di Alfonso Gianni –
(appunti per un intervento al convegno di Transform! Europe“La Sinistra al tempo del populismo” Torino 9/10 marzo 2019)
Il titolo e l’argomento di questo panel sono i corsi e i ricorsi storici del populismo. Ci preoccupano soprattutto i ricorsi in atto, visto che nel passato, e non solo in Europa, il populismo ha spesso dato cattiva prova di sé e in alcuni casi topici è stato mallevadore di immani tragedie.
Visto che siamo a Torino trovo giusto cominciare con una citazione di Primo Levi, molto famosa, ma sempre utile perché ribadisce una verità che in molti tendono a scordare. Mi riferisco alle conclusioni che Primo Levi appone al libro che completa la sua trilogia, I sommersi e i salvati, una sorta di “quaderno di lavoro” nel quale ha sintetizzato le questioni cruciali che si sono aggirate attorno ad Auschwitz, in un doppio senso: da una parte i comportamenti che lì sono avvenuti (celebre è la definizione della “zona grigia” vittime che ottengono potere su altre vittime, il “servilismo imitativo” per dirla con Wolfgang Sofsky, d’altronde senza libertà e uguaglianza non vi può essere neppure fraternità e questo è messo spietatamente in luce dall’universo concentrazionario); dall’altra parte ciò che rimane e quindi può tornare.
Il testo è del 1986: siamo nel pieno della spinta neoliberista a livello mondiale. In Italia siamo nell’epoca del craxismo che spalancherà le porte a quella tipologia di populismo televisivo dall’alto che fu il fenomeno del berlusconismo. Primo Levi sente che la memoria del passato si sta allentando o è oggetto di un voluto travisamento. Ed egli quella memoria la vuole accanitamente difendere, non per ricordare il passato, ma per impedire che ritorni. Farlo è un dovere, perché non a tutti i testimoni diretti di quella tragedia è stata data quella possibilità. “Noi siamo quelli – dirà altrove Levi – che non hanno toccato il fondo, … per abilità o fortuna, chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare o è tornato muto”.
Scrive dunque Levi “Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, non previsto da nessuno. E’ avvenuto contro ogni previsione, è avvenuto in Europa; incredibilmente è avvenuto che un intero popolo civile, appena uscito dalla fervida fioritura culturale di Weimar, seguissi un istrione la cui figura oggi muove al riso; eppure Adolf Hitler è stato obbedito ed osannato fino alla catastrofe. E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.”
Per capire quanto siano vere e preveggenti queste parole basta guardarsi intorno, anche in questa nostra Europa. Per questo dobbiamo prendere l’ammonimento di Primo Levi molto sul serio e da subito fare in modo che non si crei alcuna “zona grigia”, quel terreno dai confini mal definiti “che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi”, di chi dice ‘tanto non succederà di nuovo’ proprio mentre ha di fronte agli occhi quegli atti di disumanità e di crudeltà – vedi il comportamento del nostro governo verso i migranti – contro i quali invece bisogna resistere e ribellarsi.
Tuttavia se è vero che molto spesso i fenomeni populisti hanno preso e prendono la strada del fascismo, non è vero che questa sia l’unica strada o quella sempre obbligata, allo stesso modo che non è vero che il fascismo, almeno quello strettamente inteso, sia l’unica forma di un governo e di un sistema autoritari.
Per questo è bene guardare alle esperienze extraeuropee nelle quali il populismo si è pienamente dispiegato. In particolare in America Latina. Anche per dare al termine populismo, troppo spesso usato come un significante vuoto, un senso più preciso che deriva dai modi concreti con il quale il fenomeno si è storicamente manifestato.
