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Unire scienza storica e cittadinanza critica contro le vulgate falso-propagandistiche

di Alberto
Deambrogio

Intervista a Davide Conti di Alberto Deambrogio

Davide Conti, storico, è consulente della Procura di Bologna (inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980), già consulente della Procura di Brescia (inchiesta sulla strage del 28 maggio 1974) e già consulente dell’Archivio Storico del Senato della Repubblica. È inoltre autore della ricerca sulla Guerra di Liberazione a Roma 1943-1944 che ha determinato il conferimento della Medaglia d’oro al Valor Militare alla città di Roma da parte del Presidente della Repubblica. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra (Odradek 2011); L’anima nera della Repubblica. Storia del Movimento Sociale Italiano (Laterza 2013); Guerriglia partigiana a Roma. Gap comunisti, Gap socialisti e Sac azioniste nella Capitale 1943-1944 (Odradek 2016); La Resistenza di Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini dai Gap alle Missioni Alleate (Edizioni Senato della Repubblica 2016); Gli uomini di Mussolini. Prefetti, questori e criminali di guerra dal fascismo alla Repubblica italiana (Einaudi 2017 e 2018); Fascismo, Antifascismo e continuità dello Stato. Storia del generale Mario Roatta (Anppia 2018); L’Italia di Piazza Fontana. Alle origini della crisi repubblicana (Einaudi 2020).

Il suo ultimo libro si intitola Sull’uso pubblico della storia edito, nel gennaio 2022, da Forum Editrice di Udine.

Alberto Deambrogio: Le dichiarazioni della politica intorno all’ultimo “Giorno del ricordo” sono state, una volta di più, impressionanti. La mancata assunzione di responsabilità per i crimini del nazionalismo italiano prima e del fascismo poi nell’area balcanica è stato il tratto omogeneizzante a prescindere dallo schieramento. Tu stesso ti sei sentito in obbligo di scrivere un pezzo su il Manifesto in cui, ricordando i terribili fatti storici dimenticati dai politici e dalla quasi totalità dei media, hai chiesto scusa ai “cari amici della ex Jugoslavia”. Ecco, incominciamo da qui, cosa pensano questi “cari amici”, le loro istituzioni, i loro storici, le loro associazioni legate al mondo partigiano di quel che succede da noi ogni 10 febbraio?

Davide Conti: L’istituzione del Giorno del Ricordo in Italia ha determinato, nel corso degli anni, tensioni e conflitti istituzionali. La stessa sua genesi (nella forma che assunse) ha rappresentato una frattura rispetto al percorso storico-scientifico che la Slovenia e l’Italia avevano avviato negli anni precedenti. Dal 1993 al 2001 i governi di Roma e Lubiana avevano costituito una commissione composta da 14 storici (7 sloveni e 7 italiani) con il compito di redigere una relazione che dalla metà dell’800 al 1945 ricostruisse complessivamente tutte le vicende attraversate dai due paesi lungo le terre di confine. Vi sono riportate le questioni più rilevanti attinenti la Prima e la Seconda guerra mondiale; l’occupazione fascista della Jugoslavia nel 1941; i crimini di guerra italiani perpetrati in quelle terre; le foibe, il Trattato di Pace di Parigi del 10 febbraio 1947 e l’esodo istriano-dalmata. La storia veniva ricostruita nel suo complesso, nelle sue drammaticità e contraddizioni. E restituiva l’insieme ed il senso degli eventi. Il governo sloveno approvò e pubblicò quel documento in via ufficiale mentre i diversi governi italiani (Berlusconi e Prodi) no. Tre anni dopo il nostro Parlamento votò a larghissima maggioranza (tranne i gruppi parlamentari di Rifondazione comunista e dei Comunisti italiani) l’istituzione del Giorno del Ricordo così come lo conosciamo. Fin da subito ogni intervento delle nostre figure istituzionali apicali, dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio fino a ministri e deputati, venne incentrato sul racconto di presunte «pulizie etniche anti-italiane» che in realtà non si verificarono, come spiega vanamente da anni tutta la comunità scientifica degli storici. Questa narrazione vittimistica italiana determinò conflitti e scontri diplomatici con i Presidenti della Croazia e della Slovenia. Il più duro fu quello che contrappose nel 2007 il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’allora premier croato Stipe Mesic.

