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Violenze in carcere: Modena, per la gip “servono altre indagini”

Riprendiamo da osservatoriodiritti.it l’articolo di Lorenza Pleuteri – La giudice di Modena si oppone all’archiviazione e dispone sei mesi di proroga dell’inchiesta su violenze e pestaggi denunciati da un gruppo di detenuti coinvolti nella sommossa del marzo 2020, quando tra il carcere Sant’Anna di Modena e il resto d’Italia si contarono 13 reclusi morti, decine di feriti tra reclusi e agenti, milioni di danni

«Violenze gratuite, botte e manganellate a freddo, umiliazioni, angherie mentre erano inoffensivi e inermi». La procura di Modena non ritiene fondati i drammatici racconti ripetuti dai detenuti via via usciti allo scoperto dopo la sommossa, considerati imprecisi, inattendibili e incoerenti.

La gip Carolina Clò, però, non si accontenta delle conclusioni innocentiste delle indagini condotte contro 120 baschi azzurri, come se nulla di perseguibile fosse successo, come se i carcerati mentissero tutti e la polizia penitenziaria non avesse superato alcun limite

Disposti altri sei mesi di indagini per i fatti di Modena

La giudice per le indagini preliminari, dando i canonici sei mesi di tempo, impone di andare avanti, approfondire, verificare gli aspetti insondati. Perché, su questo non ci sono dubbi, gli operatori in divisa usarono la forza per riprendere possesso del campo sportivo e per gestire le fasi tra la fine della rivolta e il trasferimento di centinaia detenuti e detenute.
Per ore avevano perso il controllo dell’istituto, messo a ferro e fuoco, saccheggiato, violato con tentativi di evasone, depredato di metadone e farmaci, gli estintori i e gli attrezzi da lavoro usati come arieti e come armi. Un inferno, riassumono i testimoni.
Alla fine tra la casa circondariale emiliana e i penitenziari di destinazione si contarono 9 cadaveri, poi attribuiti a overdosi da una inchiesta arenata nelle secche dell’archiviazione.

Violenze in carcere: domande senza risposta

I querelanti Hamza., Mattia, Derek, Pietro, Saif e compagni furono deliberatamente picchiati e torturati dai poliziotti penitenziari, andati oltre l’uso legittimo della forza? Oppure agenti e graduati reagirono con le maniere forti “solo” per difendersi, evitare fughe, mettere in sicurezza il carcere?
Qualcuno passò il segno, per lo smacco subito per la sommossa, per ritorsione, per uno smacco duro da digerire? E chi mente e chi dice la verità, tra custodi e custoditi?

Il gip nega l’archiviazione di massa per le violenze nel carcere di Modena

Il 23 giugno 2023, con una ricostruzione di 245 pagine non priva di smagliature e lacune, le pm Lucia De Santis e Francesca Graziano hanno chiesto al gip di archiviare in toto l’inchiesta avviata contro 120 donne e uomini della polizia penitenziaria, dal comandante Mauro Pellegrino ai rinforzi mandati da altre città.
I legali dei detenuti, del loro garante nazionale e di Antigone, complessivamente 20 persone offese, si sono opposti. E la giudice Carolina Clò, il 9 agosto 2024, ha deciso di non chiudere il fascicolo, «non fosse altro – spiega – che per addivenire a un quadro completo dell’intera vicenda».

Escono di scena 22 agenti su 120

La gip ha archiviato unicamente le posizioni dei 22 poliziotti non in servizio nei turni sotto esame e ha disposto la proroga degli accertamenti per 98 colleghi. Sono in maggioranza giovani e giovanissimi, con cognomi e storie del Sud, salta agli occhi scorrendo le carte.
In carcere uno veniva chiamato Rambo, un altro Van Damme. Tra i denuncianti, definiti da un agente «non angioletti», si alternano italiani e stranieri. Alcuni, se non tutti, furono a loro volta indagati per i saccheggi, le devastazioni e le aggressioni al personale. Del fascicolo si sono perse le tracce.

Uso legittimo della forza o torture?

La procura sostiene che le lesioni subite dai detenuti siano riconducibili ad un uso legittimo della forza da parte della polpenitenziaria, per contenimento, oppure siano state provocate da comportamenti tenuti dagli stessi rivoltosi, incidenti o scontri tra fazioni. E qui sta il punto, il discrimine.
La giudice Clò osserva che ferite, traumi e fratture potrebbero essere associabili alle angherie denunciate in più riprese da un gruppo di reclusi, seppur con incongruenze e imprecisioni.
Quattro sono i fronti da scandagliare con sei mesi di investigazioni supplementari: i sistemi di videosorveglianza, l’incontro e gli accordi tra tre indagati prima della convocazione in questura, l’edulcorazione di una relazione di servizio, la documentazione sanitaria.

