di Bianca M. Pomeranzi –
Guardare al cammino complesso seguito, a livello mondiale, dalla giornata delle donne dell’8 marzo, colpisce perché mette in luce il filo che lega lo “sciopero globale” di oggi alla storia delle origini nei primi anni del secolo scorso.
La data, considerata acquisita dalle diverse generazioni di femministe italiane del dopoguerra, grazie alla scelta dell’Unione delle Donne Italiane che dal 1945 avevano ripreso la tradizione della Giornata della donna, avviata nel 1922 dal partito comunista ha infatti un lungo cammino ed è stata anche oggetto di una disputa nella memoria collettiva mondiale.
Ricerche emerse negli anni ’80 hanno suggerito che il “mito” delle origini, in memoria del devastante incendio della Triangle Garment Factory di Washington Square a Manhattan del marzo del 1911 dove persero la vita 127 operaie tessili, in gran parte di origine ebrea e italiana, fu recuperato negli anni ’50, nell’era della guerra fredda, per separare la Giornata internazionale della donna dalle sue indubbie radici socialiste.
Origini che sono storicamente documentate e partono alla Seconda Internazionale del 1907 quando Rosa Luxembourg e Clara Zetkin, ottennero la creazione di un Ufficio delle donne socialiste di cui Clara Zetkin fu eletta segretaria. Proseguono con la prima “Festa della donna” che si tenne il 3 maggio 1908 a Chicago e con l’ufficializzazione dal 1909, della giornata della donna da parte del partito socialista americano, celebrata l’ultima settimana di febbraio con iniziative di sciopero delle lavoratrici tessili, che la stampa dell’epoca classificava come una “manifestazioni per il suffragio femminile”.
Dal 1910 la Seconda Internazionale socialista istituì ufficialmente la Giornata delle donne, ma senza fissarne una data specifica, così che in molti paesi europei dall’Inghilterra alla Germania le donne socialiste e le suffragiste scelsero la domenica della prima settimana di marzo per le loro manifestazioni.
Le russe dal 1913 celebravano quella giornata nell’ultima settimana di febbraio, secondo il calendario giuliano che corrispondeva alla prima di marzo del calendario gregoriano e l’8 marzo del 1917, le lavoratrici tessili e molte altre donne di San Pietroburgo scesero in piazza a manifestare per la fine della guerra e per il pane dando inizio, con gli scontri di febbraio, alla Rivoluzione d’Ottobre.
In ricordo di quell’evento Lenin e Kollontaj, nel corso della Terza Internazionale di Mosca nel 1921, decisero, quindi, che l’8 marzo fosse un giorno festivo dedicato alla “Giornata internazionale dell’operaia” celebrata da allora in poi dai partiti comunisti.
Il successo delle campagne del “voto” alle donne in molti paesi, le repressioni dei movimenti operai e lo scoppio della seconda guerra mondiale fecero perdere per un alcuni decenni il riconoscimento internazionale della ricorrenza, fino a quando i movimenti delle donne degli anni settanta ripresero a celebrare la giornata, ma questa volta in nome del femminismo autonomo.
La manifestazione americana delle donne di Boston del 1970 fu tra le prime a rilanciare la tradizione dell’8 marzo e venne presto seguita da molti altri paesi occidentali.
In Italia l’8 marzo del 1972 a Campo de Fiori a Roma segnò la prima uscita pubblica del nuovo femminismo separatista e radicale, che non si riconosceva totalmente nelle tradizionali battaglie dell’Unione delle Donne Italiane, ma che reclamava il diritto delle donne di decidere sulla propria sessualità e sulla propria vita. Favorita dallo scalpore suscitato dall’insensata carica di polizia contro i cartelli e gli slogan di un piccolo numero di donne inermi quella data segnò l’avvio del “femminismo di massa” italiano, legato alle grandi manifestazioni per l’aborto e per i diritti civili e al massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
Quando le Nazioni Unite riconobbero nel 1975 la data dell’8 marzo come “Giornata internazionale delle donne”, nell’ambito del decennio Uguaglianza Sviluppo e Pace e dell’anno internazionale delle donne e poi quando nel 1977, proposero con una risoluzione dell’Assemblea generale a ogni paese membro di dedicare un giorno all’anno a questo scopo, il femminismo italiano era già riconosciuto tra i movimenti ne più attivi e significativi a livello europeo internazionale e tale rimase fino all’approvazione nel 78 della legge 194 e fino alla proposta di legge di iniziativa popolare contro la violenza contro le donne, sulla soglia degli anni di piombo e di quella che chiamammo la “normalizzazione” per le misure di ordine pubblico del Governo Cossiga.
Si spezzò così a cavallo degli anni ottanta la tradizione di protesta dell’8 marzo femminista e le manifestazioni cominciarono a divenire “rituali” e celebrative e a trasformarsi in “feste” delle donne, sempre più assorbite dal vortice del consumismo e della perdita di memoria.
A livello mondiale, invece, le ragioni del femminismo avanzavano in tutti i contesti e i continenti non più solo al ritmo della giornata delle donne, ma negli incontri femministi che mantenevano vive le ragioni delle lotte delle donne. È tato il tempo lungo del femminismo transnazionale che nel suo percorso autonomo, prima nel confronto con le istituzioni internazionali, e, poi, in connessione con i forum sociali mondiali ha messo al centro il tema della violenza contro le donne. Un femminismo, capace di articolare l’analisi sul dominio di classe, denunciato dal femminismo marxista, con il suprematismo razziale, coloniale e di genere, soprattutto grazie alle femministe nere e al pensiero queer e post-coloniale.
A questo femminismo rinnovato si deve la ripresa dell’8 marzo come giornata di lotta che, non a caso, si è data la forma di “sciopero globale”.
Dal 2017, a cento anni esatti dalla rivolta di San Pietroburgo, le manifestazioni che si realizzano dall’America latina, all’Asia, dal Nord America all’Europa e, in particolare, nell’Europa dell’Est, mettono al centro la violenza contro le donne e tutti i soggetti sessualizzati e razzializzati nell’attuale paradigma di produzione sociale dove il capitalismo finanziario e ipertecnologico, “comanda” tutto il pianeta.
È una pratica complessa che chiede alleanze e connessioni consapevoli, ma che può rinnovare il modo di fare politica e di fare sindacato a patto di partire da una visione del lavoro e del welfare che metta al centro le condizioni di vita.
La “materiale vita”, che i percorsi femministi hanno saputo far “parlare” a livello globale, è quella che, oggi, scende in piazza con lo sciopero globale dell’8 marzo e domanda futuro per l’umanità intera.