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A che serve il reddito, minimo, garantito, di cittadinanza, di base…

di Paola
Boffo

Ricorreva domenica 3 ottobre il decimo anniversario del crollo della palazzina in via Roma a Barletta a causa del quale persero la vita quattro operaie che lavoravano in un opificio al piano terra, e la figlia 14enne del loro datore di lavoro, Maria Cinquepalmi.

Quella atroce vicenda sta tutta dentro le condizioni della povertà, del (mal)funzionamento del mercato del lavoro, dello sfruttamento, della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ci suggerisce pure perché è così importante che esista una qualche misura di reddito garantito nel contesto di un sistema di protezione sociale (ne scrive oggi Giuseppe d’Elia), e sia definito un salario minimo (di cui scrive Roberto Musacchio). Della necessità di un reddito di base ho scritto su transform molte volte.

Quasi dieci anni fa avevo ricordato le operaie di Barletta alla fine di questo articolo di marzo 2012, che ripropongo oggi, dove scrivevo di salario, reddito, Europa, alla vigilia della introduzione della riforma Fornero[1], che mi pare comunque molto attuale, in una situazione sociale e lavorativa anche peggiorata.

Reddito no

Il sottosegretario alle Politiche Sociali Maria Cecilia Guerra ha risposto così alla specifica domanda: questo Governo non farà una misura di reddito garantito, minimo, di cittadinanza, basic income, comunque lo si voglia chiamare. Il ministro Fornero lo aveva preannunciato, evidentemente in modo improvvido, a pochi giorni dall’assunzione del suo incarico governativo, ora è arrivata una smentita definitiva, benché non motivata se non genericamente con la carenza di risorse economiche disponibili.

Pare che l’ipotesi alternativa (?) alla quale si sta lavorando è una Social Card riformata da ridisegnare a livello locale sulla base delle differenti condizioni dei territori.

Il nodo è venuto al pettine durante la sessione di chiusura della Conferenza nazionale “Cresce il welfare, cresce l’Italia” che si è tenuta a Roma il 1 e 2 marzo, dove cinquanta organizzazioni del sociale si sono riunite per ragionare sulle politiche sociali e elaborare proposte per un nuovo modello di welfare.

Nel frattempo è andato avanti il confronto fra governo e parti sociali per la riforma del mercato del lavoro, e degli ammortizzatori sociali. All’orizzonte un accordo che giorno per giorno si avvicina un po’, poi si allontana, poi viene sostenuto dal governo, poi ritenuto non indispensabile, poi caldeggiato dai partiti, ma tanto la riforma si farà. E si farà comunque, con o senza accordo, entro marzo, secondo l’impegno preso da Monti il giorno del suo insediamento e come richiesto dalla solita Europa.

Ma l’Europa, nelle sue raccomandazioni all’Italia sul Piano Nazionale di Riforma, già evidenziava che i lavoratori con contratti a tempo determinato, in particolare quando sono ufficialmente registrati come lavoratori autonomi ma hanno, in concreto, un rapporto di lavoro subordinato, hanno una tutela minore e che non tutti i lavoratori che perdono il posto di lavoro ricevono un adeguato sostegno al reddito, in quanto la segmentazione del mercato del lavoro si accompagna ad un sistema frammentato di indennità di disoccupazione.

E quindi il governo italiano si è proiettato su una riforma che, con l’intenzione dichiarata di superare la segmentazione del mercato del lavoro, agisce da un solo versante, e cioè quello della riduzione delle tutele per i lavoratori dipendenti, senza introdurre alcuna misura per tutelare le fasce più deboli: gli inoccupati, i lavoratori precari, tutti quelli che lavorano in una delle altre 45 forme contrattuali previste dall’ordinamento italiano, i disoccupati di lunga durata, chi perde il lavoro ad un’età più avanzata, ma non abbastanza avanzata da consentire il pensionamento, traguardo che si allontana sempre di più nel tentativo di ridurre lo spread fra l’età pensionabile e quella della dipartita definitiva (che invece con il peggioramento delle condizioni economiche e sociali si avvicinerà inesorabilmente).

