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Ad un secolo di distanza il Balkan brucia ancora

di Marino
Calcinari

13 luglio 1920- 2020

Oggi Lunedi 13 luglio il presidente della repubblica Italiana, Sergio Matterella sarà a Trieste, assieme al presidente della Repubblica della Slovenia Borut Pahor, per la restituzione  effettiva , alla comunità  slovena di Trieste, del Narodni Dom, la casa comune degli Slavi, bruciata dai fascisti, in quel giorno di un secolo fa.                 

L’ occasione del’ incontro, che prevede anche  la visita congiunta dei due capi di Stato  al cippo che ricorda la fucilazione di quattro patrioti sloveni, ed alla “foiba” ( in realtà un ex pozzo di miniera), monumento alle vittime dell’ esodo e del periodo postbellico, sta suscitando in città non poche polemiche , da parte della destra,  e qualche perplessità anche a sinistra. Sulle controverse vicende del Confine Orientale  infatti e sulla manipolazione della storia, la destra triestina, non solo quella neofascista e nostalgica, perdipiu’ responsabile delle tragedie che qui si consumarono, ha costruito le sue fortune , la sua base di consenso, la sua identità. Ma nulla è avvenuto per caso, ma a seguito di cause e dinamiche ben precise che originano, in tempi recenti, dal  venir meno della cultura e delle ragioni storiche dell antifascismo dagli eredi o sedicenti tali del PCI post’89.

La storia e la conoscenza dei fatti storici che interessarono la Venezia Giulia dal periodo che va dal 1918 al 1954 ( la prima e la seconda annessione di Trieste all’ Italia) vennero stravolte per meri calcoli di convenienza e finalità di governismo politico, sia a Roma che a Trieste ( il governo  Prodi è speculare all’ amministrazione Illy e viceversa, l’esordio del centrosinistra senza trattino e senza  distinzione di connotazione ideale e programmatica ) con la conseguenza di veicolare, nel senso comune dell’ opinione pubblica  a livello nazionale, e ancor più nella comprensione individuale della memoria collettiva locale, una ancor più aberrante  equiparazione di vicende e fenomeni, con conseguente banalizzazione, di una storia  plurale e controversa. Su cui gli storici indagano ancora.

Ricordiamo  gli otto anni di lavori di una Commissione Italo slovena  che, dal 1993 al 2000  ebbe ad analizzare i rapporti economici, culturali, etnici e sociali e le relazioni politiche italo- slovene tra il 1880  ed il 1956,  dando seguito ad una mozione, votata all’ unanimità Il 24 settembre 1990 dal Consiglio comunale di Trieste in cui si chiedeva la costituzione di una Commissione bilaterale italo-jugoslava formata da storici dei due Paesi per indagare la vicenda e  far chiarezza sugli  eccidi  delle foibe.                                                                                       

Ma, in tale contesto, accadde che il confronto Fini/Violante del 1998, con una improvvida e sciagurata sovrapposizione politica, intervenendo  in scivolata su quel tema in cui si parificavano le “buone ragioni” dei ragazzi di Salò a quelle dei partigiani (sic), alterasse e in parte sterilizzasse non solo l’importanza  che quel lavoro rappresentava ai fini di una comprensione  e di un maggior dialogo tra l’ Italia  e la Slovenia e più’ in generale con le repubbliche autoproclamatesi indipendenti dell’ ex Jugoslavia dopo il 1991, ma anche contribuisse a svalorizzare quell’ indirizzo  di equilibrio  ed oggettività che il percorso di disamina degli storici  richiedeva. In tempi piu’ recenti  nel gennaio 2019, il Vademecum per il  “Giorno del Ricordo”, prodotto dagli storici dell’ Istituto regionale per la storia  della  Resistenza e dell’ Età contemporanea  fu bollato dalla destra  come “riduzionista” (sic) che  cercò pure attraverso una mozione ad hoc in consiglio regionale  di bloccare i finanziamenti destinati all’ Ente, colpevole di non essersi piegato alla  “verità”  da essi propagata. Inoltre, ed infine, nonostante l’approvazione della  Legge regionale 38/2001 sulla tutela delle minoranze (slovena  e germanofona) e  l’ incontro dei tre presidenti( Napolitano, Turk, Josipovic) a Trieste, tenutosi nel 2010, pochi passi significativi sono stati fatti  per giungere ad una chiara e condivisa base di partenza per praticare , con atti concreti, innanzitutto quelle politiche che inibiscano l’ attuazione di finalità lesive del dettame  democratico che la nostra  Costituzione sancisce.                                                                      

