dal nostro corrispondente da Londra Enrico Sartor –
Il 1° gennaio scorso è giunto al suo inarrestabile compimento la parabola dell’uscita del Regno Unito dall’UE. La retorica maggioritaria sia di destra sia di centro-sinistra continua a descrivere le battute finali del processo negoziale gestito dal governo di Boris Johnson come lo sforzo di una nazione indebolita a livello economico e di relazioni internazionali contro un blocco europeo che la crisi della pandemia globale ha politicamente ricompattato, fra l’altro marginalizzando le spinte populistiche e euroscettiche all’interno della scena politica dei vari Stati membri.
Gran parte dei commentatori sulla stampa liberale e di sinistra moderata sostengono che la Brexit e l’accordo commerciale[1] ottenuto da Boris Johnson creano una situazione in cui tutti – ma soprattutto il Regno Unito – sono perdenti, focalizzandosi su alcune vittime illustri dell’accordo come la fine dell’appartenenza del Regno Unito al progetto di scambio di studenti universitari Erasmus. Ma in realtà già un primo esame dell’accordo indica come esso sia in sintonia con la strategia neo-liberista che accomuna Boris Johnson e l’UE.
L’accordo non ha sostanzialmente toccato la libera circolazione delle merci, che resta sottratta a tariffe e controlli doganali troppo onerosi. I servizi finanziari sembrano fare eccezione, non avendo ottenuto lo stesso tipo di protezione dei settori manifatturieri e commerciali. Probabilmente ciò si spiega, in primis, con l’interesse dell’UE a garantire il crescente rafforzamento dei centri finanziari di Parigi, Francoforte e Amsterdam, processo iniziato già a partire dal risultato del referendum sulla Brexit del 2016 con la migrazione di diversi servizi e agenzie europee da Londra verso centri basati nel continente. D’altro lato, mentre i settori manifatturiero e commerciale britannici hanno nei paesi dell’UE la controparte più grande a livello mondiale, i servizi finanziari possono più liberamente e facilmente orientarsi verso un mercato globale, con fulcro di azione che si muove dall’area atlantica verso quella del Pacifico. Strategia questa fortemente auspicata e propagandata dal governo conservatore come terreno di grandi opportunità ed espansione per un settore che, benché costituisca circa il 7% del PNL ed abbia una forte importanza regionale data la concentrazione a Londra, è stato negli ultimi anni in fase di contrazione.
Anche la fine del regime di libera circolazione dei lavoratori, se da una parte rafforza il sostegno dell’ala xenofoba ed estremista del partito conservatore a Boris Johnson, dall’altra non è in contraddizione con una strategia neo-liberista, basata sulla compressione del costo del lavoro e degli oneri sociali. Anche se dal 1° gennaio un cittadino europeo che vuole lavorare nel Regno Unito potrà avere il visto solo tramite un sistema di punti in cui sono elementi essenziali un contratto di lavoro precedente all’ingresso nel Paese, un salario minimo medio-alto e una buona conoscenza dell’inglese, questo non sarà sicuramente un impedimento per un settore manifatturiero che, da anni, ha sostituito investimenti e innovazione con un crescente sfruttamento del lavoro e il dumping sociale. Per es., il sistema a punti è già da anni applicato ai lavoratori che vengono dai paesi non europei (Pakistan, Bengala, Sud-Est asiatico), ma questo non impedisce che l’immigrazione da quei paesi viva situazioni di altissimo sfruttamento nei settori del turismo e dell’abbigliamento nel nord dell’Inghilterra. Solo quest’anno il governo ha multato 139 imprese di grandi dimensioni (compresa Pizza Hat e Tesco, la più grossa catena di supermercati del Regno Unito) per aver pagato centinaia di migliaia di lavoratori al di sotto del salario minimo legale. Sono già in progettazione interventi legislativi ad hoc che permetteranno l’immigrazione, per esempio, di braccianti a basso costo per il settore agricolo, senza il diritto di avere con sé le famiglie e altre protezioni sociali che erano fino ad oggi assicurate ( malattia, ferie pagate, ecc.).
Al di la della retorica xenofoba che indicava nella migrazione dai paesi dell’Est Europea la causa del dumping sociale, la fine della libera circolazione dei lavoratori, lungi dall’essere una misura protettiva del mercato interno del lavoro, non cambierà un sistema manifatturiero che soffre di un’endemica bassa produttività e trova la sua competitività nello sfruttamento incontrollato del lavoro.
