intersezioni femministe

Femminismo a Napoli: le Nemesiache

di Paola
Guazzo

Femminismo, a sud
L’inutile Italsider
Attende eterna
Voci urla un popolo
Guarda irato.

Presentiamo un articolo di Vera Sibilio sul gruppo femminista napoletano Le Nemesiache, tratto dalla newsletter femminista Ghinea (qui link per iscriversi e riceverla mensilmente https://ghinea.substack.com/). Performance, simbolismo, travestimento, antipsichiatria femminista, psicofavole,  cinema, arte: questo il mondo percorso dal gruppo già da fine anni Sessanta: “La nostra creatività è il nostro mondo che emerge e esplode capovolgendo e scoprendo infinite fantastiche imprevedibili dimensioni”. Un femminismo in lotta in tutti gli spazi spazi sociali del territorio, che rifiuta la perdita della dimensione mediterranea, dei suoi problemi, soggettività e radici,  contro lo spostamento dell’asse del femminismo italiano verso Via Dogana, Milano e il femminismo della differenza. Secondo le parole di Vera Sibilio. “La sensibilità meridionale delle Nemesiache rende la città di Napoli materia viva del femminismo. Se pensiamo che anche nel contemporaneo non è semplice individuare un discorso femminista che sia in grado di parlare alle donne del sud Italia, si può riconoscere in che misura il lavoro delle Nemesiache è stato pionieristico in questo senso.”

Tutti i fiumi arrivano al mare della ribellione: per un femminismo nemesiaco
di Vera Sibilio

Il mio primo incontro con le Nemesiache è avvenuto un giorno estivo imprecisato quando ho posato lo sguardo su una targa che leggeva: «Belvedere Lina Mangiacapre, artista femminista, 1946-2002. Quartiere Posillipo». Sapendo quello che so oggi sul femminismo nemesiaco, penso che non ci sarebbe stato modo migliore di imbattermi in questo gruppo, che ha fatto della dimensione corporea e materiale il perno del suo lavoro e della sua filosofia, se non quello di attraversare uno spazio che è prova del suo segno tangibile su Napoli e nel femminismo.Il gruppo delle Nemesiache nasce nel 1969 su iniziativa di Lina Mangiacapre. Napoletana di origine e trasferitasi a Roma per studiare filosofia, ritorna nella città partenopea per “fuggire dall’università e fare filosofia coi pescatori e i camerieri di Mergellina”. Il primo passo compiuto da Mangiacapre nel dare vita alle Nemesiache è stato l’avvio di un’approfondita ricerca mitologica, uno “scavare in se stessi e nelle pietre”. Questo processo aveva una duplice valenza. Da un lato, serviva a radicare la pratica femminista delle Nemesiache nel territorio del napoletano, ad ancorarla ai suoi riferimenti storici e geografici che gli avrebbero conferito linfa vitale. Dall’altro, abbracciare il mito significava abbandonare il pensiero logico su cui si era costituita la civiltà patriarcale. Il pensiero logico infatti, secondo Mangiacapre, è un pensiero parziale, incompleto, colpevole di aver “generato una filosofia alienata”, carente della parte più creativa e sregolata dell’agire umano.

La sensibilità per l’atto creativo si definisce sin dal primo momento come punto di snodo del femminismo nemesiaco. È nel primo Manifesto delle Nemesiache, datato al 1970, che il gruppo napoletano, composto inizialmente da Lina Mangiacapre, la sorella Teresa Mangiacapra e Silvana Campese, asserisce “la nostra creatività è il nostro mondo che emerge ed esplode capovolgendo e scoprendo infinite fantastiche imprevedibili dimensioni”. Ne consegue che le Nemesiache fanno del mezzo artistico il principale veicolo di espressione della propria attività politica, diventando pioniere dell’arte femminista e inserendosi nel più ampio dibattito femminista sull’arte che vede pronunciarsi in quegli stessi anni anche figure come Carla Lonzi. Mentre quest’ultima, però, arriva ad allontanarsi dall’arte come mondo sottomesso non solo ai dettami patriarcali ma anche al mercantilismo, Mangiacapre e le Nemesiache concepiscono l’arte come territorio dove si può praticare una “incursione intermittente e disturbante” ai fini di una riappropriazione dei corpi e degli spazi femminili.È proprio questa dimensione materiale dei luoghi e della corporeità a fungere da filo conduttore del femminismo nemesiaco. Il Manifesto della Creatività, datato al 1977, si apre con la denuncia della violenza (patriarcale) che ha espropriato le donne dei propri corpi, delle proprie modalità espressive. Le Nemesiache dunque si servono di strumenti plurimi del panorama artistico (teatro, performance, poesia, pittura, cinema) per attuare la riscoperta di un terreno dove le donne possono finalmente ritrovare una autenticità nella propria voce.