Chi ricorda la sceneggiata di Tajani a Basovizza lo scorso 10 febbraio intenda che l’ obiettivo della destra è quello, non altro.  Ad impedire quelle politiche di ricomposizione e convivenza civile non è  essa sola, ma anche chi a sinistra o in quella palude mefitica che oggi è il “centro” si è dimenticato di questo dettaglio, che ha fatto votare in Comune un Odg per ricordare la “liberazione” di Trieste il 12 giugno ’45 ,che ha tollerato o condiviso incursioni della destra nella toponomastica, come nelle politiche sociali, culturali, industriali ed economiche del comune, concedendo così lo spazio in cui alla riscrittura della storia si affianca quella dell’ imposizione di sempre più regressive politiche amministrative.                                      

Il 13 luglio 1920 è quindi una data che sta in questa cornice, che tiene assieme passato e presente e spiega quanto accadde allora. Spiega perché i fascisti triestini, guidati da Francesco Giunta, un trentenne toscano, violento e fanatico, si accanirono contro un luogo – il Narodni Dom – che tutti conoscevano come “il Balkan” – che ospitava  associazioni ed enti della comunità slovena croata, serba e cecoslovacca presenti a Trieste e come, nei giorni seguenti a quel feroce e brutale episodio, pianificassero scorribande armate  contro le sedi periferiche delle organizzazione slovene e croate nei paesi del Carso e dell’ Istria, come in ininterrotto crescendo aggredissero il quartiere popolare di san Giacomo ( 8 settembre 1920), bruciassero e devastassero le sedi della Camera del Lavoro, del circolo giovanile socialista, la tipografia e gli uffici del “Proletario”, ed ancora il 14 ottobre  la sede de “Il Lavoratore”, giornale comunista di Trieste, a Fiume il giorno dopo, la Camera  del lavoro e con uguale tempismo anche quella di Pirano, subissero la stessa sorta. 

Non è esagerato sostenere che Trieste e la Venezia Giulia vissero per oltre un ventennio sotto lo spietato tallone di ferro di un fascismo violento, razzistico, xenofobo che riempì le carceri, armò le mani di assassini e delatori prezzolati,  che  agivano di concerto con l’ esercito e la polizia regia e fu responsabile dell’ emigrazione forzata di oltre 100.000 croati e sloveni. Poi  con la svolta della “normalizzazione” fascista (il 31 gennaio 1926 fu approvato il Codice Rocco, con relative leggi di polizia, l‘inasprimento delle pene, il carcere duro, etc.) il 9 novembre venivano  approvate dai deputati fascisti e filofascisti, le “Leggi speciali per  la difesa dello Stato” e l’opposizione dei partiti democratici, messa fuorilegge.                         

Nel 1927 da Trieste partiva la campagna per l’italianizzazione coatta dei cognomi, dei nomi di luogo, della toponomastica, per annichilire ogni riconoscibile segno della multiforme composizione, etnica, linguistica, culturale, della Regione Venezia Giulia e quindi in linea con la cosiddetta Riforma Gentile dell’istruzione pubblica, che escludeva le comunità minoritarie, vennero progressivamente chiuse le scuole slovene e croate, ed ogni istituto o associazione di “ allogeni” che persisteva, a voler utilizzare la propria lingua madre. Quindi il regio decreto 494 del 7 aprile 1927 stabiliva le linee guida  per la “restituzione e “riduzione”  dei cognomi “stranieri” in perfetta grafia italiana. In pochi anni oltre centomila  persone, due terzi dei residenti della città di Trieste di allora, si ritrovarono con il cognome modificato ( bisognerà attendere una legge del 1991, la 114 per veder risanato un torto di settant’anni prima.                                                                                                                                                                                  Per fortuna ci fu chi reagì allora ed a quel tempo bisogna risalire se si vuole comprendere, almeno in parte le polemiche o i distinguo di adesso.