Sostanzialmente l’elemento di contraddizione che emerge da questa lettura unidimensionale e italocentrica è il rovesciamento dei ruoli storici. L’Italia da aggressore fascista della Seconda guerra mondiale diventa aggredito e viceversa la Jugoslavia partigiana viene rappresentata come invasore ed usurpatore della «italianità» di quelle terre.

Nel corso del tempo una politica diplomatica di riavvicinamento ha consentito celebrazioni congiunte (sia presso il monumento alle foibe sia presso il monumento alle vittime jugoslave del fascismo) e nel 2020 la restituzione della Narodni Dom (Casa del Popolo) di Trieste alla minoranza slovena della città, 100 anni dopo l’assalto degli squadristi fascisti del luglio 1920 che la incendiarono.

A.D.: Quest’anno il topos dell’equiparazione delle foibe con l’Olocausto ha conosciuto un salto di qualità con l’ormai famigerata circolare del Ministero dell’Istruzione. A quello stadio diventa davvero difficile pensare alla svista, goffamente chiamata in causa per tacitare la polemica. Che pensi di questo innalzamento di livello nell’uso politico, o meglio, a questo punto, pienamente istituzionale, di quella vicenda?

D.C.: La circolare del Ministero dell’Istruzione purtroppo esprime da un lato una profonda e pericolosa ignoranza della storia e dall’altro una altrettanto inquietante deriva strumentale della lettura del passato. L’associazione foibe-Shoah ed il tentativo di equiparazione si era già verificato nel giugno del 2020 quando i senatori dell’estrema destra parlamentare presentarono un disegno di legge finalizzato alla parificazione di due eventi completamente diversi e in nessun modo associabili. Al di là del grezzo obbiettivo di una «rivincita memoriale» sotteso all’azione dei parlamentari di Fratelli d’Italia (che senz’altro nella prossima legislatura riproveranno la stessa azione) ciò che lascia stupefatti della circolare del Ministero è il tentativo di negare l’unicità della Shoah e assimilare (sotto l’egida della falsificazione scientifica), tutte le vittime; tutti gli eventi; tutti i contesti; tutti i soggetti storici in un’unica e indeterminata forma narrativa in cui diventano omologabili vittime e carnefici; aggrediti e aggressori; fascisti e antifascisti; comunisti e nazisti.

Questa misura del racconto del passato è ormai da anni la cifra della retorica celebrativa istituzionale. Non solo italiana ma anche europea, basti pensare alla risoluzione del 19 settembre 2019 adottata dal Parlamento di Bruxelles che equipara nazismo e comunismo nella storia del ‘900. Ovvero assimila le truppe di aggressione della Wehrmacht con quelle della liberazione dell’Armata Rossa. In sostanza si sostiene che se a Stalingrado avessero vinto i nazisti la storia d’Europa e del mondo sarebbe stata la stessa. Un’assurdità.

A.D.: Il lavorio ormai quasi trentennale per determinare una nuova egemonia sull’uso pubblico della memoria dà oggi i suoi risultati più evidenti e perversi. Anche chi è stato indulgente verso il revisionismo, pensando di ridefinire per quella via la propria identità politica dopo l’’89, ne è oggi in balia. Da storico cosa pensi di questa indifferenza per la storia come scienza, in modo particolare sul versante politico? Qual è la tua valutazione sulle condizioni materiali dei luoghi in cui la storia si insegna, si studia e si tramanda? E ancora: è solo attraverso la riproposizione puntuale, storicamente sorvegliata, della complessità dei fatti che si può determinare una inversione di tendenza?

D.C.: La scienza storica, in quanto tale, viene continuamente sottoposta a verifiche e revisioni attraverso una metodologia ed un’ontologia proprie della disciplina. Quello cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni invece è stato un revisionismo pubblicistico e strumentale che non ha avuto nulla di scientifico. Il suo carattere deleterio ha finito per erodere non solo il senso della storia ma soprattutto i fondamenti della nostra Repubblica costituzionale e antifascista.

Sul piano della politica, la strumentalizzazione e l’uso pubblico della storia successivi alla fine della Guerra Fredda hanno rappresentato il tentativo di ridisegnare profili di legittimità tanto della sinistra (esclusa dall’accesso al governo del Paese in ragione della divisione bipolare del mondo e del suo legame con l’Urss) quanto dell’estrema destra (esclusa in ragione delle sue radici fasciste).