Riappropriarsi del corpo

In un articolo del 20 giugno 1979 comparso su l’Unità, Maria Roccasalva, artista e critica d’arte napoletana, commenta il lavoro delle Nemesiache sostenendo che esso dimostra che “la libera espressione del corpo può essere una via per liberarsi dall’alienazione”. Ciò che commenta Roccasalva è l’incursione delle Nemesiache al Frullone, ospedale psichiatrico di Napoli, avvenuta nel triennio 1977-1979. Durante questo lasso di tempo, le Nemesiache hanno dato vita a una performance partecipativa con le psichiatrizzate del Frullone, coinvolgendole in numerose attività tra cui concerti e momenti di svago. Una delle conquiste più grandi delle Nemesiache in tale frangente fu di garantire alle donne del Frullone la possibilità di accedere ai luoghi esterni dell’ospedale, atto consentito solo agli uomini fino a quel momento. L’esperienza del Frullone si è poi tradotta in un breve film di 40 minuti intitolato Follia come poesia (1979) composto di tre atti. Nella prima parte, si assiste al racconto-liberazione della nemesiaca Silvana Campese. Il film si apre infatti con dei fotogrammi rappresentanti una donna attanagliata dalle tenebre che, attraverso il momento del concerto e del ballo arriva finalmente a disfarsi dell’oscurità che la teneva prigioniera. È proprio l’atto del muovere il corpo assieme alle compagne, condito dalla gioia e l’entusiasmo della co-creazione tra donne che offre a Campese la possibilità di raggiungere la luce, che può anche intendersi come trasposizione filmica dell’ottenimento di una coscienza femminile tramite l’azione femminista. Se gli altri gruppi attivi nel decennio Settanta in Italia tendono a prediligere l’autocoscienza (intesa come incontro e comunicazione tra sole donne con lo scopo di mettere in questione il subdolo condizionamento patriarcale e dare modo a una nuova soggettività femminile di nascere), le Nemesiache si allineano alla fruizione di tale pratica ma ne modificano le coordinate facendola propria. Il gruppo partenopeo, infatti, fa uso di una particolare forma di autocoscienza a cui attribuiscono il nome di “psicofavola”. La nemesiaca Bruna Felletti definisce la psicofavola come “autocoscienza non solo di parola, scrittura ma anche di gestualità, immagine, sensazioni”. In altre parole, la psicofavola condivide l’obiettivo dell’autocoscienza di demistificare la retorica patriarcale soggetta a introiezione da parte delle donne. La differenza tra le due pratiche sta nelle modalità in cui vengono espletate: la psicofavola, infatti, si attua non esclusivamente tramite il dialogo ma tramite la performance, la creazione, la coreografia, la scenografia, la musica. In tal senso, l’episodio dedicato a Silvana Campese in Follia come poesia è un esempio dell’autocoscienza performativa e incorporata (embodied) messa in campo dal femminismo nemesiaco. Gli altri due episodi del film sono più direttamente incentrati sulle donne psichiatrizzate del Frullone rendendole non solo co-protagoniste ma anche co-autrici del film. In particolare, l’ultimo episodio si costituisce di una serie di ritratti delle donne del Frullone che, talvolta, guardano dentro la camera e direttamente negli occhi la spettatrice, interrogando le gerarchie per cui alcune soggettività non godono del privilegio dell’autonarrazione.

Ispirata dall’esperienza al Frullone, Mangiacapre progetta e scrive un testo per la performance Siamo tutte prigioniere politiche (1978). Il discorso di Mangiacapre tocca l’argomento della storica segregazione femminile avvenuta tramite la criminalizzazione o la patologizzazione del sapere delle donne o dei comportamenti “devianti” rispetto alla norma imposta alle donne. Riconoscere ciò vuol dire riconoscere che le donne sono state storicamente “emarginate, confinate, espropriate”. Perciò è necessario un femminismo che sia “la nostra creatività è il nostro mondo che emerge e esplode capovolgendo e scoprendo infinite fantastiche imprevedibili dimensioni”.

