Potrebbe essere un buon modo per uscire in avanti dal dibattito sull’abbattimento delle statue e per fare i conti con quello a cui questo allude
Intorno all’abbattimento di alcune statue durante le manifestazioni seguite all’omicidio di George Floyd si è sviluppato un dibattito che ha riproposto un confronto tra “iconoclasti” e “conservazionisti” già più volte visto in passato. Non è la prima volta infatti che monumenti simbolo del colonialismo sono presi di mira. Da anni attivisti anticolonialisti chiedono la rimozione delle statue di Leopoldo II (comunque tutte abbattute in Congo, insieme a quelle dell’esploratore Stanley, all’indomani dell’indipendenza) e nativi americani di quelle di Cristoforo Colombo, per restare solo ai personaggi più noti. Alcune città sia in Europa che negli stati Uniti hanno anche cominciato a rimuoverle.
La discussione in sé è poco interessante. Sia l’abbattimento che la costruzione dei monumenti sono atti simbolici che assumono significato nel momento e nel contesto in cui avvengono. Ha quindi poco senso una discussione generica.
L’occasione dovrebbe essere colta invece per indagare su quello che questi atti vogliono significare o ricordare. Perché l’uccisione di un nero a Minneapolis porta all’abbattimento di un statua di Cristoforo Colombo da parte di un gruppo di nativi americani? Cosa lega queste due cose? E perché desta tutto questo scalpore?
La difficoltà ad accettare questo episodio svela quanto la cultura razzista, o se si preferisce la presunzione di superiorità dell’Occidente, sia profondamente inserita nella cultura europea e il fatto che l’Europa non abbia ancora fatto i conti con il colonialismo, frettolosamente archiviato come una cosa del passato.
Il razzismo viene oggi presentato come una deviazione della cultura europea, che sarebbe invece per sua natura tollerante, ed il colonialismo come una parentesi nella sua storia. Ci sono invece abbondanti indizi che indicano come il razzismo sia un pensiero fondante dell’idea stessa di Occidente e sia stata una ideologia funzionale all’espansione coloniale e quindi al suo decollo economico. Il razzismo forse è così duro a morire perché senza il razzismo noi non saremmo esistiti.
Senza andare indietro fino alle crociate, certamente a partire dall’occupazione del continente americano la politica espansionista europea è stata descritta come missione civilizzatrice. Tali erano anche le missioni commerciali delle varie compagnie delle indie in Asia. Tale la premessa della conferenza di Berlino del 1884, convocata proprio da Leopoldo II per la spartizione delle terre d’Africa. Anche i protettorati e gli stati fantoccio imposti sui territori dell’ex impero Ottomano, piuttosto che la resistenza all’indipendenza dell’India, sono stati giustificati dal fatto che le popolazioni “non erano mature”. E perfino le guerre dell’oppio, con la quale le potenze europee, guidate dalla Gran Bretagna, scardinarono l’accesso al mercato interno cinese erano ammantate da civilizzazione. Per non parlare della tratta degli schiavi, nella quale la presunzione di inferiorità è premessa per trasformare le persone in merce, o dell’occupazione della Palestina.
Alla fine del secondo conflitto mondiale l’86% di tutte le terre emerse erano sottomesse all’uomo europeo. E non c’è bisogno di ricordare che questa civilizzazione è costata milioni di morti, massacri e genocidi. I massacri di Amritsar, Adis Abeba, Setif, il genocidio degli Herero o dei nativi americani, lo sterminio degli abitanti del Congo sono solo alcuni dei numerosissimi episodi che la storiografia ufficiale ha nascosto o tentato di fare. Ogni statua abbattuta in questo periodo racconta di più di uno di questi crimini.
Il colonialismo non è stato quindi una parentesi, ma è coinciso con la formazione dell’Europa e dell’Occidente capitalistico. La subordinazione delle popolazioni non europee e la loro distruzione è stata, per 500 anni, la modalità principale di relazione con l’altro dell’Europa e della sua appendice americana: la ricchezza europea è stata fondata sul sangue e giustificata da una pretesa di superiorità, a volte condivisa da tutte le classi sociali. Nell’800 anche parte dei movimenti socialisti furono favorevoli alle imprese coloniali.
Lo stesso compromesso sociale che ha dato luogo alla nascita del welfare state europeo non sarebbe forse stato possibile senza il “dividendo coloniale” che veniva dalla permanenza dello scambio ineguale tra i paesi del nord e del sud anche dopo la fine formale del colonialismo.
E non si è trattato solo della distribuzione di ricchezze economiche ma anche delle risorse naturali e dei servizi ambientali. Le economie dell’Europa e del Nordamerica sono responsabili di oltre la metà di tutti i gas serra immessi in atmosfera con una popolazione di appena un settimo del pianeta. IL consumo energetico di un cittadino statunitense è 17 volte superiore a quello di un abitante dell’Africa, mentre un tedesco introduce nell’ambiente 4 volte più plastica di un abitante della pur ormai sviluppata Cina.
Quindi il nesso da indagare non è quello, fin troppo scontato, tra razzismo e colonialismo, ma tra razzismo e ricchezza europea. Riconoscere questo nesso non serve a fare la morale alla storia, ma a riconoscere l’esistenza di un debito e a tenerne conto, ad esempio, nei trattati commerciali o nelle politiche sulle migrazioni. Questo riconoscimento porterebbe forse ad abbattere o a ricontestualizzare molte statue, o forse no, ma non sarebbe importante.
Ma dato che gli atti simbolici contano, altrimenti non ci sarebbe stata né la costruzione delle statue, né il loro abbattimento e nemmeno la discussione in merito, un buon modo per cominciare a fare i conti davvero con il razzismo sarebbe laistituzione di una giornata in ricordo delle vittime del colonialismo europeo. Una giornata che sarebbe occasione per cominciare a conoscere e poi a prendere coscienza e ad introdurre nel discorso pubblico un pezzo di storia che manca.
P.S. Nel 2006 un gruppo di deputati comunisti proposero di dedicare al ricordo delle vittime del colonialismo italiano il 19 febbraio, anniversario della strage di Adis Abeba. Altra proposta fu avanzata dallo storico del colonialismo, Angelo Del Boca, per il 3 ottobre, giorno dello sbarco italiano a Tripoli nel 1919. Questa seconda data avrebbe il pregio di coincidere con il naufragio del 2013 di migranti a Lampedusa. Ricordando così nello stesso giorno cause ed effetti.
Articolo già pubblicato sul periodico Sinistra sindacale, ripreso qui con l’autorizzazione dell’autore.