1. Lorena H.
Lorena Hickok, New York 1932: «Vivevo in un piccolo appartamento con una minuscola finestra e il bagno in fondo al corridoio. […] I miei amici erano cronisti, le mie amiche erano spesso correttrici di bozze (molto acute, molto dolci), e io ero quel che chiamavano una newspaperwoman. Leggevano i miei pezzi e tutti sapevano che io di matrimoni non mi occupavo.» ( Amy Bloom, Due donne alla Casa Bianca, Fazi 2019, p. 39).
L’infanzia di Lorena ricorda un romanzo dickensiano: il padre è un allevatore anaffettivo, lei resta orfana di madre a soli 13 anni. È quella che Durkheim definirebbe un’anomica, le sue aspirazioni e affetti sono fuori dalla possibilità sociale di realizzazione. Una la cui sopravvivenza non è prevista. La ragazza vive di lavori umilianti fuori dalla casa paterna fin dall’adolescenza, incluso quello in un ostello per operai dove ogni sera deve barricarsi in camera per evitare le violenze. Il miracolo? Mrs Dodd, presso la quale lavora, decide di occuparsi della sua istruzione. Poi un percorso universitario accidentato, i lavori giornalistici per giornali di provincia e le prime amanti, l’approdo all’Associated Press, New York, e l’inchiesta sul caso Lindbergh che la rende la giornalista più famosa d’America.
«Avevo fatto il grande salto dal Milwaukee Sentinel a New York perché ero l’unica donna a occuparsi dei playoff del football universitario. […] Gli uomini mi pagavano da bere e ogni sera offrivo un giro prima di tornare a casa. Parlavano di mogli e amanti in mia presenza, io non battevo ciglio. Né arricciavo il naso. […] Sorseggiavo il mio scotch. Mantenevo il mento alto e lo sguardo amichevole. Non dicevo ai ragazzi che io non ero diversa da loro, che ben presto mi sarei portata a letto una decina di ragazze sbagliate svegliandomi in una decina di motel, senza portafoglio e con qualche graffio, per poi restare incastrata con una donna e un paio di mocciosi. Facevo credere che desideravo trovare l’uomo giusto, anche se non ci ero ancora riuscita.» (ibid., 40).
Invece, nel 1932, entra nella vita di Lorena la donna giusta: Eleanor Roosevelt. È un grande amore, quello tra la first lady e lei, con annessa fuga non osteggiata dal presidente (da tempo i coniugi hanno vite sessuali parallele). Il libro di Bloom ci riporta ad atmosfere alla Carol, tra automobili in viaggio verso hotel di charme al confine canadese e fiaschette di bourbon, un bacio e una coperta tweed nei boschi di Thoreau.
Hickok segue la campagna di Roosevelt, che sarà eletto, e aiuta Eleanor a crearsi quell’aura di empatia sociale che sarà la cifra del suo nuovo ruolo di first lady. La convince anche a scrivere un articolo al giorno, My Day, e a tenere conferenze stampa settimanali dedicate alle giornaliste. Lorena deve però, causa la sua vicinanza, rinunciare progressivamente alla carriera giornalistica. Vivrà, pur con ruoli dignitosi, tutta la vita nell’ombra di Eleanor, anche dopo la morte di Franklin, nel 1945. Morirà di diabete nel 1975. Non c’è una morale della favola. Se non forse quella che leggerete sotto, al capitolo 2, ovvero:
2. The Female Closet
The Female Closet (Usa, 1998, 60’) è un docufilm di Barbara Hammer che si apre con un’emozione: le foto di Alice Elizabeth Austen (1866-1952) una fotografa straordinaria che abitava in una casa fatta costruire nel Seicento a Staten Island, uno dei distretti di New York, chiamata Clear Comfort. Foto dirompenti di ragazze e donne travestite da uomo o in abito lungo, con amici gay, a letto in due o anche in tre, con camicie da notte a bit proustiane che fanno pensare al mondo lesbico e queer pullulante nella Recherche, lesbiche rocciatrici, nuotatrici, canottiere, lesbiche in gruppo al mare o al pic-nic…
Oggi la casa di Alice Austen è diventata un museo grazie alle battaglie di cittadini coscienziosi che nel 1960 hanno recuperato la casa, il parco e il giardino. Tuttavia permane sia nella cittadinanza che in alcuni media il luogo comune lesbofobo che l’artista sia da definire “fotografa” senza parlare della sua sessualità, riducendo l’importanza cruciale di una vita lesbica tra fine Ottocento e prima metà del Novecento a mera vita privata, da celare.
Il museo come closet, appunto.
Sull’emergere della dimensione lesbica nella storia delle artiste e sulla rimozione o misconoscimento di questa nell’impostazione museale, nei media e fra la cittadinanza mainstream si snoda tutto il docufilm di Barbara Hammer, passando da Alice Austen all’artista e performer dadaista Hannah Höch alla contemporanea newyorkese Nicole Eisenman. I lavori di quest’ultima sono un vero godimento pop e trash dotato di una forza espressiva oltre i canoni dei generi, dove il corpo lesbico queer emerge e letteralmente buca lo schermo.
Barbara Hammer, la regista, infine: un genio lesbico da poco scomparso, che mancherà a tuttə. Non è emersa, è rimasta “di nicchia” e questo dice molto. I punti di vista universalizzanti sono ancora eterosessuali e maschili, anche nel cinema.
3. Il diritto a vivere in pace
È uscito nel 2020 per Dwf donnawomanfemme, la storica rivista femminista fondata da Annarita Buttafuoco, un supplemento di narrazioni che aprono una finestra imprevista – almeno per molti e molte di noi – su un mondo troppo spesso schiacciato sulla sola visione repressiva, in particolare nell’ambito delle esistenze e delle sessualità femminili.
Waqfet Banat. Storie di donne lesbiche palestinesi è la traduzione italiana della seconda pubblicazione di Aswat – Palestinian Feminist Center for Gender and Sexual Freedom e raccoglie narrazioni di palestinesi lesbiche, bisessuali, queer, transgender, intersex: il suo titolo è traducibile in “le donne prendono una posizione” o anche “le donne si alzano”.
A questo alzarsi e prendere posizione fanno pensare le parole forti dell’Introduzione: «Waqfet Banat mostra le tensioni esistenti tra amore, orgoglio, norme sociali, religione, identità sessuali e politiche, e la società. Si tratta di una pubblicazione unica, poiché racchiude le narrazioni personali di chi scrive. Per ogni copia letta, ci sarà una persona in meno che si sentirà sola. […] Ci sosteniamo a vicenda, e sosteniamo tutte coloro che sono intorno a noi. E diciamo: “Sì, sono differente” e “Sì, ne sono fiera”. Andremo avanti in questo viaggio che abbiamo scelto di vivere ed esplorare».
Nel Queering the map, un muro virtuale per messaggi da ogni zona del mondo, dove i gay di Gaza hanno lasciato le loro parole di dolore, angoscia, devastazione e morte in questi mesi, c’erano anche voci lesbiche? I media occidentali non le hanno riportate.
Paola Guazzo