Le radici

Nel 1972, Lina Mangiacapre scrive la Cenerella o psicofavola di Nemesi. Si ispira, in ciò, al racconto della fiaba di Cenerentola, modificandone il racconto in modo tale da disfarsi della retorica patriarcale di cui è intriso. La Cenerella di Mangiacapre non è succube della matrigna cattiva e delle sorellastre invidiose, bensì di un padre autoritario e due fratelli, di nome Aristotele e Platone, che non perdono occasione per ridicolizzarla. Il principe non la salva dalle grinfie della sua famiglia ma la rinchiude nel castello e nel ruolo di moglie devota e procreatrice. “Ricordati, ricordati…”, è la battuta che dà inizio alla Cenerella di Mangiacapre. La voce narrante è di Donna Memoria, impersonata dalla nemesiaca Claudia Aglione, rappresentante della “dimensione storica e originaria che vigila sulla presa di coscienza” della protagonista, Cenerella. Donna Memoria è personificazione della persistenza della memoria collettiva delle donne, seppure oppressa e addomesticata dalle narrazioni egemoni. Il suo compito è quello di aiutare Cenerella a disfarsi della norma imposta e riportarla a una presunta autenticità femminile ad essa antecedente. In particolare, Donna Memoria sollecita Cenerella a disfarsi del mito dell’amore romantico e venire meno alla colonizzazione sessuale e amorosa subita dalle donne.  Quattro donne vestite di bianco e col volto coperto da una maschera occupano il palco. La scenografia non è distinguibile ma alle loro spalle è appeso un panno bianco.
Durante la prima rappresentazione della Cenerella, a Napoli, l’accesso alla visione dello spettacolo non viene concesso agli uomini. Nelle due rappresentazioni successive, a Milano e Amalfi, le Nemesiache acconsentono a farli entrare in platea solo se accompagnati da una donna che avrebbe funto da garante. Secondo le Nemesiache, infatti, era necessario che le donne si appropriassero dello spazio fisico del teatro per intessere un dialogo multimediale al femminile: Da secoli gli uomini invadono il nostro spazio: noi dobbiamo ritrovarci, parlare tra di noi, smettere di farci concorrenza l’una con l’altra e di rinunciare alla nostra personalità nel tentativo di imitare l’uomo.

L’attenzione per la spettatorialità posta in relazione con l’atto della riscrittura del racconto antico danno luogo a un complesso intreccio tra passato e presente che viene messo in scena dalle Nemesiache in questa forma di “autocoscienza allargata” o partecipata. Il dialogo carico di tensione passato-presente del femminismo nemesiaco risulta ancora più complesso e sfaccettato nel momento in cui si considera il tentativo di radicamento locale napoletano e meridionale attuato dalle Nemesiache. Queste ultime, infatti, provano, anche entrando in conflitto con altri gruppi attivi a Napoli (come il Collettivo femminista napoletano), a rintracciare una specificità del femminismo meridionale e di praticare un’attività politica che risulti comprensibile, in primis, alle donne napoletane. Le Nemesiache si sono pronunciate a più riprese su questo aspetto, criticando anche il lavoro della nota rivista femminista Sottosopra, nata a Milano, sostenendone l’incapacità di raccontare delle problematiche pertinenti al femminismo meridionale.  Non è un caso che il femminismo nemesiaco adotti come propri riferimenti elementi che attingono alla cultura popolare e alla mitologia autoctona. Cenerella, ad esempio, ha come testo di riferimento il racconto così come scritto in Lo cunto de li cunti, una raccolta di fiabe in lingua napoletana di Giambattista Basile. Il corto Le Sibille (1980), invece, è presentato come ”un rituale per aprire il passato” e denunciare quindi le violenze subite dalle sibille, figure mitologiche della civiltà cumana dotate di facoltà profetiche. Le sibille rappresentano nel lavoro delle Nemesiache le donne tutte, silenziate ed espropriate della propria soggettività; i luoghi da loro abitati, devastati e poi abbandonati in preda al degrado più totale. È in un articolo del 1977 pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno che Mangiacapre denuncia la negligenza che segna il ricordo di Cuma, civiltà secondo l’autrice sommersa e dimenticata tanto che nei luoghi magnifici dove si scorgevano “prodigi di vita primitiva che, dalle spore vivificanti sulle scorie arse dei Campi Flegrei, giungeva fino alle più intense manifestazioni di vita vegetale ed animale pullulante nelle gole dei crateri estinti”, oggi si trovano solo “costruzioni in cemento, tracce di vegetazione e, come forma di vita animale, microbi e forme virali”. Mangiacapre auspica una riscoperta e adeguata valorizzazione della civiltà cumana, la quale, per la fondatrice delle Nemesiache, rappresenta il punto nevralgico da cui partire per una comprensione delle sopraffazioni e dell’imperialismo moderni. La riscoperta di Cuma passa per le Nemesiache che ne occupano i luoghi, rendendoli set dei loro film o spazi della performance, e ne rilavorano i miti. Le Nemesiache si impegnano a tutti gli effetti nell’opera di generare un corredo iconografico del femminismo situato a Napoli.