Del neo-liberismo che accomuna l’UE e il governo britannico dei tories è un esempio anche il modo in cui l’accordo commerciale si occupa dei diritti di chi lavora. I conservatori britannici e la UE sono in sintonia sul fatto di considerare i diritti di chi lavora non come un problema di giustizia sociale, ma piuttosto come un problema di competizione più o meno leale fra le industrie dei diversi paesi. In altre parole, l’accordo commerciale considera un problema l’abolizione di diritti dei lavoratori nel Regno Unito solo quando questa provvede un margine eccessivo di concorrenza al capitale inglese contro quello europeo. Nella loro illuminante analisi pubblicata sul Morning Star[2], Contouris, Ewing e Hendy dimostrano come molte delle attuali protezioni per i lavoratori britannici potranno essere violate o abrogate prima che scattino i meccanismi di controllo stabiliti dal TCA. D’altra parte, anche se attivati, questi meccanismi sono cosi pesantemente burocratici e limitati da avere un’efficacia quasi irrilevante per la maggioranza dei lavoratori britannici.
Lo stesso assalto sembra prospettato per quanto riguarda i diritti umani e l’appartenenza del Regno Unito alla Convenzione europea dei diritti umani (Cedu). Da molti anni la Convenzione e la Corte europea di Strasburgo sono state la bestia nera della destra neo-liberista. Nonostante la Corte di Strasburgo non sia in realtà riuscita a contenere la progressiva erosione di questi diritti sia da parte di governi laburisti che conservatori, il processo di smantellamento delle protezioni civili offerte ai cittadini sopratutto nei loro rapporti con il sistema giudiziario e la polizia ha avuto una crescente accelerazione col governo di Johnson. Prova di questa accelerazione sono la recente legge che garantisce l’impunità per ogni attività criminale della polizia e dei servizi segreti quando compiono azioni di infiltrazione (passata con l’astensione dei laburisti di Starmer) e l’accordo bilaterale della settimana scorsa con il governo turco, governo che, come nel caso del leader kurdo Demirtas, e in aperta violazione di ordini specifici della Corte europea dei diritti umani.
Mentre la crisi sociale causata dalla pandemia globale ha visto una risposta sempre più intrusiva dello stato nella vita quotidiana dei cittadini, il governo di Johnson ha lavorato alacremente per estendere i poteri della polizia e dello Stato in settori come quelli del fermo di polizia, in cui elementi di discriminazione razziale sono sempre più apertamente palesi. La Brexit e la mancanza di provvisione dell’accordo nel settore dei diritti umani sembrano un passo fondamentale sulla strada dell’uscita del Regno Unito dalla Cedu.
In questo contesto è grave la decisione del partito laburista di Starmer di votare a favore del TCA. La motivazione principale è stata quella di evitare che una sostanziale rivolta della componente euroscettica del gruppo conservatore potesse affondare l’accordo e spingere così per una Brexit totalmente senza regolamentazione. La rivolta in ogni caso non si è materializzata e il governo Johnson, la cui percepita incompetenza e corruzione è ormai sempre più evidenziata nei sondaggi d’opinione dell’elettorato, è riuscito a godersi una maggioranza quasi plebiscitaria di 521 contro i 73 voti contrari dei nazionalisti scozzesi, i libero democratici e il partito unionista (protestante) irlandese.
É una svolta che sottolinea, nonostante le critiche formali della dichiarazione di voto di Starmer, la linea sempre più moderata del partito laburista. La decisione di appoggiare un accordo che non offre alcuna protezione ai diritti dei lavoratori e dei diritti umani, in ordine di evitare il pericolo di un no-deal Brexit che avrebbe danneggiato l’economia del paese, indica la volontà di appoggiare una crescita o stabilità economica anche quando queste, lungi da portare benessere a chi lavora, sono basate su una crescente di diseguaglianza e povertà. E’ di questi giorni la revisione da parte dell’Ufficio nazionale di statistica del dato che l’1% più ricco del paese detiene non il 18% della ricchezza nazionale – come precedentemente rilevato -, bensì il 24%; e la pubblicazione dei dati che indicano come la quasi totalità degli amministratori delegati delle società britanniche listate dal FTSE100 guadagnino in poco più di un giorno il salario annuale del loro dipendente medio. Il voto del partito di Starmer è per molti aspetti una capitolazione a questo tipo di sviluppo economico.
[1] Il testo del Trade and Cooperation Agreement (TCA) del 24.12.2020 è reperibile al seguente indirizzo: http://www.astrid-online.it/static/upload/trad/trade-and-cooperation-agreement_24.12.2020.pdf.
[2] L’articolo è reperibile al seguente indirizzo: https://morningstaronline.co.uk/article/brexit-agreement-and-workers-rights.