A questo proposito possiamo avvalerci degli studi di un grande sociologo italiano Gino Germani. Per quanto sia nel mondo accademico accostato per importanza a un Vilfredo Pareto o a un Gaetano Mosca, la sua figura di studioso non è altrettanto nota in Europa. E’ stato un merito del Centro riforma dello stato e segnatamente di Pietro Ingrao avere richiamato l’attenzione su questo studioso: “non esattamente un nostro amico, ma d’altro canto non possiamo pretendere che tutti gli studiosi validi siano nostri amici” diceva Pietro.
Gino Germani in effetti è più noto in America Latina, in Argentina in particolare, perché è lì che si trasferì nel 1934 dopo un breve periodo passato nelle carceri italiane a causa delle sue attività antifasciste. Abbandonò l’Argentina dopo il colpo di stato del 1966, insegnò anche nelle università degli States, prima di tornare a Roma dove era nato e dove concluse la sua non lunga esistenza nel 1979.
Si può dire che tutta la riflessione di Germani avviene attorno al tema dell’autoritarismo, grazie alla quale va ben al di là di quella di Hannah Arendt sulle origini del totalitarismo. Il punto di svolta della riflessione di Germani avviene nel 1961 quando giunge ad una precisa e originale definizione del peronismo, che egli distingue nettamente dal fascismo europeo. Mentre il secondo si basava essenzialmente sulla classe media minacciata nelle sue condizioni dalle conseguenze della guerra – nel caso italiano – o dallo sviluppo della democrazia e dei movimenti proletari – nel caso tedesco e di nuovo nel caso italiano -, per Germani il primo, cioè il peronismo, si fondava su un grande processo di urbanizzazione delle masse rurali che non solo trovavano così nuove possibilità di lavoro, ma una risposta ad una domanda di integrazione. Quella domanda – come ha osservato acutamente Pasquale Serra nei suoi studi – insoddisfatta dalle forme tradizionali della democrazia, trovava così una risposta seppure illusoria in una costruzione istituzionale di tipo autoritario.
Ma questo non avviene affatto in modo banale e truffaldino. A differenza del fascismo europeo, che si fonda su disciplina e ordine, almeno quando si è consolidato in regime vero e proprio, il peronismo, specie nella sua versione di sinistra, ci parla di giustizia sociale e di diritti delle masse lavoratrici, di conflitto di classe. Per le masse il peronismo è stata effettivamente vissuto come un’esperienza di libertà.
Con un volo pindarico concettuale e temporale si potrebbe dire che la rabbia dei lavoratori della rust belt(cintura della ruggine), cioè delle zone deindustrializzate statunitensi che hanno consegnato la vittoria a Trump, sono l’analogo moderno ma rovesciato di quell’inurbamento argentino.
Per Germani l’analisi dell’autoritarismo deve prestare molta attenzione alle varie gradazioni e forme che esso assume. Per questo è centrale nella fase conclusiva della sua ricerca la distinzione fra autoritarismo moderno e autoritarismo tradizionale. Per sottolinearla egli si serve del concetto di secolarizzazione della società estendendolo ben al di là del significato che questo termine assume nella storia delle chiese e delle religioni e dei loro rapporti con la società. Il processo di secolarizzazione in una società comporta l’abbandono o quanto meno l’allontanamento da schemi, usi e costumi tradizionali. Si collega quindi ad un altro concetto centrale in Germani, quello della modernizzazione. In una società secolarizzata l’autoritarismo non è più implicito nelle culture tradizionali e dominanti, ma viene per così dire imposto con controlli esterni che possono assumere la forma di una repressione violenta o, prevalentemente ai giorni nostri, della costruzione di forme di risocializzazione virtuale e deviante, fornite dalla tecnologia moderna (la piattaforma Rousseau ne è un esempio).
Il rapporto diretto e privo di intermediazioni strutturate nella società tra il popolo e il capo, che è uno dei tratti caratteristici e generali tanto del populismo quanto dell’autoritarismo in tutte le loro forme, viene così filtrato dal mezzo tecnologico che riduce, frantuma la complessità e l’articolazione della domanda sociale. Come si vede non siamo affatto lontani dalla “tecnologia sociale” di Niklas Luhmann che tanta fortuna ebbe negli anni Ottanta. Oggi, quando constatiamo come l’intera vita entri nella catena della produzione del valore grazie alla modernizzazione del sistema capitalistico, possiamo vedere e riconoscere con più chiarezza questi fenomeni, a patto di non chiuderci gli occhi di fronte ad essi.