Femminismo, a sud
L’inutile Italsider
Attende eterna
Voci urla un popolo
Guarda irato.

Secondo la nemesiaca Conni Capobianco, il femminismo napoletano, nelle sue molte sfaccettature, è da sempre teso verso due direzioni opposte: l’”altrove” e il “partorire”. L’altrove esprime la tendenza delle donne napoletane a protendersi verso un modello femminista che viene da fuori, dallo standard imposto dal nord; il partorire, di contro, è espressione della propensione, propria ad esempio delle Nemesiache, a formulare un femminismo che orienta il suo sguardo a partire da Napoli. Questa ambivalenza individuata da Capobianco sembra ricollegarsi alla subalternità che struttura i processi di soggettivazione delle persone del meridione italiano tutto. Partendo dalla questione linguistica, passando per l’enorme divario economico e per la disattenzione istituzionale nei confronti del sud, giungendo fino alla discriminazione più marcatamente culturale e alla lunga storia di alterizzazione dei meridionali, il sud Italia si colloca a tutti gli effetti al margine dello Stato italiano e pertanto produce soggetti marginalizzati.

L’immaginario stereotipico sul meridione italiano è ampiamente diffuso ed estremamente nutrito di immagini. Esso presenta le donne meridionali come silenziose e obbedienti, passive e succubi, mogli e madri che vivono totalmente soggiogate dall’uomo meridionale e dalla sua spiccata violenza. Il quadro che viene tratteggiato del sud Italia è quello di una società eccezionalmente patriarcale, retrograda e tradizionalista. Questa retorica è soggetta a introiezione da parte delle meridionali. Pertanto, la lotta femminista a sud deve rispondere alle esigenze di soggetti che si collocano all’intersezione di una duplice alterità: quella femminile e quella meridionale. Il femminismo nemesiaco individua e cerca di rispondere a questa necessità.

Nel 1981, a pochi mesi dal terremoto dell’Irpinia che ha devastato tanta parte del napoletano e dell’avellinese, le Nemesiache si esprimono su Quotidiano donna così: In Italia la resistenza è finita nel dopoguerra, per noi napoletani non si è mai esaurita, non c’è mai stata tregua, resistere, adattarsi, abbarbicarsi al mare, al vicolo, alla casa fatiscente per non morire, per non essere cancellati. Resistenza intorno ad un polo, Napoli, che ancora oggi ha continuato a dare indicazioni di lotte, quale l’assoluta volontà di un diritto ad una qualità di vita umana che non si riduca solo al mito del produrre e del consumo.

La sensibilità meridionale delle Nemesiache rende la città di Napoli materia viva del femminismo. Se pensiamo che anche nel contemporaneo non è semplice individuare un discorso femminista che sia in grado di parlare alle donne del sud Italia, si può riconoscere in che misura il lavoro delle Nemesiache è stato pionieristico in questo senso.

Sono cresciuta in un minuscolo paesino del napoletano. Il femminismo è irrotto nella mia vita dall’alto, ennesimo monito della marginalità della mia provenienza. Riappropriarmi dei suoi strumenti e cucirlo sui luoghi a me familiari (rifiutare l’altrove di Capobianco) ha costituito una parte fondamentale della mia coscienza politica di oggi. Alla ricerca di un senso di autenticità ho provato a partire dalla concretezza dei referenti più prossimi alla mia esperienza di vita vissuta, i legami essenziali, la tangibilità delle radici, di ciò che riconosco come familiare. Quando ho intrapreso tale percorso, il mio incontro fortuito con le Nemesiache doveva ancora avvenire. Ho proceduto a tentoni, riflettendo da sola e con altre su come articolare un posizionamento femminista e meridionale. Non sapevo che dietro l’angolo c’era il Belvedere Lina Mangiacapre, e tutta la storia che porta con sé, con la cassetta degli attrezzi che, seppur non contenendo tutte le risposte, mi e ci offre le coordinate per muoverci su questo terreno scivoloso, per affermare con convinzione che “tutti i fiumi arrivano al mare della ribellione”.

Vera Sibilio ha conseguito un Master in Studi e Politiche di Genere all’Università Roma Tre dove ha presentato una tesi sugli archivi del neofemminismo italiano con un affondo sulle Nemesiache e Rivolta femminile. Ha lavorato come traduttrice per un progetto sul femminismo italiano degli anni Settanta e come assistente di ricerca per un lavoro sulla fotografia come strumento decoloniale.  Si interessa al femminismo radicale, alla storia dei femminismi e alla teoria e pratica postcoloniale. È @verasibilio su Instagram, dove co-cura il progetto @iconografiecarlalonzi, ora anche su WordPress.

Paola Guazzo

 

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