La Giornata della Memoria e il Giorno del Ricordo sono un’opportunità per ricordare. Il ricordo al servizio della verità storica, sempre rivoluzionaria secondo Gramsci.
Boris Pahor nel 1940 fu arruolato nel Regio Esercito e inviato al fronte in Libia. Dopo l’armistizio dell’otto settembre tornò a Trieste, occupata dai nazisti. Decise di unirsi alle truppe partigiane slovene che operavano nella Venezia Giulia.
Nel 1955 descriverà quei giorni decisivi nel romanzo Mesto v zalivu , Città nel golfo. Nel 1944 fu catturato dai nazisti e internato in vari campi di concentramento in Francia e in Germania, Natzweiler, Markirch, Dachau, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen.
Boris Pahor ha compiuto 105 anni lo scorso 26 agosto, ha attraversato quindi tutto il secolo breve, vivendo la repressione fascista, la ribellione a questa, la deportazione e l’internamento i campi di sterminio nazisti, i problemi legati al confine orientale nel secondo dopoguerra.
Da una sua intervista pubblicata il 28 agosto del 2013 nel supplemento letterario del giornale argentino Clarin.
Dopo tutto quello che ha vissuto, qual’ è la ferita più grande?
“Il fascismo. Il fascismo mi rovinò la vita, mi rovinò la gioventù. L’immagine che più mi ha lasciato un segno e che anche lasciò una traccia nella mia scrittura, avvenne quando avevo sette anni ed i fascisti bruciarono la casa della cultura slovena a Trieste. Era un edificio di 6 piani. I fascisti ruppero gli idranti e ballavano tutt’intorno come pazzi. In quel momento rimasi paralizzato. Dovetti diventare un altro, parlare italiano e non ero capace di farlo. Si capisce che dopo, essere vicino alla morte non era una cosa senza importanza, ma ero un uomo più maturo e preparato perché con i tedeschi mi potesse capitare qualcosa di cattivo. Ci tolsero la lingua, la scuola e la nostra società. In seguito i miei genitori mi mandarono in seminario non perché volevano che diventassi prete, ma perché non sapevano dove mandarmi. Era difficile studiare di nascosto in sloveno perché non si trovavano libri. Abbiamo avuto una doppia vita: italiana negli studi, slovena per convinzione. Lì compresi che nessun potere poteva obbligarmi a cambiare identità. Con altri compagni studiavamo di nascosto cultura slovena. Cercavamo libri come fossero sigarette di contrabbando.”
Necropoli
Necropoli di Boris Pahor ha un valore letterario, è un capovaloro, ma è anche un documento storico, essendo la testimonianza di chi ha vissuto i campi di sterminio nazisti. Necropoli è il lager di Natzweiler Struthof. Il memoriale è posto tra i monti Vosgi a circa 60 chilometri a sud-ovest di Strasburgo. Siamo nella regione dell’Alsazia, un territorio lungamente conteso tra Francia e Germania che, caduto nuovamente nelle mani dello stato tedesco durante la seconda guerra mondiale, finì per ospitare uno dei più famigerati campi di detenzione e di lavoro del Terzo Reich. Vi furono internati prigionieri di guerra, dissidenti, partigiani e ebrei per un totale di circa 40.000 persone di cui circa 22.000 persero la vita durante la prigionia. Il luogo venne scelto dall’architetto personale di Hitler per la sua vicinanza alla cava di granito rosa, la Grande Carrière, dove la maggior parte dei detenuti vennero obbligati a lavorare. In questo campo vennero detenuti soprattutto partigiani e oppositori politici: molti vennero uccisi per impiccagione o fucilazione e i sopravvissuti al momento dell’arrivo degli alleati vennero trasportati al campo di Dachau. Ma lo scopo più agghiacciante del campo era di procurare all’Università del Reich cavie umane per i sadici esperimenti pseudoscientifici relativi all’uso di armi chimiche e malattie infettive: nella camera a gas del campo vennero uccisi a questo scopo 86 ebrei provenienti da Auschwitz. Le loro ossa vennero inserite nell’archivio antropologico di scheletri di diverse razze umane e sono state rinvenute al momento della liberazione. Boris Pahor racconta in questo libro bellissimo e tragico il forno crematorio, la sala autopsie la camera a gas, le impiccagioni, le brutali pratiche, quindi, di un regime, quello nazista, che estremizzò sino al parossismo le pratiche di violenza e il concetto di intolleranza.
“Dovevamo diventare italiani per forza”, scrive Boris Pahor. Trieste, piazza Oberdan: nel 1920 la Casa della Cultura Slovena venne data alle fiamme dai fascisti. Un crimine che colpì il cuore e l’anima del popolo sloveno, un delitto incomprensibile ma allo stesso tempo indimenticabile per un Boris Pahor bambino che intuì la gravità della situazione dagli occhi spaventati della madre. La dittatura fascista in Italia inizia la sua opera di nazionalizzazione delle minoranze e l’odio razzista si propaga come un virus attraverso l’italianizzazione forzata dei cognomi slavi e la proibizione dell’uso della lingua slovena. Un capitolo della nostra storia di cui si parla poco, come se fosse meno grave, meno importante e un popolo, quello sloveno, quasi dimenticato. “In qualche modo siamo marginali, trascurabili, politicamente impotenti”, afferma ancora Boris Pahor. Durante gli anni del fascismo e dell’occupazione nazista numerosi giovani sloveni si opposero al regime e persero la vita al lato dei partigiani italiani, a completa dimostrazione della mancanza di un sentimento anti-italiano. Nonostante questo, la narrazione delle gesta di questi combattenti manca totalmente, o quasi.