Il più evidente episodio di questa interpretazione regressiva e strumentale è stato senz’altro il discorso di insediamento di Luciano Violante alla presidenza della Camera, quando sostenne la necessità di comprendere le “ragioni” dei cosiddetti “ragazzi di Salò” ovvero dei fascisti irriducibili che scatenarono la guerra civile in Italia e commisero tanti e tali crimini di guerra che fu necessaria l’amnistia De Gasperi-Togliatti per evitare a migliaia di loro il carcere.

L’evidente stato di difficoltà, per non dire di crisi, in cui versano scuole, università e istituti di ricerca (tutte e tre sottofinanziati e non investiti della centralità strategica che dovrebbero avere in una democrazia compiuta) è il segno di come nonostante di storia si parli continuamente nei mass media, la trasmissione del sapere storico sia considerato un elemento laterale o addirittura di disturbo. Il compito degli storici e della cittadinanza critica e consapevole, senza la quale è impossibile pensare ad una inversione di tendenza, è quello di misurarsi in campo aperto e senza timori con vulgate falso-propagandistiche e formule pubblicistico-semplicistiche che mirano alla costruzione di un «senso comune» che sostituisca la conoscenza e le fondamenta del rapporto tra passato e presente che, invece, restano la base del nostro patto costituzionale.

A.D.: Lo snodo resistenziale, la vicenda delle foibe sono due punti di attacco per chi vuole ridefinire una nuova narrazione pubblica. In realtà prima di arrivare lì, quindi prima di arrivare alla base fondante della nostra Carta costituzionale, molti si sono esercitati in un tentativo di distorsione/cancellazione della memoria lungo alcuni tornanti salienti del movimento operaio e di trasformazione sociale nel nostro Paese. Il ’77 cattivo e violento contrapposto al ’68 creativo, quest’ultimo poi ridotto ai suoi aspetti di ribellismo generazionale, con il ’69 operaio totalmente obliterato… È possibile trovare un qualche filo conduttore tra queste operazioni non immediatamente sovrapponibili? Si può, cioè, evincere una logica in grado di sottenderle tutte?

D.C.: La strumentalizzazione e la criminalizzazione di fasi storiche ed eventi del passato rispondono alla finalità di governo del presente. Delegittimare il decennio ’68-‘78 dei movimenti e delle lotte sociali in Italia mirava da un lato a sottrarre alle classi subalterne gli spazi, le conquiste e i diritti sociali e civili ottenuti con lotte e mobilitazioni e dall’altro a cancellare le responsabilità dello Stato di fronte al fenomeno dello stragismo con i massacri che vanno da Piazza Fontana alla stazione di Bologna. Delegittimare la Resistenza tramite vulgate antipartigiane mirava a mutare e stravolgere la Costituzione repubblicana tagliandone la radice fondativa. Entrambe le operazioni sono in larga parte riuscite. E questo deve rappresentare un monito per il futuro.

A.D.: So che stai lavorando, tra altre cose, a un nuovo testo a partire dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa. Ci puoi anticipare qui almeno le ragioni di fondo che ti hanno spinto a lavorare su questo nodo tematico?

D.C.: Il titolo del libro, che uscirà per i tipi ANPPIA nel mese di marzo 2022, è “L’anima nera d’Europa. Populismo storico ed estrema destra nella crisi dell’Unione Europea”. Muove dall’analisi della Risoluzione europea del 19 settembre 2019 che equipara comunismo e nazismo e ricostruisce culture ed ideologie europee alla base di tale assurda parificazione. La ricerca analizza il ruolo dell’estrema destra europea, in particolare in Ungheria e Polonia, il suo rapporto con i governi “moderati” della UE e soprattutto con le grandi industrie ed il grande capitale tedesco e non solo. Ne emerge un rapporto molto più organico di quanto sembri e, a mio giudizio, spiega come e perché governi postfascisti come quelli di Budapest o Varsavia abbiano potuto prosperare ed alimentare istanze antidemocratiche che oggi sono presenti in tutti i paesi del continente.


Intervista pubblicata anche da Lavoro e Salute

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