II “Perché voi che parlate di poveri non date loro le vostre case d’oro?”, non furono scelte populiste di mercato ma riconquista di uno spazio in cui l’ultimo poteva non rassegnarsi a restare tale. Certamente diverso è stato l’atteggiamento verso Bergoglio (hanno influito elementi di nazionalismo nonché un approccio al pontificato che sarebbe assurdo considerare identico agli altri), ma i gesti fondanti per ergersi a voce degli ultimi erano già stati compiuti.
Forse, ma con meno influenza in Italia e troppi anni prima, lo stesso impatto lo ha avuto a diverse latitudini un altro grande “eroe sportivo e non solo”. Mohammed Alì che, in piena rivolta nera, si rifiutò di andare a combattere in Vietnam una guerra ingiusta, perse il titolo mondiale che si era guadagnato, fu arrestato, nel 1967 e soltanto nel 1971 venne annullata dalla Corte Suprema la condanna subita per obiezione di coscienza. Nel 1974 riconquistò il titolo mondiale e divenne un esempio di rivolta senza pari.
Ma si era negli anni in cui “ribellarsi è giusto” gli anni in cui per protestare contro l’oppressione, Tommie Smith e John Carlos (rispettivamente primo e terzo nella finale olimpica 1968 dei 200 metri) andarono alla premiazione alzando il guanto a pugno chiuso del Black Panther Party e il secondo arrivato, l’australiano Peter Norman, solidarizzò con i due subendo in patria forse un trattamento peggiore, in quanto ritenuto “traditore”.
Maradona non è stato questo ma ha fatto balenare in testa a molte e a molti che anche l’ultimo scugnizzo può modificare l’ordine delle cose e imporre un pensiero diverso, ad aprire spazi non esplorati alla narrazione del mondo.
E piace immaginare che l’ultima sua vendetta sia stata quella di costringere – se ne è andato lo stesso giorno, 4 anni dopo, di Fidel Castro – le emittenti televisive, i giornali mainstream, a ricordare non con menzogne e arroganza la piccola isola caraibica e la sua rivoluzione.
Quella stessa isola da cui, nel marzo scorso e nonostante le sanzioni, giungevano medici per aiutare le province lombarde e piemontesi nella lotta contro il Covid.
Molti se lo erano già dimenticato.