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Un Tribunale che fa paura alla politica

di Paola
Caridi

L’articolo è ripreso dall’articolo “Quando un tribunale (internazionale) fa paura alla politica” pubblicato sul blog invisiblearabs

L’indagine del Tribunale Penale Internazionale sulla cosiddetta “situazione in Palestina” (così viene formalmente chiamata nei documenti del TPI) non è ancora iniziata. Per farlo, la procuratrice ancora in carica fino a giugno, Fatou Bensouda, dovrà mandare una lettera ufficiale al governo israeliano. Eppure, è già cominciato il durissimo scontro sull’ipotesi che il TPI indaghi su possibili crimini di guerra commessi nell’operazione israeliana su Gaza a fare inizio dal 13 giugno 2014, chiamata Margine Protettivo. Indaghi sulle forze armate israeliane e su Hamas.

Il fuoco verbale di sbarramento, per bloccare un’indagine non ancora iniziata, è pesante. Il premier israeliano Bibi Netanyahu, alla vigilia delle ennesime elezioni politiche, non usa mezzi termini verso il Tribunale Penale Internazionale. “Quando il TPI indaga Israele per falsi crimini di guerra, si tratta di puro antisemitismo”, dice in un video in inglese fatto uscire dal suo ufficio.

Il tono durissimo e senza sconti di Netanyahu nasconde una evidente preoccupazione da parte sia del governo israeliano sia dei vertici militari. Perché l’apertura dell’indagine sulla “situazione in Palestina” complica non poco i piani di normalizzazione che Tel Aviv, soprattutto durante la presidenza di Donald Trump negli Usa, stava consolidando attraverso gli accordi di Abramo e la costruzione di buone, se non ottime, relazioni con i regimi del Golfo, il Sudan e il Marocco.

Le decisioni del TPI, dalla fine del 2019 e poi con l’accelerazione dell’ultimo mese, sono il classico granello nell’ancor più classico ingranaggio.

Il Tpi è, in una parola, ingombrante. Per un certo tipo di politica, il Tribunale Penale Internazionale è un oggetto decisamente ingombrante. D’altro canto, è nel suo mandato: segue logiche altre, slegate dai consolidati equilibri politici tra Stati, regimi, attori economici e finanziari.

Il Tribunale Penale, nato dall’accordo sullo Statuto di Roma del 1998, non è soprattutto realista, il che – per quanto concerne alcuni quadranti internazionali – può essere percepito come una iattura. Può rompere le uova nel paniere, nel caso di una delicata mediazione diplomatica. Oppure può scoprire la polvere sotto il proverbiale tappeto, costringendo la politica internazionale, o comunque le potenze in gioco in questi ultimi anni, a tener conto di quello che è successo sul terreno in alcuni dossier specifici. Se quello che è successo sul terreno si configura come un crimine. Crimine di guerra. Crimine contro l’umanità. Una violazione che ha rilevanza penale.

La giustizia non deve fare politica. Non deve, soprattutto, disturbare la politica, quando la politica si occupa di alcune parti del mondo. Se invece, com’è successo negli scorsi anni, il Tribunale Penale Internazionale concentra buona parte del suo operato e della sua attenzione sulle guerre e i crimini nel continente africano, beh, allora lo sguardo politico può non poggiarsi sulla corte dell’Aja.

Su quattordici indagini in corso, nove riguardano individui accusati di aver commesso crimini in Stati africani: dalla Repubblica Democratica del Congo al Burundi, Sudan, Costa d’Avorio, Repubblica Centrafricana (due indagini), Libia, Mali, Uganda. Poi, fuori dal continente africano, c’è la Georgia, il Bangladesh-Myanmar per quanto è successo nella regione del Rakhine. E c’è l’Afghanistan. E c’è, infine, la Palestina, il 194esimo Stato dell’Onu, che nel 2015 ha aderito allo Statuto di Roma e alla Corte Penale Internazionale.

Quando Mahmoud Abbas, presidente dello Stato di Palestina, aveva firmato sei anni fa l’adesione al TPI, il gesto era apparso a molti velleitario, ad altrettanti come l’ennesima affermazione formale dell’esistenza di uno Stato – la Palestina, appunto – presente nell’elenco delle Nazioni Unite, ma non esistente sul terreno come uno Stato compiuto. Perché alla Palestina mancano confini certi, amministrazione del territorio, monopolio della forza. È un pezzo di terra ancora occupato, frammentato, separato.

Quella firma, però, aveva anche messo in allerta molti, soprattutto tra i vertici politici e militari israeliani. La memoria dei morti e delle distruzioni dell’Operazione Margine Protettivo era ancora vivissima. Bastano oggi, a ricordarlo, i numeri indicati nel rapporto indipendente delle Nazioni Unite redatto e reso pubblico proprio nel 2015 da una commissione presieduta dalla giudice Mary McGowan Davis. “Le ostilità del 2014 – dice il comunicato stampa finale della commissione – ha visto un enorme aumento della potenza di fuoco usata a Gaza, con più di seimila bombardamenti aerei da parte di Israele e circa 50mila colpi di artiglieria o lanciati dai carrarmati. Nei 51 giorni dell’operazione, 1462 civili palestinesi sono stati uccisi, un terzo dei quali bambini. I gruppi armati palestinesi hanno lanciato 4881 razzi e 1753 colpi di mortaio verso Israele nei mesi di luglio e agosto 2014, uccidendo sei civili e ferendone almeno 1600”.