L’ultimo periodo della vita di Germani è appunto dedicato allo studio dell’autoritarismo e della democrazia nella società moderna. Quella collocata nel grande processo di globalizzazione. E Germani coglie un aspetto che è oggi, quaranta anni dopo, di estrema attualità, anche in vista delle prossime elezioni europee. Egli infatti mette in luce, come uno dei tratti della modernità, il rapporto fra unificazione dello spazio mondiale, crisi dello Stato-nazione e formazioni di soluzioni autoritarie combinate con ideologie nazionaliste, perché i nazionalismi qualunque sia il loro nome e orientamento, tendono sempre ad essere autoritari. Se mi è permesso un altro volo pindarico, all’indietro questa volta, non sarebbe stata possibile la soluzione del “socialismo in un paese solo” senza l’autoritarismo del Partito-Stato di impronta staliniana.
Il binomio modernità/autoritarismo è tenuto insieme dal tema della marginalità, perché la modernità libera le persone – anche se non sempre e non tutte – dalla dipendenza del soddisfacimento di bisogni primari (quali il cibo nelle società capitalistiche mature, il che non significa che sia debellato il problema della fame nel mondo) ma nello stesso tempo le esclude dalla partecipazione, cioè crea nuovi bisogni che restano insoddisfatti.
E qui arriviamo a Laclau. Se dovessi riassumere in una battuta la differenza fra Germani e Laclau direi che mentre per il primo il populismo è un problema per la democrazia, per il secondo è una risorsa. Di più, è una forma radicale di democrazia. La posta in gioco è la possibilità o meno di definire un’unità politica nel mondo contemporaneo segnato dalla presenza di una grande eterogeneità sociale. Per Laclau questa unità politica può essere perseguita a condizione che essa rimanga sempre aperta, che essa si presenti come una tensione permanente e non conclusa.
Da qui derivano la distorsione che, a mio parere, Laclau fa del concetto gramsciano di egemonia, il concetto di trascendenza e quello più famoso di “significante vuoto” (tematiche, queste ultime, che in Laclau accendono anche un grande interesse per il misticismo).
In questo modo viene ripresa la vecchia questione trattata da Carl Schmitt del rapporto fra rappresentanza e rappresentazione. Per Laclau la riscoperta della rappresentazione diventa la democrazia radicale e viceversa. Perché solo nella rappresentazione si possono riconoscere i settori marginali, la marginalità sociale. Quindi il populismo diventa l’unica dimensione valida della politica. Il populismo, per Laclau, è una forma della politica senza un fondamento alle spalle senza qualcosa che “sta indietro come un diverso dal fondato” per usare le parole di Hegel.
Quindi questa politica populista rimane indeterminata nei contenuti e priva di qualunque finalizzazione. Ma allora, questa è la domanda conclusiva, è possibile realmente parlare di populismo democratico, un evidente ossimoro, (Tommaso Nencioni) o di un “populismo progressivo” (Pasquale Serra)?
Lasciando pure cadere ogni dimensione teologica o di filosofia della storia è possibile che una politica de-finalizzata possa fronteggiare una potenza, quale il moderno capitalismo, che nell’eternalizzazione del presente dei rapporti di produzione e di classe trova la sua chiara finalità? Io credo di no.
O non è forse vero, come scrive Marco Revelli, ed io concordo con lui, che “quasi ovunque l’agitazione neopopulista in basso viene utilizzata apertamente da chi sta in alto senza apparente contraddizione”. Se guardiamo all’Italia e all’Europa di oggi è proprio quanto sta avvenendo.