Telecamere funzionanti e telecamere fantasma

Le riprese delle telecamere hanno fatto la differenza nell’inchiesta gemella sulle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, documentando soprusi e vessazioni. Nel campo sportivo di Modena e in altri spazi in cui sarebbero avvenute le violenze, come la caserma, non c’erano sistemi di videosorveglianza o quelli esistenti erano fermi da tempo.
Non è dato sapere se funzionassero o meno le telecamere di sicurezza collocate in cortili, atri di piano e corridoi di collegamento tra padiglioni, teatro degli abusi riferiti dai detenuti feriti. Il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria non è stato in grado di riferirlo agli investigatori e non si è preoccupato di acquisire notizie sul punto dalla direzione del carcere.  Manca questa informazione, in migliaia di carte, e mancano immagini “contro”, C’è inoltre un buco di un paio d’ore, dovuto al black out provocato dai rivoltosi.
Nei faldoni dell’inchiesta si trovano invece fotogrammi “pro” agenti, immagini che smentiscono una denuncia e ne contestualizzano altre, escludendo eccessi.

Risposte e dichiarazioni concordate a tavolino?

Almeno tre degli indagati, sottoposti a settimane di intercettazioni telefoniche, sembrano accordarsi per vedersi prima di andare in questura ed essere interrogati. Concordano le versioni da dare? Che altro?

Ai quesiti che sorgono dai rilievi della gip se ne aggiungono altri, derivanti dalla lettura degli atti. Sembra verosimile che dal cellulare del comandante Pellegrino, quello messo sotto controllo in un periodo di ferie, siano passate 66 conversazione e solo due di queste riguardassero i fatti della rivolta? Per un subalterno, uno del terzetto di chiacchieroni citati dalla gip, in un mese ne sono state contate 600.

La prima relazione di servizio

La gip indirizza l’attenzione su una relazione di servizio modificata qualche giorno dopo la prima stesura. La vice ispettrice L.P., non indagata in questa inchiesta, nel rapporto interno datato 26 marzo 2020 scrive: «I detenuti presentavano tutti i quanti i segni fisici dovuti all’intervento della polizia penitenziaria e di altre forze dell’ordine durante la sedazione della rivolta».

Carabinieri e polizia di Stato, da lei tirati in ballo, non sono stati coinvolti in questo o altri filoni d’inchiesta. La Scientifica ha effettuato riprese e rilievi. La squadra Mobile è entrata in campo per le indagini.

Il 6 aprile 2020 la stessa vice ispettrice compila un’integrazione della prima relazione di servizio: «I segni fisici indicati dalla scrivente – annota – si volevano riferire ad uno status generale derivante verosimilmente dalle azioni di rivolta poste in essere poco prima da parte della popolazione detenuta».

Violenze in carcere: chi fece integrare il rapporto?

La precisazione che suona pro colleghi, rileva la giudice Clò, non è spontanea.  Al contrario, si legge nel diniego all’archiviazione di massa, «è stata redatta su specifica richiesta del personale della casa circondariale di Modena».
La vice ispettrice dice di non ricordarsi il nome del suggeritore, che le contesta di aver scritto troppo. La procura lo indica come “tale Franco”, segno che non lo ha identificato.
Da un’intercettazione, evidenziata dalla gip, emerge anche un ulteriore passaggio rimasto sullo sfondo delle indagini e degno di maggior interesse. La vice ispettrice, mentre alcuni detenuti da trasferire passavano tra un cordone di colleghi, percepì che qualcuno dei suoi voleva alzare le mani. Ammonì di non farlo, di non toccarli. E si arrabbiò con due sottoposti.

Cartelle cliniche da acquisire

Da fare meglio sono pure gli accertamenti sulle lesioni denunciate dai detenuti, fin qui correlate ad azioni di forza legittime della polizia penitenziaria, a ferimenti accidentali durante la rivolta o a colluttazioni tra relcusi. Astrattamente, rimarca la gip, potrebbero essere compatibili con le denunce. Sicuramente, parole sue, «meritano ulteriore approfondimento».
Per questo, dispone la giudice, vanno acquisite le cartelle cliniche di tutti i detenuti sfollati dal carcere di Modena a fine disordini (417, contando anche i 4 morti durante e dopo il viaggio, su 546 ristretti) e sentire a verbale il medico che le ha compilate (si parla al singolare, ma alla partenza e alle destinazioni finali erano presenti più camici bianchi).
Non è stato fatto in tutti questi mesi? Possibile? Eppure si tratta di atti necessari per verificare le condizioni psicofisiche dei trasferiti e stabilire se eventuali contusioni o fratture siano state causate da atti illeciti.

Prefetto e dirigenti da risentire

L’elenco minimo delle persone da sentire o risentire, sempre su indicazione della gip Clò, include anche la direttrice di allora del carcere e la collega al timone prima di lei (Maria Martone e Federica Dallari, da interrogare sulla dislocazione e l’efficienza delle telecamere), il magistrato di sorveglianza di turno l’8 marzo e il prefetto, Pierluigi Faloni. Il giorno della rivolta era all’istituto, secondo agenzie e giornali per coordinare gli interventi d’emergenza.
Dopo la sommossa, dopo i nove morti e le denunce delle torture, è rimasto dietro le quinte. A Modena ha mantenuto l’incarico solo per pochi altri mesi. Il comandate Pellegrino, l’indagato numero 92, di recente ha avuto quella che nell’ambiente è considerata una promozione: il passaggio al carcere di Parma.

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