La splendida giornata di mobilitazione contro il genocidio a Gaza del 22 settembre meriterà di essere analizzata a freddo, in tutte le sue articolazioni. Certamente ha giocato un buon ruolo la mobilitazione indetta dai sindacati di base, Usb in particolare, che ha raccolto l’appello di chi, lavorando nel porto di Genova, si era già predisposto. Ma gran parte delle persone scese in piazza in circa 80 città italiane, non rivendicava appartenenze in quel momento, non si esponeva per una propria visione politica, conteneva insieme radicalità nei contenuti e profonda disperazione emotiva nell’assistere all’ennesima invasione di carri armati che spazzavano ogni segno di vita e di futuro. E, nonostante in una giornata di lavoro sia riuscita nei fatti a fermare il Paese, raccoglieva consenso. Molte delle stesse persone che si trovavano incolonnate nelle file delle automobili bloccate, nei pressi delle stazioni, nei luoghi che si riempivano di persone e bloccavano ogni possibile mobilità, non raccoglievano odio o fastidio ma applausi e incitazioni.
Una boccata d’ossigeno in questa Italia che sembrava o capace di restare impassibile di fronte ad un momento di gravità storica o, peggio ancora, presa a dividersi in sigle, piattaforme, appelli e appuntamenti che provocavano solo lontananza emotiva, che determinavano assenza di ogni connessione sentimentale.
C’è chi ha colto nelle piazze del 22 la data di nascita di un nuovo movimento, chi ha evocato le “moltitudini”, chi ha persino parlato di nuova soggettività. E se invece fosse troppo presto per simili analisi? Si parta dal presupposto che la gravità della situazione a Gaza, per quanto oscurata dai messaggi di distrazione di massa dei media mainstream, è sotto gli occhi di chiunque, a dimostrazione che il “grande fratello” che doveva predeterminare ogni comportamento sociale, non riesce appieno nel suo scopo. Non solo le infinite reti social ma la rottura di una narrazione a senso unico è divenuta oceano informativo che ha rotto le bolle in cui tante persone vivono rinchiuse. Accade da alcuni mesi ma con un effetto volano per cui quella di ieri è già superata da quella odierna. Mobilitazioni che ricordano, per alcuni versi, le “primavere arabe”, in cui si manifestava la totale contrarietà al presente ma senza avere prospettive e progetti politici per il futuro.
Un contesto in cui anche le organizzazioni di massa o sedicenti tali, le stesse soggettività più attive, devono arrancare e predisporsi ad un ascolto non semplice, in cui prevalgono anche confusione e complessità. Le piazze del 22 hanno raccolto di tutto, in particolare il mondo giovanile, soprattutto minorile, su cui sarebbe il caso di condurre un’analisi più approfondita perché, da esponenti di generazioni e mondi più legati al Novecento, forse ne comprendiamo poco le coordinate se e quando queste ci sono.
Proviamo a suggerire due filoni. Le motivazioni che portano spontaneamente, al di là di chi chiama la piazza, tante persone ad uscire di casa, sembrano avere un carattere fortemente emotivo (non riesco più a dormire pensando a quanto accade a centinaia di migliaia di persone), quanto legato ad una sorta di disperazione di fronte ad una tragedia che entrerà nei manuali di Storia, se ce ne saranno ancora. Speranza per un popolo che resiste e che non va lasciato da solo, disperazione per la conta quotidiana dei morti, delle distruzioni, dei progetti politici di annientamento, fanno parte della stessa condizione umana.
Si sente il bisogno di affermare una propria, spesso individuale, distanza siderale, con chi vive questi giorni senza accorgersi di ballare sul Titanic, con chi resta preso da proprie misere polemiche, sterili distinguo, ricerca esibizionista di prendere la testa dei cortei, necessità di affermare il rifiuto di violenza e terrorismo quando oramai tali pratiche hanno una sola matrice. Questo sta costringendo sempre più ad una interpretazione binaria della situazione in Palestina. Se ci fosse stata una guerra vera e propria – come affermano gli opinionisti di regime – ci sarebbe stato spazio per la complessità d’analisi ma di fronte ad un genocidio rivendicato, alla dichiarazione sdoganata da qualsiasi formalismo, di voler attuare una totale pulizia etnica a Gaza per poi riproporla in Cisgiordania, non c’è tempo per disquisizioni né per cercare giustificazioni. Il nemico è uno, ha un volto e un nome, trova non complicità ma rappresentanza in maggioranze parlamentari come quella italiana e quindi c’è interruzione per ogni forma di dialettica. Non nasce un movimento quindi, potrebbe nascere una rottura, con forti caratteristiche generazionali, i cui sviluppi non sono dati. Potrebbe essere riassorbita dopo una sconfitta ed una espulsione collettiva realizzata della popolazione gazawi, potrebbe rifluire, nell’abitudine che si è oramai assunta a generare, dopo un certo numero di giorni, assuefazione che fa diventare il genocidio e la deportazione normalità. Ma, potrebbe anche generare una maggiore radicalizzazione, anch’essa priva di ogni condizionamento e eterodirezione, ma figlia di una rabbia sociale da troppo tempo covata e repressa.