È proprio questa la denuncia di Boris Pahor, classe 1913, che in Piazza Oberdan ha voluto restituire dignità al popolo sloveno, facendo luce non solo sui crimini ed i soprusi subiti durante l’epoca fascista (dei quali pochi storici e libri di storia parlano) ma anche e soprattutto rappresentando a grandi linee l’identità slovena attraverso la sua storia e la sua letteratura. E’ questa Piazza Oberdan, un’opera che, riunendo al suo interno diverse forme narrative, il saggio storico, il diario, l’antologia letteraria e altre, cerca di diventare un “luogo della memoria” per raccontare la storia di Triesta e del popolo sloveno durante il secolo. Un lavoro, che informa, ma richiede anche una certa preparazione. Comunque le note a fine di Piazza Oberdan aiutano a conoscere e capire la Trieste italo slovena che ancora esiste nel terzo millennio. Anedotti, testimonianze, riferimenti autobiografici di uno dei più autorevoli scrittori in lingua slovena ancora vivente. illuminano.
L’ incendio del Narodi Dom, Casa Nazionale, fu l’inizio dell’ odissea di Boris Pahor. Costruito nel 1904, il Narodni Dom era il cuore dellacomunità slovena di Trieste. Il palazzo era costituito da un albergo, l’Hotel Balkan, un teatro, alcune abitazioni private ed era la sede di numerose organizzazioni e da sedi di varie organizzazioni politiche economiche e culturali slovene, ma anche croate, serbe ceche e slovacche. Narodni Dom era il simbolo della presenza slovena a Trieste che prima della guerra del 15-18 era di circa 60.000 persone, il 25% della popolazione. Durante tumulti anti-slavi, il 13 luglio1920 l’edificio fu distrutto da squadre fasciste che appiccarono il fuoco e impedirono l’intervento dei pompieri. L’intento era quello di eliminare ciò che per loro costituiva un’ affronto all’italianità della città e incendiare, insieme al palazzo, gli archivi che raccoglievano la memoria della comunità slovena triestina. I responsabili del rogo non furono mai processati, né i proprietari risarciti. Successivamente, l’affermarsi del regime fascista comportò la completa negazione dei diritti e dell’identità delle minoranze e nel 1927 si giunse alla chiusura definitiva di tutte le organizzazioni slovene.
Leggere Piazza Oberdan di Boris Pahor vale anche per il 10 febbraio, giorno del ricordo, che deve diventare giorno di tutti ricordi.
La storia non si può eliminare, né strumentalmente riscrivere a colpi di leggi; si può anche rinnegare, certo, ma cambiare no.
Non va ricordato solo la fuga dall’Istria e dalla Dalmazia di qualche decina di migliaia di italiani o le foibe, ma anche tutti i crimini fascisti in Africa ed in Europa. Tra questi l’ oppressione con massacri del popolo slavo. Emblematico di quello che avvenne nelle terre acquisite dal trattato di Rapallo fu il discorso di Benito Mussolini, tenuto a Pola il 22 settembre 1920:”Di fronte ad una razza inferiore e barbara come quella slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone … i confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani.” Seguirono giorni di grande umiliazione per il popolo sloveno narrati anche in Piazza Oberdan. Infine vi furono gli anni terribili della seconda guerra mondiale con l’ invasione della Jugoslavia. Ma per avere una prima idea è sufficiente la sintesi, fornita dallo storico Angelo Del Boca, del bilancio delle vittime civili in 26 mesi, dal 1941 al 1943. di terrore italo-fascista nella sola provincia di Lubiana:
“Ostaggi fucilati per rappresaglia: 1.500 Fucilati sul posto durante i rastrellamenti: 2.500 Deceduti per sevizie: 84 Torturati e arsi vivi: 103 Uomini, donne e bambini morti nei campi di concentramento: 7.000 Totale: 11.100” Se si contano i circa 900 partigiani catturati e “passati per le armi” sul posto, nonché le 83 sentenze di morte emesse dal tribunale militare di guerra di Lubiana (che comminò anche 434 ergastoli e 2695 altre pene detentive per un totale di 25.459 anni) le vittime furono più di 12.000. I villaggi completamente devastati furono 800 e più di 3000 le case saccheggiate e distrutte col fuoco. Tutta la Slovenia, il Friuli Venezia Giulia ed anche il Veneto vennero disseminati di campi di concentramento per sloveni e slavi. Il campo di concentamento dell’ isola di Arbe aveva una mortalità giornaliera superiore al lager di Buchenwald.
L’ITALO- SLOVENO BORIS PAHOR, CHE SCRIVE NELLA SUA LINGUA, LO SLOVENO, MA E’ TRADOTTO IN ITALIANO E IN MOLTE ALTRE LINGUE, HA RACCONTATO LA SUA TRAGICA ED EROICA VITA IN MOLTISSIME OPERE TRA LE QUALI NECROPOLI, IL ROGO DEL PORTO, IL PETALO GIALLO, QUI E’ PROIBITO PARLARE, NELLA CITADELLA TRIESTINA, BONACCIA CON GLI ARANCI, UNA PRIMAVERA DIFFICILE, PIAZZA OBERDAN, FIGLIO DI NESSUNO.