Lo fa con l’attacco all’articolo 18, secondo un’ipotesi che lo manterrebbe solo per i licenziamenti discriminatori o nulli. E quando la Cgil su questo si irrigidisce perché ritiene giusto mantenere un diritto essenziale conquistato dai lavoratori, che oggi si tende a definire “privilegio”, non manca chi grida agli estremismi. E’ ancora necessario ricordare l’esiguità delle cause di lavoro relative a fattispecie ricadenti nell’articolo 18, a fronte per esempio del numero di donne “dimesse” a seguito di gravidanza senza neanche l’onere per l’impresa di mandare una lettera di licenziamento ?

E lo fa con una proposta di riforma degli ammortizzatori sociali che opererebbe solo per i lavoratori dipendenti, e che riduce gli effetti delle protezioni perché ne contrae la durata e ne abbassa il valore, mentre non si hanno notizie di misure che dovrebbero riguardare tutta la platea del lavoro non dipendente: la nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego andrebbe infatti a sostituire l’indennità di mobilità, di disoccupazione ordinaria, con requisiti ridotti e quella speciale edile, riducendone però gli importi e mantenendo la tutela sul posto di lavoro limitatamente ai casi in cui la ripresa dell’attività lavorativa appaia probabile, evitando quindi quelli che vengono ritenuti scivoli estremamente lunghi quando la ripresa dell’attività lavorativa è altamente improbabile se non del tutto impossibile.

Dunque: riduzione dei diritti, delle tutele, delle protezioni e delle prestazioni per i lavoratori dipendenti, nulla per i lavoratori precari, o per chi il lavoro non ce l’ha. E invece proprio in un periodo di crisi profonda come l’attuale il percorso verso la pari dignità sociale va preservato e va costruito a partire dalla considerazione che oggi milioni di persone sono realmente fuori dal progetto costituzionale fondato sul cittadino come lavoratore salariato, e che sono sostanzialmente escluse dalla garanzia di un’esistenza libera e dignitosa, sia perché prive della garanzia di condizioni materiali di sussistenza, sia perché escluse – in quanto estranee alla categoria dei lavoratori salariati – dall’accesso a quegli strumenti di partecipazione politica – il sindacato, lo sciopero – che contribuiscono alla dimensione della vita activa, cioè di “equa partecipazione alla vita politica, culturale e sociale”.

E però anche su questo l’Europa ci dà delle indicazioni: il Parlamento Europeo sottolinea la necessità di misure concrete che sradichino la povertà e l’esclusione sociale, esplorando strategie di ritorno all’occupazione, favorendo un’equa redistribuzione del reddito e della ricchezza, garantendo regimi di reddito minimo adeguato che debbano stabilirsi almeno al 60% del reddito mediano dello Stato membro interessato. D’altronde in Europa solo Italia, Grecia ed Ungheria non hanno misure di reddito minimo.

Sulla base dei criteri stabiliti nella risoluzione del Parlamento Europeo del 20 ottobre 2010 molte organizzazioni stanno lavorando all’elaborazione di un testo da promuovere attraverso una Iniziativa dei cittadini europei per l’approvazione di una direttiva che garantisca il diritto di tutti i cittadini europei al reddito minimo garantito. L’Iniziativa dei Cittadini Europei, introdotta dall’articolo 11 del Trattato sull’Unione Europea, costituisce un invito rivolto alla Commissione perché proponga un atto legislativo su questioni per le quali l’UE ha la competenza di legiferare.