E qui giungiamo al secondo filone di ricerca da suggerire. In molte città c’è stata una gestione della protesta anche intelligente da parte delle forze dell’ordine che hanno evitato interventi violenti lasciando anzi campo libero ad azioni di protesta che non avevano volontà di produrre devastazioni. Questo non è accaduto a Bologna ma, soprattutto, a Milano. E c’è una ragione. Una ragione che ha numerosi fattori ma che si gioca in gran parte sulla costruzione di un nuovo nemico politico, i “maranza”, ieri termine usato quasi solo in Lombardia e che oggi sta conquistando le prime pagine di tutti i giornali.
La definizione, un tempo riservata ai meridionali che mangiavano le melanzane fritte dal particolare odore (melanzana = maranza) si riserva oggi ai giovani del Nord Africa, generalmente chiamati “marocchini”. Per essere più precisi filologicamente l’accezione odierna è una contrazione fra “mar”, appunto marocchini e “zanza” ovvero ladruncoli e si riferisce a bande, composte soprattutto da minorenni che in alcuni casi hanno comportamenti da adolescenti aggressivi. Questi sono divenuti il nuovo pericolo su cui scatenare gli odi popolari ma, fino a quando si trattava di fenomeno marginale, la loro “pericolosità” non riusciva a costituire un buon bersaglio. Nelle manifestazioni per la difesa di Gaza e della Palestina, ragazze e ragazzi con background migratorio, soprattutto con famiglie provenienti da paesi arabi, da mesi manifestano insieme a propri coetanei autoctoni e con loro hanno costruito legami, a volte in scuole o università, più spesso nei quartieri dormitorio dell’hinterland. Si stanno creando coesioni significative e che rompono anche barriere. Distanze che si erano già rotte in molte occasioni, nei luoghi di convivialità e di socialità, di disperazione sociale e/o lavorativa, nei palazzoni della tristezza infinita ma che oggi acquisiscono nuovi punti di coesione. La repressione scatenata, in maniera esagerata alla stazione centrale, dove il caos si è prodotto in maniera immotivata, è stata attribuita penalmente ad alcuni esponenti, minorenni, di un centro sociale ma mediaticamente alle “bande di maranza”.
Non stupisce se già ora si insiste sull’urgenza di affrontare in chiave repressiva e con forti condanne stigmatizzanti ogni presenza “non autoctona” nelle piazze. In arrivo, come è già accaduto in Francia, l’accusa da rivolgere a questi gruppi di ragazze e ragazzi, ogni tipo di condanna: antisemitismo, teppismo, radicalizzazione con venature filo-jihadiste eccetera. L’allarme è servito insomma. Esistono in tali contesti comportamenti o approcci che possono motivare tali analisi? Probabilmente sì ma restano totalmente marginali. Sono figli dell’analisi binaria e a tratti campista di cui si accennava all’inizio, frutto della crescita di mondi che ci sfuggono, che sono lontani anche e soprattutto per ragioni generazionali quando non di appartenenza di classe. Forse dovremmo, invece che crogiolarci per l’avverarsi di chissà quale profezia rivoluzionaria, cercare di svolgere veramente un’opera di ricerca e di ascolto. A Milano ma non solo. Sia per disinnescare pericolosi circuiti repressivi, sia e soprattutto per determinare convergenze con mondi forse meno lontani di quanto immaginiamo.
Stefano Galieni
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Il tuo articolo è estremamente onesto e intelligente, compagno Stefano. Il 22 c’è stato anche chi è stato a casa perché non lo sapeva, o non si sente ancora o non più da piazza, come succede a volte anche a me, ingabbiato in maniera assurda per trovarsi a quest’età con un mondo opposto a quello che sognavamo a 20 anni. Mi viene da fare un confronto fra l’impotenza di chi non si trova più nelle grandi battaglie collettive perché ne conosce a fondo l’annacquamento, i compromessi, e li ha subiti da quasi tutte le formazioni, e preferisce dedicarsi a seguire con volontà silenziosa reti di mutuo auto aiuto, e l’impotenza di chi non sa cosa studia, come e per cosa lavora, veramente che futuro avrà e con chi, e queste energie chiuse le tira fuori in amore e in violenza.
Forse, novecento e duemila li dovremmo fare incontrare con il vino, come diceva Claudio Lolli(la sinistra vecchia e quella nuova, Togliatti stai tranquillo, le uniamo con i vino)