Il Tribunale Penale Internazionale si occuperà proprio di questo. Ma non solo. Si occuperà degli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania, le colonie. I giudici dell’Aja hanno già deciso, a maggioranza, che la Corte si può occupare dei crimini commessi in Palestina (compreso dunque Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est) e l’ufficio del procuratore potrà iniziare le indagini. Anche se gli Stati Uniti hanno espresso la loro contrarietà verso la decisione presa dal Tpi. Non solo con Trump, che aveva addirittura vietato l’ingresso negli USA alla procuratrice Fatou Bensouda, ma anche con la nuova presidenza di Joe Biden.

La vicepresidente Kamala Harris ha telefonato a Bibi Netanyahu per rassicurarlo sul sostegno americano a Israele. Il neo-segretario di Stato, Antony J. Blinken, è stato altrettanto netto nella sua dichiarazione. “Gli Stati Uniti si oppongono con fermezza e sono profondamente delusi da questa decisione”, ha detto Blinken il 3 marzo scorso. “Il Tpi non ha giurisdizione su questa materia. Israele non è uno Stato membro del Tpi e non ha dato il suo consenso alla giurisdizione della Corte: siamo seriamente preoccupati riguardo al tentativo del Tribunale di esercitare la sua giurisdizione sul personale [militare] israeliano. I palestinesi non possono qualificarsi come uno Stato sovrano e quindi non hanno i requisiti per essere riconosciuti come uno Stato membro, partecipare come uno Stato o delegare la giurisdizione al Tribunale Penale Internazionale”.

Stati Uniti e Israele, che non hanno voluto far parte dei paesi (123) che sostengono e riconoscono la giurisdizione del Tpi, non vogliono essere indagati e giudicati dalla Corte. Sarebbe d’altro canto un problema serio, per il personale militare che ha partecipato alle (numerose) guerre in cui i due Paesi sono stati coinvolti. La questione, però, non si risolve con il fatto di non essere Stati membri di un organismo indipendente come il Tpi che, peraltro,  è formalmente indipendente dall’Onu. La questione riguarda il fondamento e la necessità della giustizia penale internazionale dopo il processo di Norimberga, sui cui vulnus (per esempio rispetto dei diritti della difesa e pena di morte) i giuristi sono concordi.

Questo è il nodo di fondo. La responsabilità degli individui che commettono crimini contro l’umanità e crimini di guerra in un mondo che è regolato dalle convenzioni internazionali firmate dopo la (e a causa della) seconda guerra mondiale. Un nodo che è stato affrontato in terra d’Europa negli anni Novanta, con quella che ha rappresentato una decisione-cardine per la giustizia penale internazionale. La creazione dei Tribunali ad hoc, in primis quello chiamato a indagare e giudicare i responsabili dei crimini commessi nei territori della ex Jugoslavia, seguito poi dalla corte ad hoc sul genocidio del 1994 in Ruanda. Una nascita di cui è stato padre il mai dimenticato Antonio Cassese, che ha dato dignità alla giustizia penale internazionale indicando la via: il rispetto totale dei diritti della difesa, l’assenza del processo in contumacia, le regole per una detenzione dignitosa dei condannati.

Anche allora, prima degli accordi Dayton del 1995 che sancirono la fine della mattanza in Bosnia e dell’assedio di Sarajevo, le cancellerie accolsero il Tribunale ad hoc sulla ex Jugoslavia con fastidio e preoccupazione. Come gestire i contatti e le mediazioni in corso, per esempio quelle con i futuri condannati, i serbo-bosniaci Radovan Karadzic e Ratko Mladic,  con un mandato di cattura internazionale in mezzo al tavolo? Come parlare con indagati di crimini di guerra, costretti nei territori (di guerra) da loro controllati per evitare – appunto – la cattura? È stato un bel problema, allora, è vero. La diplomazia e la politica hanno dovuto reinventare percorsi, ma soprattutto hanno dovuto riconoscere che oltre una certa soglia non si può andare e che la giustizia internazionale ha un suo significato nel definire la responsabilità individuale.

Cosa succederà, ora? Gli occhi sono puntati sul nuovo procuratore, il britannico Karim Khan, appena eletto e pronto a rivestire il suo incarico il prossimo giugno, quando finirà il mandato di Fatou Bensouda. Le pressioni su Karim Khan sono già iniziate. Le indiscrezioni di stampa sono state numerose, troppo numerose per non essere  frutto delle varie ‘unità di crisi’.  Si è letto che la candidatura di Karim Khan sia stata spinta dietro le quinte proprio da Israele, che del Tpi non fa parte. Si è letto che Karim Khan sarà più morbido di Fatou Bensouda e chiuderà le indagini su Israele e Hamas.

Un bel peso sulle spalle, per Karim Khan, il cui curriculum dice già, comunque, che si tratta di un professionista più che rodato. Il suo lavoro con le corti penali internazionali data dalla metà degli anni Novanta. Cioè da metà della sua vita. Un avvocato di 50 anni che già nel 1996 collaborava con il tribunale ad hoc sulla ex Jugoslavia. Ha fatto tutto ciò che era possibile fare, nelle corti internazionali: difeso le vittime, accusato gli imputati, rappresentato le parti civili. Non solo. Ha indagato per conto dell’Onu i crimini commessi in Iraq da Daesh, andando sul luogo, incontrando le vittime. È necessario, per saggezza e prudenza, sospendere il giudizio su Karim Khan e attendere i suoi atti. Ed esprimersi solo su quelli.

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