Un reddito minimo adeguato dovrebbe soddisfare alcune condizioni come quelle definite ad esempio dall’European Anti Poverty Network per assicurare misure efficaci per un approccio integrato per un’inclusione attiva:

  1. adeguato per una vita dignitosa, attraverso la definizione condivisa di standard, assicurando che il reddito minimo sia “almeno al livello della soglia di povertà (60% del reddito mediano)”;
  2. non condizionato allo stato occupazionale: è necessario che il reddito non sia legato all’obbligo di accettare un qualsiasi lavoro, senza riguardo alla sua bassa qualità, ed in particolare con salari inadeguati o condizioni lavorative scadenti, partendo dalla considerazione che la maggior parte delle persone ha bisogno e desidera lavorare, ma ha il diritto a percepire un reddito adeguato come diritto umano;
  3. facilmente comprensibile, trasparente ed efficace, per garantire l’effettivo utilizzo da parte del maggior numero di potenziali beneficiari, evitando inoltre lo stigma che tende ad essere attribuito al conseguimento di benefici senza un corrispettivo lavorativo;
  4. continuo e sostenibile, per evitare cambiamenti improvvisi ai livelli di reddito, in particolare nei momenti di transizione fra diverse possibili misure (ad esempio assistenza sociale, indennità, ammortizzatori sociali, ecc.) per assicurare che sia evitata la “trappola della povertà” con un approccio dal basso che affermi il diritto delle persone a benefici adeguati basati sui bisogni e che analizzi i possibili percorsi di inclusione insieme ai potenziali beneficiari.
  5. inserito in una gerarchia progressiva fra reddito minimo e salario dignitoso, iniziando dall’assegnazione di un reddito minimo adeguato ed assicurando che il salario minimo sia più alto in termini reali e regolarmente indicizzato ai prezzi di beni e servizi. Questo approccio preserverebbe l’incentivo al lavoro, riducendo sostanzialmente la povertà nel lavoro ed il rischio di impoverimento, così come la determinazione di un reddito base di riferimento per l’economia.

Il Comitato centrale della FIOM dell’8 novembre 2011 ha avanzato nel documento finale la proposta di istituire un reddito di cittadinanza che, “…nell’ambito di una riforma del sistema di ammortizzatori sociali e di previdenza sociale, sia da un lato in grado di garantire il diritto allo studio a tutti, dall’altro affronti la questione di una tutela a fronte di una disoccupazione non volontaria, figlia di una precarietà esasperata.”

Si tratta di un segnale importante in un contesto sindacale sostanzialmente avverso ad una misura di reddito minimo, e che invece va nella direzione di una ricomposizione sociale fra chi il lavoro ce l’ha e chi invece non ce l’ha, e cerca di superare la divergenza di interessi che spacca lo stesso fronte del lavoro proprio nel momento peggiore dell’attacco ai diritti e alla democrazia.

E invece proprio qualche giorno fa il ministro Fornero ha smentito una volta di più le sue prime aperture, sostenendo che in Italia se si introducesse una misura di reddito di base la gente si adagerebbe, si siederebbe e mangerebbe pasta al pomodoro.

Forse invece se ci fosse il reddito minimo e ci fossero piccoli margini di scelta ci potrebbero essere condizioni di lavoro decenti, e più sicure, e più dignitose.

 

E forse se ci fosse stato il reddito minimo non sarebbe successo quello che è accaduto a quattro operaie che a Barletta confezionavano magliette e tute da ginnastica. E guadagnavano meno di 4 euro all’ora. Matilde Doronzo, 32 anni, Giovanna Sardaro, 30 anni, Antonella Zaza, 36 anni e Tina Ceci, 37 anni, le quattro operaie morte nel crollo della palazzina di Barletta, che lavoravano in nero dalle 8 alle 14 ore al giorno. L’orario variava a seconda del lavoro che c’era da fare: «Avevano ferie e tredicesima pagate, ma senza contratto. Lavoravano per pagare affitti, mutui, benzina. Lavoravano per poter vivere. Anzi, sopravvivere».

[1] Legge 28 giugno 2012, n. 92 Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita

 

Paola Boffo

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