L’ opposizione al fascismo fu, per larghissima parte del proletariato triestino, opposizione di classe e di difesa delle  identità nazionale, oltraggiate dalla violenza snazionalizzatrice del fascismo.                                        

Boris  Pahor, scrittore sloveno di Trieste, sopravvissuto ai lager nazisti, nel 1920 aveva sette anni:  aveva appena terminato il giorno di  scuola, stava tornando a casa risalendo con la sorella Evelina  ed un amico per la ripida via Commerciale, che portava sull’altopiano quando, sollecitato dal compagno a girarsi indietro vide le fiamme, il fumo grigiastro e nero di un incendio che veniva dalla città, dal luogo dove sorgeva la massiccia mole in stile liberty realizzata da Max Fabian. Era il Narodni Dom che bruciava.

Dieci anni dopo, il 6 settembre 1930 venivano fucilati a Basovizza, Franc Marusig, Lojze Valencic, Ferdinand Bidovec, Zvonimir Milos. Appartenevano all’ organizzazione rivoluzionaria TIGR ( acronimo per Trieste/Istrai, Gorizia e Rjeka ). A conclusione di un processo che la storiografia  antifascista ricorda come il “ 1° Processo di Trieste” con  52 imputati su cui gravavano 99 capi d’ accusa. Ma il capo d’imputazione principale quello per cui i quattro vennero condannati a morte non fu tanto quello di cospirazione contro lo stato, ma  di  “…aver voluto sottrarre parti del territorio nazionale per consegnarle allo straniero.” Alcune confessioni vennero estorte con la tortura, Antonio Gropajc,  che abitava nel  paesino di Draga Sant’ Elia, si suicidò per non subire oltre, gli altri patirono 147 anni di carcere.

Poi  ci fu un secondo processo a Trieste, dal 2 al 14 dicembre 1941, contro una sessantina di antifascisti, in cui convennero i membri  del Tribunale speciale di Roma. Allora l’ Italia aveva già dichiarato guerra al  regno di Jugoslavia e occupato Lubiana, capoluogo della Slovenia, annettendola al regno d’ Italia, ma occorreva  anche in questo caso , lanciare un segnale  esemplare per intimorire la resistenza  e  consolidare un consenso che si andava sempre piu’ indebolendo nel paese. Furono richieste dodici condanne a morte, ne vennero eseguite cinque. Viktor Bobek, Ivan Ivancic,  Simon Kos, Pino Tomazic, Ivan Vadnal, furono fucilati il 14 dicembre 1941  al poligono di Tiro di Opicina, sull’ altopiano di Trieste.

Ora, cent’ anni dopo, quando la memoria per qualcuno si fa labile ed il ricordo, in quanto tale è sempre soggettivo, è auspicabile che l’incontro dei due presidenti  – che incontreranno anche  lo scrittore  Boris Pahor (107 anni il prossimo  26 agosto) – possa  focalizzarsi  non su inesistenti reciprocità o esemplificatrici comparazioni /equiparazioni, tra i tanti, diversi, controversi episodi e vicende del secolo trascorso ma  possa trasformarsi in momento utile, rispettando  la storia ed il dolore degli oppressi, di comprensione  e di riconoscimento della storia e non – magari inducendo alla logica dei “torti” o “ragioni” cui spesso inclina  la politica – di mortificazione della verità  in ossequio  a logiche di stato, o di convenienze politiche, che poco hanno a che fare con il futuro e la democrazia, ma moltissimo su quel passato (che non passa) e che gioverebbero solo a quella manomissione falsificatrice e negazionista della storia su cui la destra, su questa vicenda, ma non solo, ha continuato a speculare, a dividere, ad ingannare e circuire l’opinione pubblica.

Dicano allora  i presidenti, a chi vive  di qua e di là dal confine, quale strada intendono seguire, perché il nazionalismo, i nazionalismi di oggi, non tornino  a riprodurre o perpetuare  le barbarie del secolo scorso, quella negazione di civiltà che da Sarajevo (1914) a  Srebrenica(1995), ha distrutto un orizzonte di cambiamento fondato sulla pace, la convivenza civile, la solidarietà. E su cui l’Europa di oggi dovrebbe riflettere.

Meno retorica, quindi, e più consapevolezza delle priorità e degli impegni che possono essere realizzati in un rinnovato spirito di collaborazione  tra i due paesi, non trascurando il dettaglio che a Trieste c’è chi rema contro e rimpiange i tempi in cui si parlava solo in italiano…

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